Invito a pranzo

Cominciavano a essere in ritardo ed Erminia avvertì lo sguardo preoccupato del marito. Si affrettò a rassicurarlo.
«Sono pronta in dieci minuti».

Massimo considerava l’invito molto importante, questo le era ben chiaro, anche se lui, interrogato sull’argomento, avrebbe negato. Forse pensava che in casa di Aldo avrebbe potuto incontrare personaggi di rilievo nel mondo letterario la cui conoscenza poteva essergli utile, ma non lo avrebbe mai ammesso. A quel pranzo avrebbe preferito andare da solo, lei lo sapeva bene. Ma non aveva avuto il coraggio di dirglielo e lei aveva deciso che quella volta non gli avrebbe semplificato la vita, come invece in genere faceva. Ora però la prospettiva di trascorrere una giornata tra persone sconosciute la spaventava e la presenza del marito non bastava a tranquillizzarla. Da quando Massimo era riuscito a pubblicare il romanzo su cui aveva lavorato per tanti anni e che aveva avuto un notevole e inaspettato successo, Erminia continuava a scoprire nuovi lati del suo carattere, che a volte la turbavano.

La casa di Aldo era una villa elegante all’Argentario. Il grande terrazzo, pieno di fiori, affacciava sul mare; c’era una tavola apparecchiata con intorno gruppi di poltroncine. Massimo ed Erminia erano arrivati puntuali e quindi erano i primi.
«Finalmente conosco Erminia», disse il padrone di casa, stringendole la mano. «Questa è mia moglie Paola, una grande ammiratrice di tuo marito».
«Sì», disse la donna, «ho letto il suo romanzo tutto d’un fiato. Dev’essere così emozionante condividere le giornate con un romanziere. Vieni, devi raccontarmi tutto. Intanto ti mostro il resto del terrazzo».
La donna si avviò ed Erminia la seguì titubante.
«Questa è la parte del terrazzo che preferisco. Ho posto una cura particolare a scegliere i rampicanti, ce n’è sempre uno fiorito, da febbraio a ottobre inoltrato».
La donna le indicava via via le piante con nomi esotici che Erminia non conosceva.
«Le coltiva lei?»
«Per carità, dammi del tu! No, no, ho un giardiniere. Io non saprei dove mettere le mani».
C’era una piccola zona circondata da arbusti verdeggianti, con un tavolo e una sedia sotto un ombrellone.
«Ho arredato questo angolo in disparte pensando che Aldo potesse farne il suo studio estivo, c’è la vista del mare e del cielo, ma non ci viene mai. Se ne resta chiuso con il computer in una specie di sgabuzzino, il panorama lo distrae».
«Anche Massimo ha uno studio che non usa. Lui ama scrivere a letto, appoggiato alla testata, con diversi cuscini dietro la schiena e il portatile sulle ginocchia. A volte la mattina mi sveglio e lo trovo che lavora. Ha imparato a battere sui tasti con delicatezza, per non svegliarmi, dice che in nessun altro posto scrive così bene come sul letto accanto a me. Mi riaddormento cullata da quel ticchettio leggero».
Paola la guardò con un sorriso che a Erminia sembrò intenerito. O era ironico?
«Molto romantico! Devo raccontarlo a quel rude di Aldo, che non avrebbe mai un pensiero così carino per sua moglie. La vita privata degli scrittori è sempre così interessante!»
Erminia si chiese se avesse parlato a sproposito; Massimo avrebbe potuto seccarsi. Doveva stare più in guardia. Quella giornata sarebbe stata molto lunga.

