Un bagliore violaceo illumina la finestra subito prima che deflagri il rombo del tuono, tremano i vetri, poi si fa buio. Giada non lo sa dove si trova il quadro elettrico. Ovviamente non lo sa, era Matteo a occuparsi di riattaccare la corrente in questi casi. Affonda il piede scalzo in una scarpa, ma l’altro si agita a vuoto, la seconda dev’essere finita chissà dove.
Sua madre entra nella stanza seguendo le pareti con una mano, quasi la casa non fosse la stessa in cui vive da quarant’anni; nell’altra tiene una candela votiva, il suo chiarore scava nelle pieghe degli occhi stretti. Le giapponesi non invecchiano mai, poi tutto insieme, pensa Giada.
Si fronteggiano indecise sul da farsi: nemmeno sua madre sa dove è il quadro elettrico. Vede il proprio smarrimento riflesso sul viso di lei e prova un moto d’amore per questa donna con la quale condivide un senso di incapacità e incompiutezza tanto radicato che deve esserle stato passato con il sangue. Le viene da sorridere, poi però il suo sguardo scivola giù lungo le braccia sottili di Reiko e scova la mano che le pende lungo i fianchi, un foglietto bianco stretto tra le dita. Li dissemina dappertutto: origami di carta bianca con sopra il nome di suo padre e quello di un kami in kanji sottili, nascosti nei mobili, nei vasi, nella credenza, negli interstizi del battiscopa.
Tutti quei maledetti foglietti.
Pensa all’irritazione di Matteo ogni volta che ne trovava uno occultato in giro, la scenata che ha fatto a Natale, quando ne è cascato fuori uno dalla federa rifacendo il letto, ai raid di Reiko non sfuggono nemmeno gli spazi personali. Il sorriso le muore sulle labbra, lungo la schiena risale un fremito di rabbia per questa donna testarda e tirannica, e fissata con queste cazzate scaramantiche.
Vorrebbe strapparglielo, quel foglietto, e urlarle contro; invece si volta verso il salone buio, prende una candela e la accende a quella della madre evitando di guardarla, poi imbocca la porta. Il pianerottolo è buio. La luce è mancata in tutto il palazzo, qualcuno presto sistemerà i contatori, allora.
Torna in salone e si accascia sul divano. Reiko dissemina di candele la stanza cantilenando un norito a mezza voce, movimenti cadenzati inframmezzati da gesti a mano aperta. Passa come una sagoma scura davanti al cielo rischiarato dai lampi, esplosioni pervinca e indaco nelle nubi che si stanno addensando.
Un tuono esplode più vicino e la finestra si spalanca di botto, gli infissi scagliati contro gli stipiti dalla furia delle raffiche di vento. La tenda si gonfia e si solleva, schiaffeggia l’aria e sibila contro Reiko che se ne ritrae urlando, rovina a terra e inizia a piangere sommessamente, il viso nascosto tra le mani. Le candele si sono spente.
Yūrei, sente in un sussurro Giada chinandosi sulla madre, Yūrei, ripete Reiko scuotendo la testa. È solo la tenda, mamma, niente fantasmi! Ma le esce con un tono più aspro di quello che vorrebbe. Le finestre sbattono, Reiko ha un sussulto e si aggrappa alla felpa della figlia. È così minuta che per cingerle le spalle basta l’avambraccio, la schiena curva e la nuca piegata in avanti, colpa delle ore passate china a pregare perché il marito scomparso trovi pace.
Non vuole sentir ragione, Reiko, e Giada sa che è inutile costringerla a vedere ciò che si ostina a ignorare. La macchina mai ritrovata, la somma prelevata in banca il giorno prima della sparizione. Nulla riuscirà a convincere questa donna che il marito non è morto in un incidente, solo e pieno di rimpianti mentre pensava a loro, diventando uno yūrei, un’anima senza pace.
La pioggia cade con rumore più attutito, ora, e Reiko sembra essersi calmata, le tiene la mano e le sussurra: Eri così premurosa anche quando eri piccola. Matteo ha fatto un enorme errore, vedrai che se ne renderà conto.
E tu, dei tuoi? pensa lei di rimando, ma non lo dice.
Scendo a vedere il contatore, sembra che nessun altro lo farà, dice invece. Si sfila dall’abbraccio, afferra il cellulare dal tavolo e infila con furia la porta.
Tutto è ancora immerso nell’oscurità. Accende la torcia del cellulare e scende con cautela, la luce del lampione in strada illumina la tromba delle scale di un chiarore spettrale e Giada si ferma, cercando il familiare rumore di vita quotidiana dagli appartamenti del piano di sotto, ma nulla. Non il vociare dei ragazzi del terzo piano, non una lavatrice che finisce il suo ciclo, nemmeno un bisbìglio dal salone della Marciante, che ascolta la TV a tutto volume perché è mezza sorda. Nulla, eppure sono solo le undici. Possibile che nessuno si sia reso conto dell’interruzione di elettricità? Viene attraversata da un pensiero assurdo: lei e Reiko sono le sole persone ancora vive nel palazzo, la Marciante è morta, e il suo cadavere verrà ritrovato spolpato dai gatti. Così sua madre potrà aggiungere un nome sui suoi dannati foglietti ofuda, e saranno due gli yūrei sulla sua lista.
