Capitava che il vento soffiasse per giorni, ma mai più di tre o quattro. Sferzava violentemente sugli alberi, le automobili e sulle poche persone che decidevano di avventurarsi fuori. Tutte quelle raffiche diffondevano un rumore spaventoso, simile a un fischio.
Quella volta dicevano che sarebbe durato di più del solito, ma nessuno aveva capito quanto. Nell’isolato avevamo preso le precauzioni di sempre, soprattutto per i vasi con le piante. C’era chi li aveva legati insieme, alla base, per poi assicurarli con una catenella a un supporto rigido, chi li aveva inseriti dentro una cassetta per le verdure, incastrandoli perfettamente nel perimetro di plastica e chi li aveva portati dentro casa e aveva trasformato il salotto in una specie di serra.
Noi di piante da esterno non ne abbiamo. A Carmen non piacciono. Dice che davanti a casa danno un’idea di disordine. Preferisce comprare palme o banani da interno e sistemarli in vasi ampi sul pavimento. Quando le foglie iniziano a ingiallirsi, Carmen le butta nel bidone dell’immondizia alla fine della strada.
“Tanto non rivivono”, dice.
È un’espressione sgrammaticata che odio, ma lei usa sempre quella. Io preferirei provare a cambiare posto ai vasi, per vedere se riprendono vita del tutto, ma lei prende la pianta dalle foglie più alte e la trascina fino ai bidoni tenendola come un coniglio per le orecchie.
Sparge sempre un po’ di terra lungo il percorso.
Con le piante ci devi parlare, dicono. Allora, quando di notte non dormo, mi metto accanto a quelle che sono ancora incolumi nel salotto e parlo di qualcosa. Politica, viaggi, musica. Con Carmen non posso farlo. Si annoia.
Era la prima notte di vento ed ero seduto davanti alla finestra, sul tappeto. Parlavo con la felce dei cambiamenti climatici. Anche tutto quel vento, per esempio, non era normale. E poi era successo. Dei fari avevano illuminato il vialetto e un’auto si era arrestata davanti alla casa accanto alla nostra. L’uomo alla guida aveva spento il motore di colpo e si era accasciato sul volante, chiudendo gli occhi. Doveva aver guidato tutta la notte. La donna era stata la prima a scendere, aveva aperto il bagagliaio e aveva iniziato a tirarne fuori il contenuto. Valigie, sacchetti di plastica e scatole di cartone. L’uomo che stava nel posto di guida aveva sollevato la testa e aveva estratto un paio di chiavi dal portadocumenti dell’auto. Era sceso giù, si era sgranchito le gambe facendo dei piegamenti lenti sulle ginocchia, roteando i gomiti e le mani verso l’alto. Quando aveva finito, si era diretto verso il cancellino, lo aveva aperto ed era sparito dalla mia vista per pochi minuti. Poi era tornato e aveva iniziato a fare la spola fra dentro e fuori, portando in casa gli oggetti che la donna gli passava, uno a uno. Dall’auto era uscita anche una ragazza e aveva cercato di aiutarlo con qualche borsone, ma dopo poco si era fermata. La madre le aveva detto qualcosa tipo: “Ci metteremo una vita, così”. La ragazza non aveva risposto e si era appoggiata di schiena sul cofano. Doveva scottare perché si era alzata di scatto, voltandosi verso il basso, controllandosi i pantaloni e poi con più cautela si era abbassata di nuovo, cercando qualcosa nelle tasche del giubbino.
Si era portata una sigaretta alla bocca e l’aveva accesa al primo colpo, nonostante il vento stesse iniziando a soffiare con più forza. I capelli invece sbattevano a destra e a sinistra, si alzavano in alto e poi scendevano di nuovo bruscamente, assumendo mille forme tutte diverse.
“L’hanno presa”, avevo detto a Carmen. Quando è appena sveglia, ha bisogno di qualche ora prima che inizi a comprendere i discorsi. Si era girata dall’altro lato, aveva spento la luce che avevo appena acceso e mi aveva detto: “È domenica, dormi.”
