Distesa sul mio letto, adesso, con il volto reclinato, gli occhi chiusi e le mani bianche coi palmi all’insù a fare contrasto con la coperta blu scuro, è una Madonna.
Aurora mi ricorda certe edicole votive che si vedono a volte per le strade. In questo posto tanto spoglio e insieme confuso, prosaico, dove da qualche mese cerco affannosamente di diventare adulto, la sua presenza ha il carattere straordinario di un’apparizione.
Fuori dal locale, mentre aspettavamo il taxi, si è aggrappata al mio braccio. Ho sentito attraverso la manica della felpa la sua mano calda e la pressione delle sue unghie da bambina, corte e senza smalto.
In auto teneva gli occhi chiusi. Ogni tanto mormorava parole che il rumore delle canzoni alla radio sommergeva e portava via; poi ha smesso di parlare finché non l’ho aiutata a scendere e ho coperto con la felpa la sua schiena tremante. “Grazie, Gianni” mi ha detto in un soffio. Le ho scostato i capelli dal viso nel modo lento e solenne in cui scopro la finestra dalla tenda al mattino. Due astri mi hanno fissato.
In ascensore lo specchio mi ha restituito la visione di Aurora tra le mie braccia. Ho pensato alle volte che ci siamo abbracciati, mi sono chiesto se in questo momento ci sia un trasporto, un calore speciale, se ci sia insomma qualcosa di diverso. No, non è il caso di illudersi: lo fa per affetto puro, fraterno. Ho cercato conferme a questa teoria nel tipo stempiato che mi stava davanti, nella pelle di burro e nelle mani tozze allacciate alla vita di Aurora; non ho fatto fatica a trovarle.
In casa ci ha accolti il silenzio. Aurora si è tolta le scarpe con i tacchi, è diventata ancora più piccola ed è svanita nel corridoio buio che già conosce. Negli ultimi tempi è venuta a trovarmi spesso per studiare insieme, al punto che un coinquilino ha trovato il coraggio di chiedermi: “Ma allora è la tua…?” “No” gli ho risposto subito con stizza, “certo che no.” Era ridicolo che lui pensasse questo, anzi di più; era inaccettabile.
Adesso la ammiro dalla scrivania. Per la prima volta ha deciso di restare a dormire: ho preparato per me un cuscino e una coperta sul divano, in salone.
“Gianni, vieni qui.” Aurora allunga un braccio verso di me, fa un verso prolungato e acuto a bocca chiusa, un lamento angelico da cui non riesco a difendermi. Mi siedo sul bordo del letto, ma la sua mano afferra la mia maglia e tira. “Qui.”
Cado di colpo sulla coperta. Aurora attraversa il contorno della mia guancia con le dita, che solleticano come piume; la sua mano scivola sul mio collo e lì si ferma quasi a voler cercare il battito, il suono della vita oltre il silenzio. Il suo gesto ha qualcosa di nuovo rispetto al modo sicuro, rapido e limpido in cui mi ha sempre dato le carezze; è troppo lento per non essere frutto di un’incertezza. “Che c’è?” mi domanda. “Vieni, stringimi…” dice con dolcezza, unendo alla richiesta un tentativo maldestro di avvicinarsi a me con il corpo, ma i suoi capelli d’alba sono dappertutto e lei ci si impiglia dentro, se li tira da sola, sembra affondarci fino a svanire nella sua stessa luce… “Non vuoi?” “Ma no, voglio. Sì che voglio” rispondo ad Aurora che è riuscita a districarsi dai capelli, al suo volto vicino, forse troppo vicino, “Voglio, davvero…” e le mie parole entrano nella sua bocca, scivolano sulla sua lingua lucidissima, e adesso la mia voce è dentro di lei, qualcosa di mio l’ha raggiunta e non provo gioia, non provo soddisfazione, mi sento preda di un’intimità che sconfina e diventa irreparabile colpa.
“Ma perché adesso?” le chiedo cercando il suo sguardo senza trovarlo. Aurora ha gli occhi chiusi e le labbra ancora sporche di rossetto, quello che mette di sera nonostante non le si addica per nulla, nonostante la faccia sembrare una ragazza provocante, una facile. “Perché?” ripeto. Aurora si scosta. “Ma che vuol dire, perché?” domanda. È confusa, balbetta. “A te non va, scusa? Io pensavo…” “Sì che mi va”, ma non ne sono così sicuro e penso con una specie di nostalgia a un minuto fa, quando Aurora semplicemente dormiva e assomigliava a qualcosa di sacro e inviolabile.
“Qual è il problema?” mi chiede. “Non ti piaccio?” Pare sul punto di piangere, ma non lacrime degne di lei cioè di tenerezza e di compassione; no, piange per l’orgoglio ferito dal mezzo rifiuto ricevuto. È una scena così assurda da risultare fastidiosa. “Perché, io ti piaccio?” “All’inizio no, eri un amico; ma sento che negli ultimi tempi sta cambiando qualcosa.” “Come no!” “Sono sincera!” Il viso bianco di Aurora è diventato tutto rosso. Si mette a sedere, fissa la mensola dei libri di fronte a lei. “Perché fai così?” “Non lo so” le dico.
La guardo mentre si alza in piedi e raggiunge la scrivania, dove sono rimasti aperti i libri dell’esame di letteratura italiana. Aurora prende in mano l’antologia, la sfoglia e poi me la passa. “Tu fai così” mi dice. Leggo qualche rigo sulla pagina aperta, prima di restituirle il libro. “Perché?” mi domanda.
Mi alzo anch’io: siamo l’uno di fronte all’altra. Aurora ha i capelli scompigliati, una macchia di vino sulla camicetta, le calze bucate. Sono tentato di dirle che non è mai stata bella come quando l’ho vista la prima volta. Non glielo dico perché la vedo così umana, ora. Se allungo una mano posso toccarla, se dico le cose giuste posso persino entrarle dentro.
“Cosa ti piace di me?” mi chiede intanto. Aurora è spaesata, cerca un’occhiata di conforto ma non posso dargliela. Tendo un braccio verso di lei per accarezzare la confusione bionda sulla sua testa: mi sembra di sfiorare una memoria, di toccare con mano la morte di una magnifica idea, di una visione presa a morsi dalla realtà. “È tardi, Aurora. Buonanotte” dico. Le do un rapido bacio sulla guancia ed esco.
“Cosa mi piace di lei…” mi domando in corridoio. Mi stendo sul divano e mi tiro su la coperta. E solo allora, al buio e nel silenzio, sono in grado di darmi una risposta.