Il rifugio solare

Non stacca il dito dal campanello, sa che è in casa; lo sente parlare.

Attorno c’è solo terra sporca e piante rinsecchite. Nessun altro abita in questa zona. La porta si apre a strappo e Samuele sobbalza. Il signor Caramazza indossa mutandoni e una maglia traforata, alle sue spalle l’oscurità, nonostante sia un mattino tanto luminoso da accecare.
«Sei sempre più alto, eh».
«Buongiorno maestro… sì, sono cresciuto».
«Sei altissimo. Sembri più grande della tua età».
«Grazie».
«Non era un complimento» e sparisce, risucchiato dal buio.
Samuele tentenna un po’, poi entra in casa del suo ex insegnante delle elementari, l’unico adulto che ammira; ne ha sempre apprezzato l’autorevolezza.
Si muove senza bisogno di vedere, conosce bene l’ambiente, prima andava spesso a trovarlo. Appena raggiunge il centro del salotto, di fronte al divano di pelle marrone, Caramazza alza di scatto la tapparella.
«Altissimo» ripete con disprezzo il maestro, continuando a illuminare la stanza, finestra dopo finestra, in senso antiorario. Samuele, seduto sul divano, inizia a mangiarsi le unghie.
L’arredamento è deprimente, trascuratezza e disordine dominano su tutto, e c’è puzza di bruciato. Caramazza si accomoda accanto al suo giovane visitatore, l’unico negli ultimi sei mesi. Lo fissa attraverso le spesse lenti degli occhiali.
«Non voleva che venivo a trovarla?»
«Devi dire non voleva che venissi, non che venivo. Hai capito?»
«Sì, che venissi».
Caramazza continua a fissarlo, quasi disgustato. Samuele si rosicchia le dita, scorrendo gli occhi sulla brutta carta da parati; non sa più cosa ci è venuto a fare. Il maestro gli afferra il polso e gli allontana la mano dalla bocca.
«C’ha messo tanto ad aprirmi la porta. Parlava al telefono?»
«No, parlavo da solo. Blateravo».
«Ah, ok».
«Cosa ti hanno detto, che sono impazzito? Sei venuto per questo, no?»
«Solo che ha avuto un esaurimento nevrotico… lo dicono a scuola».
«Esaurimento nervoso, non nevrotico. Hai capito?»
«Sì, nervoso».
L’estate non è ancora iniziata, ma c’è già un caldo opprimente. Si tolgono il sudore dalla fronte a mano aperta e poi l’asciugano sulla pancia. Samuele è in pantaloncini corti, deglutisce la saliva a fatica; preferirebbe essere al mare.
«È vero che non vuole più insegnare?»
«Io non ho niente da insegnare a nessuno» e si alza, facendo schioccare la pelle del divano che si stacca dalla sua.
Samuele osserva perplesso il maestro che si sposta in cucina. Sente versare un liquido, il ticchettio di un metallo contro il vetro, e pensa a una scusa per andarsene. Caramazza torna con un bicchiere d’acqua e si risiede. Nell’acqua galleggiano dei moscerini. Samuele li indica per farglieli notare, ma quello lo ignora e beve tutto.
«Si sente bene?»
«Certo, l’ho zuccherata, così è meno amara».
«Forse devo lasciarla riposare».
«Riposare da cosa? Parliamo invece di una delle numerose guerre in atto, dei profughi e degli immigrati che nessuno vuole accogliere, delle armi chimiche e di quelle nucleari».
«Ma io non ne so niente di queste cose».
«Allora parliamo dell’alienazione provocata dalla realtà virtuale, dell’imbarbarimento culturale dell’Occidente, dei privilegi economici di pochi che causano la povertà di molti».
«Volevo soltanto sapere se sta bene e se è vero che non vuole più fare il maestro».
«Questo non ha importanza. Parliamo del denaro e della schiavitù che genera il progresso, del pianeta che stiamo uccidendo, dell’intolleranza e dell’assenza di memoria storica di quest’epoca, bisogna parlarne il prima possibile. Hai capito?»
«Ne possiamo parlare un’altra volta?» e si scolla dal divano, ma non sa cosa fare. Resta in piedi, confuso.
Caramazza scaglia il bicchiere contro una parete e i frammenti schizzano da tutte le parti. Samuele indietreggia, gli tremano le ginocchia. Il maestro lo guarda con livore, si solleva e lo segue stringendo i pugni.
«Dobbiamo occuparci di ciò che conta. Un essere umano deve impegnare la propria vita in qualcosa di significativo. Hai capito?»
Samuele fa di sì con la testa, ma non sa di cosa sta parlando, vuole soltanto andare via. È arrivato alla maniglia della porta d’ingresso. Spalanca la porta e corre fuori.
«Non si può sprecare l’esistenza con chi non sa niente. Hai capito? Ho sprecato la vita con bambini che non capiscono niente come te» urla il maestro sfilandosi la maglia e lanciandogliela appresso.

