Quel giorno che lo trovai, il sole a picco sugli alberi, la desolazione, la calma, io non me l’aspettavo. Sapevamo tutti dov’era, eppure la sua assenza la si dava ormai per scontata. Mi salutò sorridente, sporco e acciaccato, e quel suo modo di brillare era uguale e diverso a come lo ricordavamo tutti.
Quando tornai e li avvisai del fatto — che l’avevo trovato, che era vivo, che mi aveva accolto —, si decise di tornare insieme lassù, in quel suo posto impreciso fra gli alberi nel mezzo della montagna, perché eravamo felici, volevamo farlo, lui ci aveva donato qualcosa.
Una volta arrivati, non c’era.
Non ci fu mai più.
Col tempo, disperdendosi i ricordi, dubitai persino di averlo trovato.
Quando eravamo giovani, noi tutti speravamo di ridisegnare questo mondo. I nostri vecchi ci dissuasero, ci richiamarono alle responsabilità, ma lo sapevano che non era il tempo, che ogni momento della vita ha un senso e non va annullato solo perché illusorio. Si cresce nel crollo traumatico delle illusioni, oppure non si cresce. Ma questo ce lo disse lui, il giorno in cui ci aprì la porta e ci accolse in quell’ampio spazio vuoto che ci ammaestrò a chiamare palestra. I nostri vecchi erano deludenti, incapaci di spiegarci alcunché, e noi eravamo avidi, affamati, capaci di rubare tutto.
Ne eravamo dieci, bussammo alla sua porta ogni giorno per giorni, settimane, invano. Fui proprio io a avere l’idea.
Prima della prima volta che bussammo alla sua porta, noi giocammo con un vecchio vagabondo. Lo spintonavamo, lo provocavamo, cercavamo una sua reazione. Doveva sorprenderci, divertirci. All’ennesima spinta ci fissò tutti e noi restammo in attesa, era il momento agognato. Parlò in modo pacato, ci disse che ciò che cercavamo stava sopra, in montagna, tra gli alberi. Fu vago, ma di fatto poi lì non c’era altro che una casa con un orto. Una casa lunga, la cui base era leggermente sopraelevata, con piccole scalinate di tre gradini ognuna poste ovunque e con nessuna utilità: quel luogo sembrava, però, un millepiedi.
Quando ci fu aperta la porta non ci stupimmo nel ritrovarci davanti il vagabondo ripulito, senza barba, ringiovanito, tra i trenta e i quaranta. Ci fece entrare. Il giorno prima avevamo devastato il suo orto. Questa era stata la mia idea, e aveva funzionato.
Tutti i giorni, per mesi, ci riunivamo in palestra. Lui se ne stava disteso a letto, comodo, e raccontava storie. Tutte le storie si chiudevano con una frase lapidaria, una massima, di cui noi poi discutevamo da soli. Erano storie di animali umani. Lui non spiegava, diceva. A pensarci oggi, non ci fu massima che non possa giudicare come antisociale.
Tra le storie, lui pensa che tutti sono soli e egoisti, che tutti si uniscono perché non è possibile fare diversamente, che nessuno sopravvive solo, che tutti parlano ma pochi fanno, che ciò che si dice è solo ciò che è di moda, che nessuno vuole prendersi responsabilità, che nessuno vuole aiutare, che non c’è speranza per i deboli, che o si è forti o si è schiavi, che si può essere schiavi felici, che è sconsigliabile pensare troppo, che ogni cosa finisce. Poi il giorno dopo bussammo e non aprì nessuno, forzai la porta e la palestra era vuota, il letto rifatto.
Il Cane ogni volta che tornavo da lavoro mi accoglieva con un inchino, mi preparava la cena, poi la vasca da bagno, poi mi accompagnava a letto, mi dava un bacio sulla fronte e io mi addormentavo e sognavo e in tutti i sogni ero felice, perché tutti i miei desideri si avveravano, e nei sogni il Cane era sempre presente, ma camminava come non avevo mai visto un Cane, sulle quattro zampe e al guinzaglio. Poi mi svegliavo, il Cane mi preparava la colazione, dopodiché mi accompagnava alla porta. Fuori c’era la vita, così noiosa, ripetitiva, sfiancante. Dentro c’erano i sogni.
Passati quindici anni, tornai da lavoro e — avevo quarant’anni e poco più — il Cane mi accolse scodinzolando e leccandomi i piedi. Era il Cane dei miei sogni, un quadrupede legato a me e incapace di fare alcunché. Dovetti preparargli da mangiare, fargli un bagno, accompagnarlo a letto. Gli diedi un bacio sulla fronte, si assopì subito. Rimasi seduto a letto e lo guardai sognare.
Da quel giorno non riuscii più a sognare, dormivo e mi svegliavo e in mezzo c’era il nulla. Solo quando il Cane morì ripresi a sognare, e in ogni sogno il Cane, in piedi come me e con quella dignità che aveva avuto per quindici anni, mi dava una zampata sulla spalla, mi sorrideva e diceva “ogni cosa finisce”.
Da allora non lo rivedemmo mai più, eppure non era morto, sapevamo dove viveva, era impossibile non trovarlo. Ma lui non si fece trovare mai.
Quel giorno che lo trovai mi invitò a entrare in palestra. Era tutto esattamente come l’ultima volta, una quindicina di anni prima. Io ero nervoso, lui tranquillo. Si stese a letto senza dire nulla. Volevo chiedergli perché non si fosse fatto trovare in tutti quegli anni, ma non prendevo coraggio. Poi mi venne. Lui disse “sono stanco” e si addormentò, io restai zitto vicino al letto, fissai quel suo corpo magro sotto le coperte, quel suo volto inespressivo, e mi chiesi dove fosse, mi venne da immaginarlo insieme al Cane. Decisi di andarmene per andare a chiamare gli altri, volevo godere di quel suo ritorno insieme a loro.
Dovevo restare lì, approfittare del momento, da solo.
Antonio Russo De Vivo © 2025
* L’immagine di copertina è “G like OranGe”, collage di Ottavia Marchiori, 2021.