Finalmente cominciarono ad arrivare altri invitati e il terrazzo si animò. Tutti portavano qualcosa da mangiare e in breve il tavolo si riempì di ogni genere di manicaretti. Massimo ed Erminia, che avevano portato solo una bottiglia di vino, si sentirono in imbarazzo.
Erano un gruppo di amici intimi che dovevano frequentarsi abitualmente perché parlavano di incontri recenti a tutti noti. Le chiacchiere si intrecciavano ma Erminia notò che alcune persone erano più ascoltate di altre, come l’uomo grassoccio con gli occhiali che gli scivolavano sul naso e che lui risospingeva continuamente in su con l’indice.
Entrò una coppia a cui tutti fecero grandi feste.
«Ma i Della Rocca non dovevano venire con voi?» chiese Aldo ai nuovi arrivati.
«Sì, ma all’ultimo mi hanno chiamato per dirmi che ritardavano e che sarebbero arrivati per conto loro».
L’uomo con gli occhiali sembrò stupito.
«Davvero viene Della Rocca?»
«Sì», rispose Aldo, «me l’ha confermato ieri. Ma la strada per venire qui gliel’hai spiegata bene?» chiese rivolgendosi di nuovo alla persona che avrebbe dovuto accompagnarlo.
«Ma sì, sì, non ti preoccupare, e poi hanno il navigatore».
Aldo annuì, ma si vedeva che non era per niente tranquillo.
«L’ho incontrato di recente a casa di Eugenio. Mi è sembrato un po’ invecchiato», disse l’uomo con gli occhiali, «anche perché raramente interveniva. Sapete quanto in genere ami tenere banco».
Tutti annuirono.
Arrivò una coppia con un bambino molto piccolo ed Erminia si intenerì.
«Che delizia! Posso prenderlo in braccio?»
La madre glielo lasciò ben contenta ed Erminia fu felice di avere una scusa per allontanarsi dal gruppo.
Massimo si avvicinò alla moglie e le sussurrò all’orecchio:
«Ma questo Della Rocca che chiamano per cognome non sarà Alberto Della Rocca, lo scrittore?»
Erminia si strinse nelle spalle. Suo marito aveva la mania di farle domande a cui lei non poteva rispondere. La cosa la infastidiva. Come l’altra abitudine che aveva preso di parlarle di argomenti a lei sconosciuti, o di commentarle libri e articoli di critica letteraria che lei non avrebbe mai letto. All’inizio aveva pensato che stesse cercando di migliorare le sue conoscenze in campo letterario. Poi si era resa conto che non le chiedeva mai commenti su quello che le diceva e non aveva la minima curiosità di cosa lei ne pensasse. E alla fine si era rassegnata all’evidenza: lui la utilizzava come uno schermo ai suoi monologhi, era una specie di esercitazione per sentire il suono della sua voce.
«Puoi vedere se trovi qualcuno che lo sa?»
Erminia si diresse ubbidiente verso le uniche due persone con cui aveva familiarizzato fino a quel momento, una coppia che sembrava, come loro, poco inserita.
Ritornò dopo un attimo.
«Non lo sanno. Perché ti interessa tanto?»
«Dirige la collana di narrativa nella casa editrice a cui il mio agente ha mandato la raccolta di racconti, sicuramente ha voce in capitolo. Sarebbe una vera fortuna riuscire a incontrarlo».
Ormai sul terrazzo si era radunata una quindicina di persone, calcolò Erminia. La conversazione verteva su argomenti letterari. Ma più che una conversazione sembrava una gara, ognuno cercava di far prevalere la sua voce su quella degli altri. Anche se avesse avuto qualcosa da dire, pensò Erminia, non si sarebbe certo buttata nella mischia. Osservò il marito che annuiva di tanto in tanto con un sorriso vago. Lui avrebbe avuto certamente qualcosa da dire, ne era certa, e si stupì che non s’inserisse nella discussione. A un tratto il padrone di casa gli chiese cosa pensava della scrittrice di cui si stava parlando.
«Penso che la sua scrittura sia il frutto di un lavoro molto accurato, in cui ogni parola è stata vagliata e scelta con attenzione. Non c’è mai un aggettivo di troppo o un termine non perfettamente appropriato in quegli scritti. Sono il frutto di una grande sapienza. Ne esce fuori però una scrittura che è al tempo stesso estremamente semplice ma anche artificiosa, perché si avverte l’ostinazione nella ricerca di quella semplicità. È uno stile che mi è estraneo. Come se avvertissi un controllo eccessivo. Mi verrebbe voglia di esortarla a lasciarsi andare, a non essere così frenata. Alla fine in me prevale una sorta di pena per quella disciplina così inflessibile, più che l’interesse per ciò che lei scrive».
Tutti annuirono, attribuendogli un’autorevolezza che Erminia non sospettava suo marito avesse. Il suo silenzio era stato evidentemente una tattica.
«Hai un nuovo romanzo in cantiere?» chiese Aldo.
«Sì, ma è ancora solo un’idea vaga che deve maturare. Nel frattempo ho scritto una raccolta di racconti».
«Ah, bene. C’è un nuovo interesse per i racconti, che sono stati sempre bistrattati, in Italia. E dove la pubblichi? Hai già un editore?»
«Diciamo che sono in corso delle trattative».
Erminia colse dei sorrisi di benevolenza sullo sguardo di chi ascoltava e guardò il marito, sorpresa per quei contatti con editori che evidentemente erano progrediti a sua insaputa. O stava raccontando una balla? Ma lui distolse lo sguardo.
«Vogliamo sederci a tavola? Mi pare siano arrivati tutti», disse in quel momento Paola al marito.
«Ma no, mancano ancora i Della Rocca», rispose Aldo, un poco spazientito. La moglie lo guardò, sorridendo ironicamente.
«Già, scusa tanto: come avrò potuto dimenticarlo!»
Proprio allora si avvicinò l’uomo che avrebbe dovuto accompagnarli.
«Della Rocca mi ha appena chiamato: hanno avuto un imprevisto. Ci raggiungono più tardi, dice di non aspettarli e di cominciare a mangiare».
Ognuno si cercò un posto nella lunga tavola, apparecchiata sul lato in ombra del terrazzo. Massimo temeva che qualcuno cercasse di intavolare una conversazione con Erminia e cercò una sedia vicino a lei, ma Aldo insistette perché si sedesse tra lui e la moglie, il posto d’onore, e Massimo, inorgoglito, non si fece pregare e abbandonò Erminia al suo destino. Lei si sentì tradita e lo guardò con rancore. Durante il pranzo, il tavolo era troppo lungo perché si potesse chiacchierare tutti insieme e ognuno cominciò a parlare con i suoi commensali più vicini. Erminia si trovò tra due donne che per fortuna s’intrattenevano con gli ospiti del lato opposto. Di fronte a lei c’era una ragazza giovane, dai capelli bruni arruffati, che guardava fisso nel piatto. Non partecipava alla conversazione, anche se l’uomo e la donna seduti ai suoi lati ogni tanto la interrogavano. Lei rispondeva a monosillabi, con uno stentato sorriso di convenienza, spostando lo sguardo ora sull’uno, ora sull’altra solo per il tempo indispensabile e poi riabbassava la testa. Erminia si chiese se era per timidezza, ma mentre la guardava con simpatia, la ragazza improvvisamente alzò la testa e le piantò sul viso uno sguardo focoso interrogativo. Erminia si affrettò ad abbassare gli occhi e quando li rialzò, la ragazza aveva ripreso a fissare il suo piatto.