Panico, adrenalina e fuga. Samuele pedala più veloce che può. La casa di Caramazza ormai è lontana, ma lui non si ferma, continua a spingere sui pedali.
Sulla strada sterrata s’imbatte in altri ciclisti. Li sorpassa uno dopo l’altro, galvanizzandosi. Poi riconosce davanti a sé il signor Quartuccio e il signor Fracchiolla, due pensionati che di solito giocano a scacchi nella piazza del paese, finendo quasi sempre per litigare. Anche loro sono in bicicletta, e anche stavolta discutono a gran voce, con offese e minacce reciproche. Samuele rallenta, quelli iniziano a smanacciarsi, si strattonano e cadono, così frena, si guarda attorno e decide di uscire dal sentiero per non ritrovarsi in mezzo alla baruffa. Si volta a guardarli solo un attimo e vede che si fanno schizzare le dentiere fuori dalla bocca a cazzotti.
La sua mountain bike arrugginita soffre e stride, ma lui non ci bada, non pensa neppure alla direzione che ha preso, si domanda soltanto se diventare adulti significa impazzire. Come sua madre che è andata via di casa e non si sa più dov’è, come suo padre che se ne frega di tutto e ingrassa come un maiale, come tutti quelli che conosce. Passa accanto a un cespuglio dal quale balza fuori una lepre selvatica, perde il controllo per lo spavento, investe un grosso sasso e casca giù. Si è scorticato un gomito e un ginocchio, gli viene da piangere, ma resiste.
«Perché ce l’avete tutti con me?»
Tira su la due ruote, ci salta sopra in corsa e ricomincia a pedalare con tutta la forza che ha. Si accorge subito che si è staccato il cavo del freno posteriore, ma non gli importa, vuole soltanto seminare ogni pericolo. Attraversa quel paesaggio assolato con la sensazione crescente di essere perseguitato, tutto gli sembra spaventosamente imprevedibile.
Non conosce un posto in cui si sentirebbe al sicuro, non sa dove sta andando. Vede un cane randagio e cambia traiettoria, un elicottero sorvola la zona talmente basso da agitare la vegetazione, sente il boato di macchine che tamponano sulla statale e sussulta ancora una volta, non riesce a rallentare, perde l’equilibrio e rotola al suolo. La bicicletta si ribalta facendo un paio di capriole.
Resta disteso per qualche minuto, nascosto, si è sbucciato l’altro ginocchio che sanguina e gli fa male. Strappa un ciuffo d’erba e lo sfrega sulla ferita, guardandosi attorno con circospezione. Poi striscia verso la bicicletta; la catena è uscita dai rocchetti, la forcella è storta. È inutilizzabile, deve abbandonarla. Si rialza lentamente, attento a non fare rumore, ma delle cornacchie urlano in cielo e corre via.