Non avevo dormito quasi per niente, quella notte. Mi succede spesso. Quando mi sveglio in mezzo alla notte per riprendere sonno, oltre che parlare con le piante devo camminare o leggere qualche articolo su internet. Più tardi Carmen stava addentando del pan brioche con crema di nocciole. Era densa, le si attaccava ai denti e al palato e prima di parlare doveva buttare giù un sorso lungo di spremuta d’arancia che le avevo preparato e strofinarsi la lingua dappertutto.
Mi piace tagliare le arance a metà e scoprire se sono chiare o rosse. Quelle erano rosse.
Carmen non parla molto fino a pranzo, di solito, poi inizia a farlo tutto d’un tratto. Quel giorno aveva aperto la portafinestra da cui si accedeva alla corte interna in comune con la casa accanto.
“Ma c’è qualcuno!”, aveva esclamato.
“Sì, è quello che cercavo di dirti stamattina.”
Dietro la portafinestra dei vicini si intravedevano delle sagome.
Poi si era diffuso un rumore di trapano elettrico. Una sagoma sottile con i capelli lunghi fino alla schiena era transitata lentamente, come un ologramma.
Carmen mi aveva dato un colpetto col gomito: “È una bella notizia, dai. Non siamo più soli.”
Si erano affacciati nella corte in comune verso l’ora di pranzo. La donna doveva aver insistito, per dimostrare la loro educazione. L’uomo, invece, a vederlo così da vicino non sembrava convinto della visita. Forse temeva che l’eccesso di zelo li facesse passare come troppo invadenti. Non avevano fatto passare nemmeno un giorno dal loro arrivo. Era stata la donna a bussarci al vetro e poi a suonare il piccolo campanello senza nome accanto alla portafinestra. Quando li avevamo accolti, insieme, aveva parlato solo la donna, raccontandoci che fatica avevano fatto per scaricare tutti i bagagli con quel vento. Io l’avevo vista, ma lei non lo sapeva. Aveva gli occhi accesi da qualche tipo di emozione. L’uomo invece era rimasto silenzioso con le braccia conserte davanti al petto. La ragazza stava dietro a entrambi. Aveva detto solo “piacere” senza stringerci le mani, il resto lo aveva detto la madre, anche il suo nome. Alissa. I capelli rossi le incorniciavano il viso magro e finalmente stavano fermi, sulle spalle. Nella corte il vento non entrava mai, se non per qualche mulinello sporadico e innocuo.
“Rimanete a pranzo?”, aveva chiesto Carmen dopo i primi convenevoli. Le piaceva essere ospitale anche con chi non aveva molta confidenza. La donna, che si chiamava Flora, aveva guardato il marito, che si chiamava Steve, per cercare appoggio o dissenso. Lui aveva sciolto le braccia, aveva alzato le spalle e i palmi verso l’alto, come a dire, ok va bene, ma decidi tu.
“Non vorrei disturbare”, aveva aggiunto Flora.
“Ma no, poi non avrete niente in frigo, siete arrivati troppo tardi. Dai, entrate, non fate complimenti”, aveva detto Carmen, lasciando il passo libero per i nuovi vicini.
“Alissa?”, la donna si era voltata verso la ragazza, che aveva gli occhi abbassati sul telefono. “Alissa, tu vuoi rimanere?”
Alissa aveva gettato lo sguardo oltre alla madre e lo aveva fissato su di me. Anche se l’invito era partito da Carmen, era me che aveva guardato, senza parlare. Era uno sguardo pieno di cose che stridevano fra loro e facevano un rumore insopportabile. Non so cosa mi era preso, ma avevo dovuto smettere di guardarla, così avevo detto qualcosa, per stemperare la tensione, e anche Carmen era rimasta sorpresa perché non ho mai slanci di quel tipo: “Ma sì, Alissa, dai, entra.”
Carmen aveva preparato dei crostoni con il burro e le acciughe presi in gastronomia e spaghetti con il pesce. Avevamo delle vongole e dei gamberi surgelati nel freezer. Ci era voluto poco per far sciogliere il ghiaccio nel forno a microonde e nella bacinella in cui li aveva sistemati i molluschi galleggiavano come in un acquario minuscolo.