La donna bionda di fronte a Erminia era una delle più abili nella tavolata a monopolizzare l’attenzione, il più delle volte per proporre delle lamentazioni. A un tratto cominciò a criticare l’indifferenza della gente, raccontando del lutto di una sua vicina di casa alla quale gli altri condomini non avevano fatto neanche le condoglianze. Ognuno aveva un aneddoto al riguardo e cercava di sopraffare la voce degli altri per raccontarlo.
«Cosa ci vuole a dire una parola gentile? Anche un semplice saluto può servire a manifestare un minimo di vicinanza spirituale, che può essere di conforto, non credete?» disse a un tratto qualcuno.
«Non ne sono sicura», disse Erminia.
La frase, pur se breve e pronunciata a voce bassa, aveva inaspettatamente centrato una rara pausa della conversazione, per cui tutti i vicini l’avevano udita e avevano rivolto a Erminia uno sguardo incuriosito.
Massimo, dalla parte opposta del tavolo, notò che un gruppo di persone si stava rivolgendo a sua moglie e, anche se non sapeva su cosa l’interrogassero, la guardò preoccupato e sperò che non rispondesse, ma Erminia, a cui l’argomento era particolarmente a cuore, prese invece a parlare con tono accorato.
«C’è una collega, che io conoscevo solo di vista. Non ci eravamo mai parlate, se l’avessi incontrata al di fuori del lavoro probabilmente non ci saremmo salutate, forse neanche riconosciute. Sapete? Come quando ti imbatti in qualcuno con un’aria familiare, ma non sai dove collocarlo. Poi per un periodo scomparve e quando chiesi di lei qualcuno mi disse che la sua bambina di cinque anni era morta in un incidente. Ne rimasi così addolorata, perdere una figlia così piccola deve essere un tale dolore, e quando tornò, anche se eravamo quasi estranee, avrei voluto farmi avanti, e dirle quanto il suo lutto mi rattristava, ma non trovavo mai l’occasione. Alla fine, erano passati ormai un paio di mesi, l’ho fermata un giorno in corridoio. Lei deve aver creduto che io volessi chiederle un’informazione di lavoro, perché mi ha chiesto sorridendo cosa desiderassi, e quando le ho detto che sapevo della disgrazia, e che desideravo farle le condoglianze, ho visto il suo sorriso morirle sul volto, e gli occhi riempirsi di lacrime. Il cuore mi si è stretto. Forse in quel momento aveva dimenticato la sua disgrazia, e io gliel’ho ricordata, e magari si è anche rimproverata per quell’attimo di breve dimenticanza. Mi ha ringraziato e si è allontanata rapidamente. Ora, ogni volta che ci incontriamo nei corridoi, lei svia lo sguardo e io so che le ricordo la sua perdita e quello che crede sia stato un suo peccato, quella momentanea smemoratezza. E io potevo starmene per conto mio, e quanto sarebbe stato meglio, e invece ho aggiunto una nuova spina alla sua corona. Ho voluto fare quella con i buoni sentimenti; ma che ne so, io, di buoni sentimenti?»
Tutti tacquero. Erminia si era aspettata un minimo di partecipazione al suo racconto, ma nessuno commentò. Si sentì in imbarazzo, le sembrò che la guardassero con disapprovazione. Guardò suo marito, che sembrava contrariato. Finalmente le chiacchiere ripresero.