Al riparo dagli scontri, dalla gente, dalla natura violenta, dall’imprevedibilità, dalle proprie incertezze, da ciò che non comprende, di corsa. Ha perso una scarpa, ma se ne frega, è un altro caduto sul campo di battaglia, come la bici e il senno del maestro Caramazza.
Si nasconde dietro una grande quercia, nel primo stralcio d’ombra che incontra. Riprende fiato, toglie anche l’altra scarpa, la infila in tasca.
«Devo trovare un rifugio».
Non sa che ore sono, né dove è arrivato; da lì non vede case né strade. Finge di andare a destra e scatta a sinistra, inciampa, si rialza e riparte, verso luoghi inesplorati.
A piedi nudi è più agile e gli piace sentire la terra che si spacca a ogni falcata. Scavalca un muretto basso di pietre rotte accatastate alla meno peggio. C’è un campo di girasoli a un centinaio di metri, decide di nascondersi là dentro.
Avanza scacciando le zanzare a ceffoni. La terra che calpesta è umida, fresca. Si asciuga il sudore della faccia con la maglietta, ascolta solo il suo respiro.
Questi girasoli sono ben curati, alti quasi due metri, distanziati l’uno dall’altro quaranta o cinquanta centimetri. Dopo pochi attimi d’immersione floreale Samuele si rende conto d’essere mimetizzato; ha undici anni ma è poco più basso di loro, biondo come i petali, vestito di verde come i fusti, magro e lentigginoso.
Sogghigna arricciando il naso, nel suo pacifico nascondiglio. Indistinguibile.
Tutti i girasoli sono rivolti verso l’alto. Guardano il sole, tutti allo stesso modo. A Samuele piacciono talmente che decide di imitarne la postura: braccia aderenti ai fianchi, schiena dritta, mento in su. Si lascia scaldare la faccia, a occhi chiusi. E affonda nel terreno che lo inghiotte fino alle caviglie.
Resta piantato, placido, non più solo, dedito all’astro terrestre. Il sole è un idolo, lui dimentica la paura, l’angoscia svanisce, non ci sono più nemici. In preda all’eliotropismo ruota impercettibilmente per ricevere i raggi solari, da est a ovest. Non sente le zanzare sulla pelle, né il sudore che gronda. Samuele è un girasole in adorazione.
Passano le ore e Samuele ruota, interrato. Non ha sete, anche se gli si screpolano le labbra per la secchezza e gli si arrossa il viso; neppure l’arsura lo desta. Pensa poco, ma le riflessioni che produce gli sembrano geniali, e nessuno può correggerlo o contraddirlo. Gli viene in mente la parola “insolazione”, la usava sua madre quando erano in spiaggia, come un pericolo da temere. Che scemenza. “Insolazione” deve significare consacrarsi al sole, entrare nel suo calore, nella sua luminosità. “Insolazione” significa amare il sole, concedersi a esso in modo assoluto.
La vita è la sfera infuocata che gli dona armonia. Ogni cosa adesso è semplice. Non ha più preoccupazioni, nessuna ansia. Tra i girasoli è al sicuro. E non ha intenzione di abbandonarli prima del tramonto.

Il sole si abbassa sempre di più, tutto il campo sporge da una parte per raccogliere gli ultimi bagliori. L’eliotropismo volge al termine e Samuele se ne rattrista. I capolini si fermano, i girasoli sembrano addormentarsi. Anche gli insetti vanno a riposare. E il bambino riemerge dal terreno senza muoversi, è la terra stessa che lo restituisce alla sua natura di essere umano, liberandolo dalla presa sotterranea.
Samuele è di nuovo con i piedi sulla superficie. Li osserva deluso, così grossi e tozzi, non più radici; sono ricoperti da uno strato di terriccio così compatto che pare indossi dei calzini. Si strofina gli occhi, il volto gli scotta, le labbra sono legnose. All’improvviso avverte la fame e la sete, l’inquietudine e lo sconforto, la stanchezza e lo scombussolamento fisiologico. È spaesato, vorrebbe chiedere ai girasoli cosa deve fare adesso, ma sa che è un’assurdità. Ormai si sta facendo buio, non può restare là, non è più uno di loro.
S’incammina seguendo le proprie impronte, per non perdersi in quel campo enorme.
«Ci vediamo domani, amici fiori».
Appena è fuori ne sente già nostalgia. Si siede su un masso a forma di sedile e li osserva, finché le tenebre oscurano il panorama. Li saluta un’ultima volta, agitando una mano, si alza e si dirige verso casa, ma dopo qualche passo sente un frusciare di fogliame dietro di sé. Si volta intimorito. Qualcosa si muove nel campo di girasoli, qualcosa che ne sta uscendo. Le ginocchia di Samuele diventano instabili, vorrebbe scappare, ma non ci riesce. Dalla piantagione compare una bambina della sua età, con lunghi capelli dorati, lercia e stremata come lui. E poi altri, maschi e femmine, caracollano stravolti in tutte le direzioni, senza badare alla sua presenza. Samuele non capisce come ha fatto a non vederli prima, ma le gambe sono di nuovo salde, e sorride. Riconosce dei compagni di scuola, alcuni compaesani, persino un suo vicino di casa a cui non ha mai rivolto la parola perché sembrava antipatico.
La biondina gli passa vicino. Samuele s’inumidisce le labbra per parlare senza incepparsi.
«Eravate voi i girasoli?»
La bambina emette una risatina acuta, senza fermarsi.

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