Io mi muovevo su e giù per la sala da pranzo, sistemando la tavola e versando vino nei bicchieri di tutti. Quando ero arrivato a quello di Alissa ero stato in dubbio, ma lei mi aveva guardato di nuovo in quel modo profondo che mi aveva fatto tremare un po’ il polso. Mi aveva allungato il calice e avevo versato dentro del vino bianco francese.
Avevamo consumato il pranzo in modo veloce. Non ci conoscevamo per niente, allora, ed era difficile proseguire una conversazione dopo le prime classiche domande sul lavoro, il posto da dove venivano, gli studi di Alissa.
In quel caso aveva risposto Flora per lei e Alissa aveva di nuovo evitato di guardarla e aveva fissato me per tutto il tempo.
“Alissa studia teatro, è bravissima!”
“Bellissimo”, avevo sussurrato, “Cosa ti piace interpretare?”
“Gli animali.”
“Tipo musical?”
“Mi piace recitare come se fossi un animale. Una tigre, un’aquila, un gatto. Così.”
I gusci dei gamberi formavano una montagna croccante sui piatti. La più bassa era quella di Alissa. Non aveva mangiato molto e Carmen durante il pranzo l’aveva messa in imbarazzo più volte dicendole: “Ci credo che sei così magra.” E poi subito aveva ritrattato: “Sei giovane, goditelo adesso questo fisico.”
Con Steve invece avevamo parlato di investimenti in borsa e di Asia. Lavorava in una multinazionale di cibo etnico, sapeva tutto sulla salsa di soia e il ramen. Erano i primi anni che anche da noi iniziava a essere di tendenza il cibo asiatico. Mentre parlava aveva uno strano tic all’occhio e per evitare di fissarlo troppo a lungo avevo iniziato a sezionare in piccoli pezzi il tovagliolo di carta.
Il secondo giorno è il peggiore per il vento, ma ancora di più la seconda notte. Quando pensi di esserti abituato, lui arriva e scombina tutto, facendoti sentire insicuro e fragile. Quella domenica notte fu la peggiore di tutte le notti, in ogni senso. Il vento, nei cerchi violenti che disegnava in aria, sembrava parlare in una lingua sconosciuta.
Mi ero svegliato, anche quella notte, troppo presto, e mi era venuta voglia di una sigaretta. Ogni tanto me ne faccio una. Evito le dipendenze perché ne sono affascinato e so che ci finirei schiacciato sotto. Come le droghe. Non ho provato mai niente, solo l’erba da ragazzino.
Avevo arrotolato la cartina in modo maldestro e quando avevo leccato un lembo per farla attaccare, un po’ di saliva mi era colata sul dito. L’avevo spalmata sulla superficie della cartina ed era diventata tutta umidiccia. Ero uscito nella corte per accenderla ma per via del vento non ci ero riuscito. Avevo pensato di rientrare e rimandare la sigaretta al giorno dopo, poi qualcosa si era mosso e una piccola fiamma si era avvicinata. Dietro c’era Alissa.
“Tieni.”
“Grazie”, le avevo detto sorridendole.
Nella penombra anche lei sembrava sorridere, pareva in qualche modo felice di essere lì. Un’altra cosa di cui mi ero accorto era la sua pancia scoperta. Aveva un pigiama di raso e il pezzo di sopra era corto e lasciava fuori l’ombelico e il ventre teso. Le gambe erano nude e i piedi finivano dentro a delle ciabatte pelose che le coprivano le dita dei piedi. Anche lei stava fumando.
“Non senti freddo?”
“Un po’.”
Nel frattempo avevo acceso uno dei lampioncini della corte, il punto dove ci trovavamo si era rischiarato. Eravamo rimasti in silenzio per qualche istante. Poi Alissa mi aveva guardato e mi aveva chiesto: “Tu ce l’hai un animale guida?”
Io ero rimasto spiazzato. Che razza di domanda era? Avevo fatto un tiro alla sigaretta, ormai a metà, poi avevo detto: “No, tu?”
“Il mio è il gatto. Vorrei essere un gatto nella prossima vita.”
