«Hai preso tutto?»
La voce di Fabiana è tranquilla, ma io riesco a sentirci dentro una nota di amarezza, sottilissima, che tira fuori tutto il resto. La conosco troppo bene. È maestra nel nascondere insidie nelle sue corde vocali. Mi chiede se ho preso tutto, ma è una provocazione. Vorrebbe chiedermi, piuttosto: Ce l’hai veramente il cuore di andartene?
Per sei anni della mia vita, non ho mai pensato che Fabiana fosse cattiva. Anche se ho pianto per lei, quello sì. Ho pianto così tante volte che Adele mi ha addirittura minacciata di mollarmi un ceffone, una volta, se non avessi smesso. È stata l’unica volta che Adele si è mostrata più saggia di me, in una situazione amorosa. Dietro quella sua fissazione per Davide, ha buttato la sua adolescenza nel cesso e tirato lo sciacquone senza battere ciglio, che francamente è proprio una cosa cretina, e di solito lei è la regina delle cose cretine. Io, le mie ho dovuto ridurle agli inciampi inevitabili della crescita, il minimo indispensabile. A differenza di Adele, saggia dovevo esserlo per forza, io, perché vivevo la parte più vera delle mie giornate nell’ombra e perché se non fossi stata saggia, non so neanche se a ventun anni ci sarei arrivata sana e salva, con questo maglione verde di lana che mi pizzica tra le mani, un biglietto di sola andata per Berlino e una valigia grigio-azzurra appoggiata sul mio letto come un capodoglio spiaggiato. Sì, le dico, manca solo questo. E il maglione si unisce al resto delle mie cose che sono pronte a finire divorate dalla valigia-capodoglio.
Fabiana fa un cenno. I suoi capelli rossi si muovono in quel breve movimento della testa che va leggermente dall’alto verso il basso. Sono corti e tagliati di fresco. Hanno l’odore tipico dei prodotti che il parrucchiere le spruzza ogni volta, dopo la piega. Non saprei dire a cosa assomiglia, ma è un profumo che sa vagamente di cocco e agrumi. Magari chi l’ha inventato voleva ricreare l’idea di un cocktail a bordo piscina, è quello che mi fa pensare quando mi colpisce le narici. Ma non è un odore penetrante, di quelli che ti fanno girare la testa. Piuttosto, è uno di quei profumi di cui ti ricordi solo quando li senti, altrimenti non ci penseresti mai. In fondo è meglio così, penso, mentre tiro la cerniera che segue le mie dita fino a chiudere per bene la valigia. È meglio così perché questo odore dolce e anonimo non tornerà a tormentarmi mentre starò costruendo una vita nuova, lontana da tutto questo.
È strano come funzioni la sofferenza. Io e Fabiana ci siamo lasciate e riprese così tante volte, dall’inizio, che è ridicolo ritrovarci in questa stanza proprio oggi. Diceva che aveva bisogno di passare un po’ di tempo con me, prima che…, un che sospeso che intendeva prima che tu te ne vada. Non so se sia più patetica lei, che è venuta a dichiararmi il suo amore, o io che l’ho lasciata venire e l’ho pure ascoltata. Però è stato un bene. È la prima volta in cui mi rendo conto del fatto che sia finita sul serio. Ho sopportato i suoi tradimenti, i suoi dubbi, i suoi fidanzati di copertura. Ho sopportato sua madre che mi accusava di averla traviata, quando le coperture hanno mostrato le loro crepe. Ho sopportato le volte in cui prendeva il mio mondo e lo riduceva in pezzi perché era confusa, per poi tornare quando decideva che la confusione era passata e che adesso potevamo stare bene. Quante volte l’ha detto, che potevamo stare bene. È da quando avevamo quindici anni che dice che staremo bene, e forse bene non ci siamo state neanche per tre giorni di fila.
Fabiana si siede sul letto, una mano sulla valigia chiusa. «Non posso proprio farti restare?»
«Perché vuoi farmi restare?», la mia non è una domanda arrabbiata, anche se mi rendo conto che dovrebbe esserlo. «Vado a fare una cosa bella, che sognavo da sempre.»
«Una cosa che ti porta lontano da me.»
