Per andare da mamma salgo cinquantadue gradini, lo studio della psico ne ha trentasei, sempre pari tranne la chiesa di San Luca, dove ci siamo… sì insomma, quella ha nove gradini. La salita per arrivare a scuola ne fa… ne faceva… ne fa, sono io che non vado, ne fa ventiquattro.
Conto sempre i gradini, come chiunque soffra l’ascensore.
Da mio fratello sono trentaquattro, da Lidia sessantadue, maledetta periferia, meglio che venga lei a trovarmi. Le tre, sta giusto per arrivare, devo scendere.
«Quando rientri al lavoro?»
«Avevi promesso.»
«Scusa, è che sono due mesi, siamo tutti preoccupati.»
«Facciamo un gioco, il gioco del sedici.»
«Quello con le tesserine numerate da mettere in ordine? Lo ricordo, me l’aveva regal—»
«Quello è il gioco del quindici. Il gioco del sedici: guardati attorno e trova sedici oggetti, sedici forme tutte uguali. Che so, sedici forchette, sedici penne, sedici triang—»
«Dario, capisco cosa passi ma ti prego, sii serio.»
«Dai, fammi contento.»
«Devi riprenderti, l’hai denunc—»
«Non se ne andava da casa mia!»
«Se ne stava andando, lo sai.»
«Voleva portarsi via tutto.»
«Solo le sue cose.»
«Guarda qui, conta i libri con la costa azzurra, contiamo insieme, ah, ma forse sono più di sedici. Allora i gradini per la zona notte, su, fallo per me.»
Sedici, erano sedici gradini in rovere. Li ho contati e ricontati con lei, sempre sedici. Ho accompagnato alla porta Lidia per accertarmi che la casa dal pianerottolo fosse dritta, che non fosse sbilanciata ma niente. Adesso sono tredici, ecco, dodici e tredici, chissà se i vicini vedono.
Mi arrendo, siedo sul tredicesimo ad aspettare che tornino sedici, sedici com’è stato fino a novembre, sedici come la prima volta che siamo saliti a fare l’amore. Non devo, non devo pensarci, conto, anzi no, chiamo mio fratello.
Quanto parla Franco! Conto le mattonelle del pavimento a scacchi, sempre venti per ventiquattro, non tradiscono. La mamma piange, lo so che piange non c’è bisogno, dice che la rifiuto ma la sento ogni giorno, dice che non mangio e mi appende la spesa alla porta, sono quarantaquattro scalini ma lei sale in ascensore e non suona più, non dopo l’ultima volta. E la palestra, no che non ci iscriviamo insieme, fratellone, ma una sera a cena da te e Claudia sì, prima o poi sì e prima o poi esco con Fabio e gli altri ma ora mollami, senti che non ho più voglia? Quindici e sedici, grazie Franco, i gradini sono tornati a posto, salutiamoci.
Finalmente. Fuori nevischia. Natale è passato da due mesi. Per me non c’è stato, per me solo vacanze perenni di quelle brutte che speri finiscano. Non come le vacanze con lei. L’ultima volta era strana, forse c’era già lui che…
No no no, piuttosto conta ha detto la psico ma non pensare. Cosa conto? Quante volte qualcuno si è seduto sul mio divano giallo da quel giorno, dal giorno in cui è tornata per andarsene davvero? Conto, vediamo: mamma quattro, Lidia due, Fabio nove e Franco sette di cui una con Claudia, i due carabinieri due, il medico fiscale sei e tre il medico della mutua fanno trentasei. Più dodici l’avvocato. Metto anche le nove sedute online? Nel caso si va a cinquantasette. Vediamo i gradini: tre, quattro, cinque… diciotto, diciannove… di nuovo, sono di nuovo aumentati!
Accetto l’invito di Fabio, l’autoinvito: stasera porta le pizze, se la neve non si attacca per strada. Dovrei fare almeno una doccia, sono sei giorni e chissà se se n’è accorta Lidia, ha fatto finta di niente ma la puzza si sentiva, più che altro le ascelle. È che ho paura: finché controllo non succede niente, al massimo cresce o scompare qualche gradino, ma se mi chiudo lassù in bagno o in camera da letto, non è che la scala sparisce o diventa così lunga da non vedersi la fine? All’inizio ho dormito di sopra, mi sono preparato uno zaino con acqua e biscotti e fazzoletti, un po’ quello che ci metteva la nonna sotto il cuscino da piccoli quando temeva che un terremoto ci trattenesse giorni sotto le macerie. Preferisco stare sul divano e pisciare ed eccetera nella bacinella, poi la svuoto nel lavabo. Del resto dormivo già sul divano giallo, iniziava la scuola e avevo tre classi nuove e lei era raffreddata, adesso mi ci tufferei in quei bacilli. Siamo rimasti così, lei di sopra e io qui con la coperta scozzese e poi pian piano ha portato giù le lenzuola e il mio cuscino e rientrava sempre più tardi con la scusa del suo dannato progetto e… tre, quattro, cinque, a quest’ora di auto ne conto quante voglio e tra poco i vicini chiuderanno le persiane, si rintaneranno nelle loro zuppe e io nel mio gelo che sa di scorreggia.
Fabio lo so che vuoi andartene, ormai passi da me per dovere, come da uno zio ricoverato col quale insisti per togliere il disturbo e in fretta.
«Facciamo il gioco del sedici.»
«Del quindici, vuoi dire.»
«Del sedici, trova sedici oggetti o forme tutti uguali.»
«Parto svantaggiato.»
«Puoi frugare ovunque.»
«Non ho voglia di giocare, Dario, ma ti sei visto?»
«Prometto di fare la barba.»
«Prometti che rientri a scuola.»
«Faccio un salto in settimana.»
«I bicchieri sporchi sono ventidue, i piatti sono troppi.»
«Cerca qualcosa di fisso, che so, i ripiani della libreria, gli interruttori, i gradini.»
«L’hai più chiamata?»
«Il giudice me l’ha vietato. E comunque non ricomincio, tranquillo, so che non mi vuole. Concentrati.»
«Che palle, va bene, conto i calzini a terra, uno—»
«Sono di più, te lo dico già. Dai, fai la scala.»
«Non risuccederà? L’hai spaventata, Dario. Ma come ti è venuto in mente di chiamare i carabinieri per—»
«Sto bene, sto molto meglio.»
«Sette… lo spero, l’hai accusata di tentato omici—»
«Sbraitava col coltello in mano!»
«Non ti ha mai minacciato, l’hai ammesso anche col giudice.»
«Ringhiava che la pedinavo, che la ricatt—»
«Torna, dai, la dirigente è furibonda. Dieci…»
Ho contato con lui, erano proprio sedici. E ora no. Diciassette. È un segno. L’universomondo si è messo di sbieco, mi fa una terapia d’urto. Non devo restare solo, dicono, se no impazzisco. Di nuovo, dicono. Non sono pazzo, è che lei mi manca. Dov’è la giacca? Venti e ventuno.
Chissà se già dorme, a quest’ora.