Avevo annuito come se fosse un’ovvietà.
“Non dormi?”, le avevo chiesto, “di solito, dico.”
“Di solito sì, ma non sono abituata a questo vento. Questa dove la spengo?”
Mi aveva indicato la sigaretta, quasi finita.
“Puoi darlo a me, la porto dentro e la butto nel cestino.”
Si era avvicinata e io avevo sollevato il palmo della mano per accogliere la sigaretta. Lei si era abbassata per spengerla nella ghiaia ma quando si era alzata ce l’aveva ancora fra le dita. “L’ultimo tiro”, aveva detto. Era così vicina a me che avevo sentito il suo fiato inumidirmi il volto. Avevo ritratto il palmo della mano e le avevo urtato un seno.
“Scusa.” Lei si era avvicinata ancora di più, come se volesse recuperare a tutti i costi quella distanza minima che ci separava. Potevo contarle le ciglia. Erano lunghissime.
Aveva fatto un ultimo profondo tiro, le si erano riempite le guance e poi aveva avvicinato la bocca alla mia e ci aveva soffiato dentro tutto il fumo sfiorandomi le labbra. Erano davvero morbide come sembravano. Mi aveva ripreso la mano, se l’era portata di nuovo verso il seno che le avevo urtato per sbaglio. Avevo aperto il palmo o forse era stata lei a guidarmi. Si era appoggiata la mano sul petto e aveva stretto le dita intorno al suo capezzolo.
Le nostre sigarette erano cadute e io avevo chiuso gli occhi per contenere l’eccitazione. Avevo pensato di volerla in quell’istante e che avrei potuto strapparle la canotta di raso e leccarla dappertutto.
“Adesso ho davvero freddo, vado”, disse.
Prima di allontanarsi si tirò sulle punte per raggiungere l’altezza della mia bocca e ci appoggiò la sua sopra, per qualche istante, senza schioccare un bacio vero.
Poi si allontanò. Mentre ancheggiava, i capelli si erano alzati un paio di volte per via delle raffiche di vento.
Il resto della notte il vento fu piuttosto violento. Abbatté due lampioncini nella corte interna e uno in strada. Erano cadute tre tegole. Io non ero riuscito a prendere sonno. Ero rimasto per tutto il tempo davanti al vetro che dava sul cortile, aspettando che Alissa tornasse fuori. Quando avevo provato a dormire, seduto per terra e appoggiato alla porta vedevo ovunque il suo pigiama di raso e le sue ciglia lunghissime.
Il terzo giorno sembrava che tutto stesse per morire da un momento all’altro. Anche le case sembravano indebolite dal vento, le facciate assomigliavano a costruzioni di cartapesta che scivolavano su loro stesse, ma in realtà si trattava solo di fatica. Tutto quello sferzare, fischiare, rompere, stancava anche se noi umani eravamo al riparo. Al notiziario dissero che tre persone erano morte per cadute di alberi e di tegole. Mi ero chiesto come doveva essere crepare così, in un modo apparentemente stupido. Inizai a lavorare al computer più tardi rispetto al solito. Il weekend era finito ma gli strascichi della sera prima si facevano sentire sulle palpebre, pesanti. Il fiato in bocca era pesante e avevo bevuto più acqua del solito. Mentre pisciavo nel bagno con la piccola finestra aperta sul cortile, era sbucata Alissa. Avevo dato le spalle all’apertura e mi ero rivestito velocemente, incespicando nella cerniera.
“Ma che cavolo!”, esclamai.
“Che fai? Ti vergogni?”, mi chiese lei con la sua voce vellutata. Sembrava ancora più delicata del giorno prima, come se il riposo l’avesse ricaricata di dolcezza.
“No, è che non sono abituato ad avere vicini. Qui è stato vuoto per tanto tempo…”
“Volevo solo salutarti, tranquillo. Fumi una sigaretta con me?”
“Arrivo.”. Misi la testa fuori dalla porta che dava in cortile e ritrovai Alissa vicina alla finestra dove si era affacciata. Dondolava sui piedi e aveva solo una maglietta addosso, le sfiorava il bordo delle natiche.