Fabiana non è cattiva, me lo ripeto anche adesso, mentre penso che la persona che ho amato e per cui mi sono annientata sta cercando di impedirmi di crescere solo perché non potrà più controllarmi come ha sempre fatto. Fa così male che sento il respiro aprirmi il petto. Sollevo la valigia per saggiarne il peso e concentrarmi sullo sforzo fisico. Devo metterla su una bilancia, perché non posso andare oltre i ventitré chili e non voglio scoprire di doverla aprire e riarrangiarne il contenuto quando sarà sul nastro a Capodichino e io sarò sola in una fila di gente spazientita che vuole mollare il proprio bagaglio e andarsene via. Fabiana non mi aiuta nell’impresa, è il suo modo di protestare. Pensa che inchiodarmi qui per sempre sia un modo di dimostrare l’attaccamento.
Attaccamento. Adele me l’aveva detto la sera in cui io e Fabiana ci eravamo lasciate definitivamente, a maggio, che per Fabiana contava solo quello. Quando avevamo scoperto che avevo vinto la borsa di studio, che avrei frequentato il primo anno della magistrale a Berlino. Quando tutti i miei amici erano pazzi di gioia e Fabiana mi aveva costretta a litigare in auto fino alle quattro del mattino perché non voleva che andassi. Non capivo perché fosse così arrabbiata, sapeva benissimo che avevo fatto domanda per l’Erasmus e non aveva battuto ciglio, e invece ora strillava come un’ossessa. «Credevo non avresti mai vinto!» Forse è stato lì che ho veramente capito che non avevamo futuro. Come un clic. Acceso, spento.
In passato avevo pensato spesso che l’amore non poteva essere così orribile, e dopo quella frase ho capito che era vero e che mi meritavo di meglio. C’erano delle cose bellissime di lei, naturalmente, come il modo in cui cantava, o quando mi diceva che la macchina fotografica mi amava almeno quanto lei, perché la lente riconosceva subito che ero tutta arte e mi rendeva giustizia come avrebbe fatto davanti a un dipinto. Ma ora come ora non mi ricordo nient’altro di bello, e se di sei anni di relazione tutto quello che mi viene in mente sono il suo talento canoro e un mezzo complimento sul mio essere fotogenica, che però ha pure un sapore altamente megalomane, allora non so davvero che ci facciamo una di fronte all’altra, nella mia camera da letto.
«Quindi è finita.»
Sì, le dico, è finita.
Tiro su la valigia senza il suo aiuto e la trascino verso il bagno. Non devo fare molta strada, casa di mia nonna è piuttosto piccola ed è un bene in situazioni come questa. La bilancia è accanto al bidè. Tengo la valigia in braccio con tutte le mie forze e guardo il peso finale. Sottraggo il mio con un veloce calcolo mentale: venti chili. Perfetto. Con un sospiro di sollievo, trascino la valigia fino alla porta. Adele ha detto che mi avrebbe accompagnata in aeroporto, ma dato che ci eravamo accordate perché arrivassimo a Napoli tre ore prima del volo, questo lascia a Fabiana altre due ore e mezza di tentativi di dissuasione.
Vorrei che se ne andasse. Me la ritrovo alle spalle dopo aver messo la valigia vicino alla porta. È come se le leggessi nella mente: vorrebbe calciarla. Ma non lo fa. «Divertiti a Berlino.»
Quando esce dalla porta, furiosa per non avere ottenuto quello che voleva, la sbatte con tutta la forza che può. Io chiudo gli occhi. Resto lì, tra la porta chiusa e il resto della casa. Quando mia nonna rientra, guarda la valigia accanto a me, e dice: «Nennè, ma questa sola sola la devi portare?»
Rassicuro mia nonna e le dico che non è poi così pesante, che da sola ce la faccio. Mi chiede a che ora verrà a prendermi Adele e glielo dico.
«Ja, mò vatti a riposare un poco se non devi preparare niente più.»
Va bene, le rispondo, e torno in camera mia per dedicarmi a quella sessione malinconica di addio a Caserta che sognavo di concedermi prima di partire. Fabiana non si è lasciata dietro nessun odore di cocco e di agrumi. La mia valigia, invece, ha lasciato il solco della sua forma sul copriletto. Un solco sul copriletto, un capodoglio spiaggiato, un rettangolo invisibile. Ne traccio la forma col dito. Tra un attimo sarà come se non ci fosse mai stato.