Un tuono vigoroso punisce l’insolenza del suo pensiero e la vetrata intera dell’androne trema, il vetro geme nel vecchio telaio di stagno. Una macchina accosta davanti al portone e lei si protende verso i fanali rossi riflessi sull’asfalto, verso l’aria fuori che immagina fredda e mossa, il rumore di un motore che le pare conosciuto. Tira la maniglia e lo scroscio d’acqua la investe, fa due passi avanti senza sapere dove dirigersi, poi torna dentro all’androne rabbrividendo.
Imbocca di corsa la rampa che dà al seminterrato, saltando i gradini, quando arriva davanti al quadro dei contatori si blocca di colpo: non ci sono etichette con i nomi sugli apparecchi, solo lettere e numeri. La lettera deve corrispondere alla scala, immagina, ma non ricorda quale è la loro. La C? La B? Opta per il contatore contrassegnato B9, ma quello non si apre. Punta la torcia su C9 e riprova, l’anta cigola sul cardine e si schiude a fatica, ma il display è spento. Resta in ascolto, nessun ronzio, il quadrante tace.
Niente da fare, chissà cosa si aspettava di risolvere, poi. Sarà una notte di candele. Nel buio urta il carrellino delle pulizie, l’odore ammuffito degli stracci e quello della varecchina le fanno pizzicare il naso. Starnutisce e ascolta l’abbattersi delle gocce sul lucernario, lo sguardo fisso su un altro secchio, gli oggetti sparsi di un’altra portineria.
È tutto silenzioso ora, nella portineria della scuola. Il neon sfarfalla, proiettando la sua luce sulle sedie verdi e su un calendario, la pagina ferma su settembre 1992; ma Giada sa che queste sono le piogge di novembre, la porta dell’inverno come le chiama suo padre. La bambina tormenta una pellicina sul pollice e guarda la pioggia rigare il vetro, si sente solo il picchiettio della pioggia sul mattonato e sulle foglie dell’ortensia.
Non come prima, nell’atrio della scuola gremito di bambini vocianti. La segatura di legno trascinata dagli stivali di gomma, giacchini e piumini che fendevano sibilando l’aria calda dello stanzone agitati in un caleidoscopio di colori. Poco dopo era arrivato il macchieggiare variopinto degli ombrelli aperti dai genitori, il flop sincopato del loro sbocciare in corolle di rossi, rosa e blu, poi il defluire di forme indistinte che punteggiavano il cortile. Infine, era rimasta solo la segatura sporca di fango, il riflesso delle luci gialle delle lampade nell’atrio vuoto, e oltre, il nero della notte.
Cosa fai ancora qui? aveva chiesto la moglie del custode, dov’è il signor Gianfranco? Giada aveva alzato le spalle perplessa, suo padre non aveva mai tardato tanto. Non ha detto nulla quando è stata accompagnata in portineria per chiamare a casa, già lo sapeva che il telefono avrebbe suonato a vuoto: se suo padre non c’è nessuno risponde, sua madre non parla l’italiano.
Arriverà, la donna le sorride a disagio, aspetta qui che vado a fare un tè.
Il temporale prende forza, il vento si fa teso, tiranneggia la tenda scolorita che si gonfia e turbina nel vuoto. Giada soffia sul tè e fissa l’incresparsi della superficie.
Non la sa la strada per tornare a casa, non è mai successo che suo padre non venisse. Manda giù un sorso troppo caldo, fissa il buio nel cortile e gli alberi che agitano le fronde al cielo appaiono enormi e incombenti, e lei pensa che non saprebbe nemmeno se andare a destra o a sinistra, una volta uscita dal cancello. Il telefono suona ancora a vuoto, la bidella si torce le mani con la cornetta incassata tra spalla e orecchio. È tardi, deve tornare a casa a preparare la cena, parla a monosillabi alla persona che finalmente risponde all’altro capo della linea, alzando la voce come se questo rendesse più chiari i vocaboli per una straniera: Giada, scuola, venire. Ha risposto Mamma.
Papà davvero non viene, allora?
Presentimento, dirà poi Reiko riguardo all’aver risposto al telefono, al che Giada non chiederà che presentimento aveva quando lui usciva la sera e rientrava solo a mattina fatta.
Giada ha improvvisamente freddo, il vento aggredisce la tenda, un’ultima sferzata e si strappa, il ringhio rauco del tessuto lacerato fende l’aria e il panno atterra nel fango. Il rumore le dà la nausea, si preme inutilmente le mani sulle orecchie. Un’ultima raffica trascina lo scampolo inzaccherato nella notte, quando sparisce dalla sua vista respira a fondo, finalmente, chiude la porta a vetri e si rannicchia sulla sediolina verde, il tè è ormai freddo.