“Vieni dentro, fa freddo”, le dissi.
Alissa entrò correndo, la maglia si sollevò fino ai fianchi, quando fu al centro della cucina fece un salto: “Sì, freddissimo.”
Il vento si fece strada prepotentemente dalla porta e dovetti fare una forza incredibile per richiuderla.
“Ma tu a scuola non ci vai?”
“L’accademia è chiusa il lunedì.”
Feci un lungo tiro. Lei con un balzo si sedette sul bancone della cucina, il sedere che aderiva al piano in lavagna scuro, le cosce che si allargavano a contatto con la superficie e l’interno delle gambe che diventava un tunnel verso un luogo buio e misterioso.
“Carmen dov’è?” Non risposi, alzai le spalle, continuai a fumare. Non sapevo davvero dove fosse.
Mentre la sigaretta si accorciava e il filtro iniziava a scaldarsi fra le dita, Alissa continuava a dondolare avanti e indietro col busto e allargava impercettibilmente le gambe. Il tunnel era diventato più spazioso, quasi accogliente.
“I tuoi sanno che sei qua?”
“Secondo te?”
“Credo di no. E credo anche che non penserebbero bene di questo.”
“Di questo cosa?”, chiese Alissa sorridendo in modo malizioso.
“Forse è meglio che tu vada, davvero”, sentivo dentro di me la forza per farcela, per evitare di combinare un casino, dentro casa mia per giunta. Una folata di vento aveva buttato giù un vaso, mi ero voltato indietro di istinto, ma non potevo vederlo da lì, forse era l’anfora con dentro l’agave, Alissa era scesa felina dalla cucina e mi stava vicinissima.
Il bacio fu lungo come la lingua di Alissa, una delle più grandi che avessi mai sentito dentro la bocca. Prendeva fiato per un istante e poi di nuovo me la spingeva in profondità, quasi in gola. Tutto sembrava pericoloso e necessario. Mi sembrava imprescindibile essere lì a baciare una ragazzina semisconosciuta. Alissa si sfilò la t-shirt da sopra la testa, la gettò a terra. Era completamente nuda tranne che per un paio di mutandine nere, di cotone semplice, da adolescente. Gliele strappai con le mani, facendomi male alle dita, ma poco importava. La afferrai per i fianchi e la rimisi sopra al bancone, le allargai le gambe al massimo. Il tunnel era ora un varco spazioso, dove potevo infilare di tutto. Era umido, le mani scivolavano, le mie le sue, dentro e fuori. Alissa non ansimava, era decisa e risoluta, senza chiudere gli occhi assecondava i movimenti e ne creava di nuovi. Io ero accecato da un piacere mai provato. Poi la serratura scattò e la voce di Carmen al telefono riempì l’ingresso. Alissa recuperò la maglia e le mutandine, indossò solo la prima. Si pulì le labbra umide. Io mi riallacciai i pantaloni più veloce che potei.
“Non sentirti in colpa, tutto passa, tutto se ne va. Me lo dice il maestro di teatro quando ci vergogniamo di entrare in scena.”
Faticai a immaginare Alissa che si vergognava di fare qualcosa. Fui improvvisamente curioso di vederla in ogni contesto della sua vita. Quando si lavava i denti, quando andava a correre, quando studiava un copione, quando litigava con i suoi genitori.
Nel momento in cui Carmen arrivò in cucina, a cercarmi, Alissa era sparita dentro casa sua e la porta sul cortile era rimasta aperta. Il vento creò un piccolo mulinello di cartacce e foglie morte.
Quella notte il vento si calmò. Al meteo dicevano che la tempesta che sembrava dovesse durare per settimane si era spostata a sud. Il vento aveva lasciato spazio a nuvole nere cariche di pioggia che però non facevano paura visto che la temperatura era di nuovo salita riscaldando l’isolato. Finalmente mi infilai nel mio letto a un’ora normale, sfilai i calzini solo dopo essermi abituato al materasso fresco e Carmen si distese accanto a me poco dopo.
