Storie fallite

Rileggendo, si rese conto di aver scritto un racconto con tutte le caratteristiche per non piacerle. Con le frasi patetiche, i soliti cliché, nato con l’unico scopo di anestetizzare qualunque emozione le martellasse la testa in piena notte, mentre si ripeteva che sarebbe stato meglio se avesse approfittato della luce del sole per scacciare una mosca, il cui ronzio le impediva di dormire più del crepitio delle fiamme, l’immagine d’apertura del testo; più della paura di inciampare nella banalità di narrare in chiave macabra la fine delle cose, dunque di cadere negli inflazionati epiloghi, pertanto negli inflazionati intrecci in cui c’è una persona che sparisce e una che resta, una che non se ne va mai del tutto, l’altra che si perde lungo una strada senza ritorno e poi si ritrova, rimpiangendo le lacrime gettate al primo venuto (citazione).

I primi mesi dedicava alla scrittura circa due ore del suo tempo, al mattino appena sveglia. Un giorno – sarà stato marzo – guardò fuori dalla finestra. Era possibile (il consiglio di evitare gli avverbi in -mente) che il figlio della vicina, Alberta, sempre affacciata quando lei usciva per andare a lavorare, fosse tornato dalle ferie. A dire il vero, nel profondo lo sperava: percorrevano lo stesso tragitto e più volte si era offerto di darle un passaggio. Con un sorriso a trentadue denti, però, la donna le disse che si sarebbe sposato alla fine dell’anno, e la futura moglie (l’esercizio di contingentare i possessivi) aveva trovato lavoro a Torino, quindi si era trasferito lì, in pianta stabile. In quel momento, arrivò la signora Lia con le impegnative mediche e il sacchetto della farmacia, monopolizzando la conversazione con le solite lamentele sul crescente costo del ticket e sull’infinita coda alla cassa. I capelli bianchi e le faccette dentali, l’ombretto azzurro sulle palpebre e il fazzoletto legato al collo, le fecero perdere l’interesse per la parannanza macchiata della prima: forse era la sua propensione a distrarsi il problema. Nel mentre, andava insinuandosi nella sua testa il dubbio di non aver innaffiato il vaso in cui erano piantati dei semini comprati a cinquanta centesimi, e che avrebbe fatto bene a rispondere alla sua ultima chiamata. Dopotutto quella pianta l’aveva scelta lui, aveva scelto il risultato finale promesso dalla foto sulla bustina. “Zamifolia”, c’era scritto (la grafia corretta dovrebbe essere con due i; le rimproverava la smania di stare sempre a puntualizzare). “Non ha bisogno di molta luce, e neanche di troppe cure”, le aveva detto. “È più per la soddisfazione di coltivare, prendersi cura di qualcosa”, gli aveva risposto. All’inizio, entrambi si misero d’impegno, eppure era rimasta lì nell’angolo, o meglio il vaso in cui sarebbe dovuta crescere – avrebbero potuto riempire le loro frasi di scuse, come l’essere privi di pollice verde, o l’incompatibilità tra i turni di lavoro e gli orari riportati sul foglietto illustrativo datogli dalla fiorista. Si disse: “La lascio giù per strada. Mi conviene farlo lunedì”. Nei giorni feriali, i netturbini passavano per i vicoli sempre alle undici, attraversavano prima l’arteria principale del quartiere, ripulendola dalle foglie cadute, rimuovendo poi i sacchi dell’immondizia impilati vicino ai cassonetti. Ma, alla fine, quella pianta non ci stava così male accanto al mobiletto bianco, e forse avrebbero meritato di essere buttati per primi i soldatini di legno, poggiati sulla vetrina lasciata lì dall’affittuario precedente; e il posacenere sul tavolino, tanto lei non fumava; e i fiori finti piazzati nel portaombrelli, che avevano preso polvere. Decise di chiedere una mano ad Alberta, ne sarebbe stata felice. Le diceva sempre: «Butta qualcosa o rimarrai sepolta viva»; al sentire quelle parole, i semini erano la prima cosa che le veniva in mente.