Ormai il pranzo volgeva alla fine e ogni tanto qualcuno si alzava; ne approfittò anche Erminia. Mentre si allontanava dal tavolo, sentì il padrone di casa che annunciava:
«Mi ha chiamato Della Rocca. Dice che hanno mangiato dalla suocera, arriveranno per il caffè».
Arrivata dentro casa, Erminia sospirò. Quella giornata era sempre più faticosa. Chiese dov’era il bagno e le fu indicata una porta, ma quando l’aprì si accorse che era un studio e c’era la ragazza bruna seduta davanti a uno schermo.
«Mi scusi, cercavo il bagno» disse Erminia, e fece per uscire.
«Aspetti» disse la ragazza, «entri un momento».
La giovane la guardò e Erminia notò che non aveva più lo sguardo freddo con cui l’aveva squadrata a tavola.
«Ho compreso molto bene quello che provava per la collega con il lutto. Sa, loro non sono abituati a parlare dei propri sentimenti, uno che si scopre come ha fatto lei li mette a disagio».
Erminia sorrise, riconoscente.
«Ma no, forse sono stata io fuori luogo. In fondo non conosco nessuno. Per parlare dei sentimenti bisogna avere una certa confidenza con le persone, altrimenti si rischia di metterle in imbarazzo».
«Sì, forse. E comunque non è facile parlare di sentimenti. Bisogna essere onesti, perché non c’è niente di peggio di chi simula delle emozioni, e semplici: farsi capire è indispensabile per evocare un’empatia».
Erminia rimase sconcertata e non seppe che rispondere.
«Comunque a me è sembrato che lei avesse tutte queste doti, è per questo che ho apprezzato il suo racconto. Mi chiamo Anna».
«Erminia».
«Sono la figlia dei padroni di casa».
Erminia annuì. Ebbe l’impressione che anche la giovane, come lei, avrebbe voluto essere altrove.
Indicò il computer.
«Stai lavorando?»
«No, non proprio. Stavo cercando una canzone su internet».
La guardò, come se valutasse se proseguire. Alla fine si risolse.
«Sempre per rimanere in tema di sentimenti, ci sono delle musiche o canzoni che mi provocano una strana nostalgia, potrei dire una nostalgia incompleta, perché sono brani o frammenti che conosco, ma è come se li avessi ascoltati distrattamente, non sono associati a nessun fatto della mia vita, a nessun periodo circoscritto, li ho sentiti, perché li riconosco, ma non mi ricordo né quando, né dove. È come se mi fossero scivolati accanto. Quando li ascolto provo una sorta di memoria mancante, di nostalgia per una cosa inesistente, che avrei potuto vivere e invece non ho vissuto. Come se mi suscitassero rimpianto ma di qualcosa che non è stato. Non lo trova strano?»
Erminia si sentì a disagio. Ma perché diceva a lei quelle cose così personali? E subito si rese conto che forse la sua reazione era la stessa che avevano avuto i commensali al suo racconto. Sorrise e mai le era sembrato di sorridere così scioccamente.
«Non saprei, non ci ho mai pensato. Ma ora devo tornare, mio marito si starà chiedendo che fine ho fatto».