Raramente facevamo l’amore. Si era creata una barriera fra di noi, fatta di cose non dette e di abitudini costruite giorno dopo giorno per evitare di guardarci l’un l’altro troppo a lungo. Era comunque piacevole avere un rifugio, alla fine di tutto, in cui non dover fare niente se non provare a essere invisibile. Carmen si addormentò subito dopo aver spento la luce mentre io mi rigirai fra le coperte per qualche ora. Pensavo ad Alissa, alla sua voce, mi sforzavo di memorizzarla e conservarla nei ricordi a lungo termine per quando non avrei più potuto sentirla, per quando si sarebbero trasferiti di nuovo, pensavo al suo corpo caldo e magro, alla sua giovinezza. Mi sentivo in colpa ma anche straordinariamente bene. La sognai, ma a un certo punto del sogno perdeva tutti i denti e ciocche di capelli ricci che in realtà non aveva.
La mattina dopo, l’eccitazione dei pensieri rivolti ad Alissa mi aveva fatto venire voglia di toccare anche mia moglie ma lei non era lì. In bagno mi masturbai e poi mi lavai la faccia. Quella di Carmen al piano di sotto era verdognola con un’espressione preoccupata.
“Non hai riposato bene?”, le avevo chiesto.
“Stanotte è successa una disgrazia.”
“Che cosa?”, avevo chiesto. Carmen aveva indicato la porta dei vicini.
“Alissa. Tutti.”
“Cosa?”
“Hanno trovato Flora e Steve sul pavimento della cucina, morti, in un modo strano.”
“In che senso, Carmen? Così mi metti paura, spiegati meglio.”
“Non saprei spiegartelo meglio, girano delle foto, non so come. I poliziotti forse, quel capitano della polizia, le ha girate a qualcuno, guarda.”
Carmen tirò fuori il cellulare dalla tasca. Le mani le tremavano con scosse violente. Cliccò sulla penultima foto della galleria. Mi si chiuse lo stomaco e credetti di svenire.
I volti dei nostri vicini di casa erano completamente sfigurati. Sembravano mancare gli occhi dalle orbite, intorno alle fosse vuote e scure c’erano alcuni denti e dei capelli e al posto della bocca c’era un buco nero di morte e sangue.
L’unica domanda che riuscii a fare: “E la ragazza?”
La chiamai così d’istinto, senza pensarci non dissi il suo nome. Ne annientai l’esistenza mentre cercavo di annientare il ricordo della scorsa notte.
“La ragazza non si trova”, disse Carmen.
Sentii le ginocchia cedere, cercai una sedia dietro di me, mi ci accasciai e ascoltai il racconto completo.
Avevano suonato al campanello, qualche ora prima. Di solito era il postino, invece era la polizia. Avevano fatto a Carmen alcune domande sui vicini, sul loro arrivo, se c’erano stati dei contatti ravvicinati.
Carmen aveva risposto a tutto. Poi era stata lei a chiedere cosa fosse successo. Nel frattempo la chat del vicinato stava esplodendo, le foto erano state inoltrate da qualcuno e poi era circolata la voce che Alissa fosse scomparsa, forse rapita dagli aggressori, forse scappata per paura.
Per tutto il tempo avevo sentito sotto le dita la consistenza della stoffa del pigiama di Alissa e sulle labbra quella della sua bocca. Mi ero concentrato sul ritmo del mio cuore e sugli oggetti in cucina cercando di ricordare quando li avevamo acquistati, per mantenere un’espressione di spavento più neutrale possibile.
Alissa, sparita.
“Non hai niente da dire?”
Avrei voluto chiedere a che ora era successo tutto ciò, e perché a loro. In quel momento, fuori, sul davanzale della finestra era sbucato un gatto. Non c’erano mai stati gatti nel vicinato. Si era soffermato a guardare dentro, muovendo il collo con la fluidità tipica dei felini, poi era sparito dietro al muro, ondeggiando sulle anche. Il cuore aveva iniziato a battermi dentro la cassa toracica così forte che pensavo che anche Carmen lo avrebbe sentito. Allora per stemperare la tensione, come qualche giorno prima, avevo detto qualcosa.