La sagoma di Reiko si distingue appena nel muro d’acqua, minuta e flessuosa, una mano aggrappata all’ombrello grigio, l’altra a fermare i capelli sciolti agitati dal vento. È venuta a piedi, la macchina l’ha presa suo padre, e comunque Reiko non sa guidare; ed è a piedi che madre e figlia si incamminano verso casa, passi corti e rapidi, così diversi dalla falcata lunga e cadenzata di suo padre. È un passo tutto nuovo, lo impara a conoscere seguendolo alla luce intermittente dei fulmini. La pioggia tempesta il selciato tanto forte da biancheggiare in schiuma, scorre in rivoli ai loro piedi; Giada la guarda mulinare nel tombino mentre la madre armeggia per aprire il portone.
La casa è vuota e buia, suo padre non è tornato.
La casa è vuota e buia, se non per le candele sulla madia e sul tavolino accanto al divano. Le tende ora pendono inerti, e l’aria ha lo stesso sentore umido e denso di quel giorno.
Forse, se fosse stata capace di opporsi alle astrusità di Reiko, Matteo non se ne sarebbe andato, ma resisterle ha sempre richiesto uno sforzo troppo grande, per lei. Forse, se lei non avesse ceduto a convivere con Reiko anche da sposata, suo marito non l’avrebbe sbattuta, quella porta. Che poi non è vero, è stata accostata con delicatezza, anche troppa. Matteo l’ha accompagnata sul cardine quasi con imbarazzo, e questo non le è sfuggito.
Quando Giada apre la porta la camera si illumina improvvisamente, una serie di fulmini accende le pareti di un bagliore livido. Davanti alla finestra si staglia scura la sagoma di un uomo e Giada indietreggia barcollando fino a urtare la porta, il cuore che le martella nel petto.
Uno yūrei. Uno yūrei, direbbe Reiko, e per un attimo ci crede anche lei.
Ma è solo la vestaglia di Matteo sulla stampella.
Non una figura – senza testa! nota ora – che aleggia a mezz’aria.
Solleva la manica del suo fantasma rimasto appeso al cassone della serranda, come se suo marito fosse potuto rientrare da un momento all’altro, indossare la vestaglia e infilarsi a letto. O mettere il pigiama, accuratamente piegato sotto il cuscino accanto a quello di lei.
Il pigiama, quello di suo padre, è rimasto sotto quello stesso cuscino – all’epoca quella era la stanza dei suoi – per nove anni. Così come i vestiti nell’armadio, la schiuma e le lamette da barba, l’orario impostato sulla radiosveglia. Era dovuta arrivare al liceo prima di riuscire a convincere Reiko a impacchettare tutto e svuotare i cassetti. Ai morti non servono giacche, mamma, ed era stato allora che gli oggetti del padre erano stati sostituiti con gli ofuda di cartoncino bianco.
Forse Reiko non ha tutti i torti, questa è una casa infestata.
Ora capisce che è stata una soluzione a suo modo sana, quella di Reiko: un morto non lo aspetti più.
La trasformazione di suo padre da persona scomparsa in defunto irrequieto aveva portato un miglioramento notevole nelle loro vite e la vedovanza si addiceva a Reiko, il dolore composto alla sua innata eleganza. Dava allo spirito di Gianfranco la colpa di qualsiasi evento negativo: un raffreddore che durava troppo? La lavatrice che dava problemi tutte le volte che si usava il programma “lana”? L’antenna della tv che smetteva di – che cosa? Giada nemmeno sa cosa fa un’antenna, ma comunque non lo faceva.
Bastava recitare un norito. Giada aveva imparato a assecondarla senza fiatare durante i suoi giri per casa con i bastoncini di incenso, lasciando fluire l’umore della madre alla calma, l’evento a risoluzione. Una sorta di addestramento all’inerzia, considera adesso, un esercizio metodico di accettazione che richiede una buona tolleranza all’attesa.
Le sembra ora di non aver mai fatto altro nella vita.
Dopo quanti mesi si può smettere di aspettare il ritorno di qualcuno? E di qualcuno che non è morto, che non risponde al telefono, ma frequenta – per dire – lo stesso studio medico?
Giada siede davanti alla vestaglia. L’ha lavata dopo che Matteo se n’è andato e l’ha appesa lì, tre mesi fa.
Penzola mesta, ora, vuota del vento che dava corpo e rabbia alla tenda che ha spaventato sua madre.
Sfila la vestaglia dalla stampella e la tende tra le mani. Le cuciture sono salde, oppongono ferma resistenza alla pressione che applica al colletto. Giada concentra i suoi sforzi sul tessuto del dorsale, questo geme, poi finalmente si allenta e cede con un ultimo schiocco sordo.
Giada attende la familiare sensazione di nausea, e quando arriva resta un momento con la mano sulla bocca dello stomaco, ad accoglierla. Poi apre la finestra e butta giù il tessuto lacerato, lo guarda sparire ingoiato dalla strada buia, lo immagina trascinato via dal rivolo di acqua torbida a bordo strada. Respira a fondo. Chiude la finestra e lascia la stanza.