Il pranzo era finito. Gli ospiti si erano spostati dalla tavola e si erano seduti in cerchio e le chiacchiere continuavano. In attesa dei dolci, Erminia si trovò una poltroncina molto comoda al sole, in disparte, e la calura e la sonnolenza del dopopranzo la misero in una specie di dormiveglia in cui le arrivavano stralci delle conversazioni dei vicini.
Due donne si scambiavano confidenze alla sua sinistra.
«Lo psicoterapeuta a un tratto ha cominciato a dirmi: “Se lei davvero vuole quell’uomo, se lo prenda”. Sosteneva che io sono attratta dagli uomini già impegnati perché non ne voglio abbastanza uno solo mio, perché un rapporto vero mi spaventa, e così mi cerco uomini che non siano totalmente disponibili. Non so se era una chiacchiera da analista o se aveva davvero ragione. Me l’avrà ripetuto non so quante volte. E alla fine ho capitolato e l’ho lasciato».
«L’uomo sposato?»
«No, no, l’analista. L’uomo sposato lo vedo sempre, ma più raramente, e con sempre maggior distacco. Prima o poi lo lascerò, tanto lo so che lui rimarrà sempre con sua moglie. Ma non ancora, non adesso».
Poi le arrivò la voce dell’uomo con gli occhiali.
«È come se il tempo abbia perso la sua continuità regolare; nel ricordo si dilata o si restringe, per cui cose che credevo fossero avvenute pochi giorni fa risalgono invece a settimane addietro, o fatti che mi sembrano accaduti a distanza di anni sono invece molto più recenti».
«Io invece ho perso il senso dell’orientamento. Posso ritornare più e più volte nello stesso posto, senza riconoscerlo», disse un altro.
Erminia pensò che parlassero della vecchiaia. Una terza voce si aggiunse alle altre.
«A me capita di annoiarmi sempre più spesso. A volte comincio a sbadigliare e non riesco più a fermarmi. E se mi capitasse a lavoro, a una riunione con il capo? La cosa mi preoccupa».
«Preoccupati di non sbadigliare mentre parlo io. Ora che lo so, ti sorveglio», disse l’uomo con gli occhiali.
Tutti risero.
A un certo punto Erminia si accorse di essersi assopita per davvero perché aprendo gli occhi vide che tutti ora stavano mangiando una fetta delle due pastiere messe sul tavolo in mezzo alle sedie. Si vergognò, e si guardò intorno, ma nessuno faceva caso a lei, e anche suo marito stava tranquillamente chiacchierando con una donna sconosciuta. Poi le si avvicinò sorridendo.
«Ho visto che ti sei addormentata. Vuoi una fetta di torta?»
Erminia l’accettò grata.
«Eri seduta davanti alla figlia dei padroni di casa, a tavola. È simpatica?»
«Sì», disse Erminia, con un tono un poco incerto che il marito non colse.
«Chissà, magari lei sa se questo Della Rocca è lo scrittore, non puoi chiederglielo?»
Erminia lo guardò seccata.
«Scusa, ma non puoi chiederlo tu direttamente ad Aldo?»
«No, meglio di no».
«Ma cosa vuoi dirgli?»
«È per la presentazione della raccolta; ci ho lavorato tanto, ma ora mi sembra sciatta. Il filo conduttore dei racconti non emerge, avrei dovuto spiegarlo meglio, così sembrano brani scollegati. E comunque non fa niente, ormai starà per arrivare».