Tornando al racconto, più avanti si iscrisse a una scuola rinomata, nel tentativo di portarlo a termine, ma senza successo. Seguiva le lezioni online. Si connetteva con quindici minuti di ritardo, se non riusciva a sfruttare la coincidenza tra la corsa dell’autobus e quella della metro. Non la prendeva mai a un orario di punta, ma la dimenticanza di tirare fuori il biglietto in anticipo le faceva perdere tempo, come le indicazioni della sua insegnante, capelli castani, riga al centro, e la palpebra cadente l’ennesimo elemento di distrazione; o le direttive della fiorista, secondo la quale non tutto era perduto. Alberta era d’accordo, ma sosteneva che fosse la posizione a essere sbagliata, e in quell’angolo non sarebbe mai germogliata. Purtroppo il suo appartamento di altri angoli o di balconi non ne aveva, quindi la lasciava fuori al portone e la ritirava la sera, a lezione finita. Aveva ragione lui, quando insisteva di spostarla ogni tanto.
Quella sera era tornato a casa in ritardo. «Quasi mi stavo preoccupando», lui le stampò il classico bacio sul collo. «Guarda cosa ho comprato!», agitando la bustina al vento, nell’altra mano aveva un vaso in ceramica; «Cos’è quello, e che ci azzecca qui dentro?». Risero entrambi. L’intera situazione la spiazzava: non aveva mai mostrato un particolare interesse per le piante, e la costanza non era mai stata il suo forte. Stavano insieme da circa sei anni, nell’arco dei quali si erano visti pochissimo, spesso in viaggio per lavoro. Di figli, avevano scelto di non averne, adottare un animale domestico era fuori discussione. Aveva preso anche un siero che prometteva di rafforzare le radici. Lei si domandava come fosse possibile che quel liquido raggiungesse i semini ovunque fossero sepolti; come doveva essere, se mai avessero potuto, alzare lo sguardo e trovare soltanto la terra, sapere di essere prigionieri là sotto. Settimane dopo, persero le speranze: «Non crescerà più». Gli diede ragione, nessun tentativo di contraddirlo: «È inutile continuare a provarci». Lo avrebbe ammesso poi: si era distratta anche in quel caso, se ne accorse alla vista del suo lato d’armadio del tutto vuoto; che la causa della mancata crescita era il vaso troppo stretto. Ne comprò uno nuovo ai casalinghi, e con l’aiuto di Alberta lo riempì di un composito, a detta del responsabile del reparto Giardinaggio, più adatto.

Era arrivato settembre, e come ogni giorno, rimise dentro la pianta, si preparò e andò nel locale di sempre (tavolini per un massimo di quattro persone, le pareti blu notte e i centritavola arancioni, dei lampadari a forma di nuvole, il jukebox in fondo alla sala). Ore 22:30. Passava la cameriera che, notandola, le mostrò il pollice: il solito bicchiere di vino rosso. Passavano due ragazzi che lavoravano lì, distribuendo volantini: scritte nere stampate su uno sfondo giallo, accoppiamento non proprio originalissimo, per annunciare l’inizio della stagione mondana, le disse uno di questi che, al “mondana”, accennò una risata. Passava una sua amica, Rossella, non la vedeva da mesi; le fece cenno con la mano e l’altra si avvicinò per salutarla. Sempre lo stesso sorriso, lo stesso fidanzato, da qualche settimana senza lavoro. «Me ne sono andata. Non potevo rimanere in quel posto usurante, non avrebbe avuto senso». Da uno, i calici diventarono due, poi quattro. «Ti trovo meglio, sai?». Le indicò il volantino: «Se domani ci sei, ci vediamo al concerto. Stammi bene».
All’una di notte era di nuovo a casa. Si sedette davanti al computer. Rimase a fissare lo schermo per almeno venti minuti, provando a limare, a cercare una sottotrama, i dialoghi giusti, e lì comprese che anche per lei era così, come per la sua amica: le parole avevano perso da tempo significato. Chiuse il file Word, cliccando su “Non salvare”, e strappò dal quadernino per gli appunti le pagine in cui aveva annotato alcune frasi; andò in cucina, prese l’accendigas e le bruciò. Si sentì avvolta da un senso di libertà; non aveva nemmeno fatto caso ai primi fili verdi spuntati dalla terra. L’indomani, nel locale, un chitarrista solista avrebbe suonato della musica post-wave. Arrivò lì circa dieci minuti più tardi, si fermò a pochi metri. Sul marciapiede c’era già della gente; riconobbe quella di sempre, c’erano anche dei nuovi volti. Scelse però di lasciarsi trascinare da quel sopraggiunto senso di pace. Complice la fortuna che nessuno l’avesse notata, iniziò a camminare. Prima il piede sinistro, poi il destro. Proseguendo dritto, si sbucava sullo stradone. Dal marciapiede opposto, invece, si accedeva a un comprensorio di case popolari; contava almeno tre incroci. La piazza, poco distante da lì, vedeva confluire al suo interno circa sei vie: viste dall’alto, sembravano comporre una corona solare. Alzò lo sguardo, e trovò il cielo: un uccello (iperonimo, per evitare ogni orpello) volava basso. Riportò gli occhi sulla carreggiata. Le macchine sfrecciavano sull’asfalto senza alcun clamore, e quando si voltò, non vedeva già più la vetrina del locale.

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