Continuarono a chiacchierare per un’altra mezz’ora. Poi qualcuno disse che si era fatto tardi e che doveva andare. Come fosse stata una parola d’ordine, tutti presero ad alzarsi e a prepararsi. Il padrone cercò di fermarli.
«Ma non aspettate Della Rocca?»
Molti si misero a ridere. L’uomo con gli occhiali disse:
«Lo lasciamo tutto a te, il tuo grande scrittore».
Massimo guardò la moglie, indispettito.
«Lo vedi? Te l’avevo detto! Accidenti! Ho perso un’occasione d’oro!»
«Cosa facciamo, rimaniamo?»
«No, non possiamo, stanno andando via tutti, sarebbe fuori luogo».
Così cominciarono anche loro a prepararsi, con lentezza. Alla fine furono accompagnati per ultimi alla porta. Mentre li salutava, al padrone di casa suonò di nuovo il cellulare.
«Carissimo, finalmente, ma dove sei? No, quello è l’ingresso di servizio. Devi tornare indietro. No, anzi, aspetta. Saluto due amici che stanno uscendo e vengo a prenderti».
Chiuse il telefono.
«Miei cari, è stato un vero piacere».
«Ma era Della Rocca?» chiese Massimo.
«Sì, ha sbagliato strada e ora sta dall’altra parte della proprietà. Mi raccomando tornate a trovarci».
«Se vuoi, possiamo andare a prenderlo noi».
Aldo lo guardò un po’ stupito. Erminia si sentì arrossire.
«No, grazie davvero, non è necessario. E ora scusate, ma devo proprio andare».
Alla fine li spinse fuori sulla strada e chiuse il cancello dietro di loro.
Erminia mise un braccio su quello del marito, che era rimasto a guardare il cancello chiuso.
«Dai, andiamo a casa. Guido io».

3 Replies to “Invito a pranzo“

  1. Brava,Fiorella! Si legge con piacere!
    Si nota la fatuita’ dei discorsi …mentre io…son rimasta delusa insieme allo scrittore… perché mi ero accorta che aspettavo con lui l’arrivo del famoso Della Rocca! Brava,Fiorella! Mi avevi quasi “coinvolta”!Orietta

  2. Brava Fio, molto divertente e scorre benissimo! Bello il breve dialogo tra la figlia ed Erminia… nostalgia per qualcosa che avrebbe potuto essere, ma non è stato… il tempo è una fisarmonica. E lo spazio? Un tango!

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