Labiano detto il Ciràulo

I viaggiatori erano pochi, il bus percorse via Roma, via Libertà fino alla Statua e ancora oltre fino a uscire dalla città.

Le colline prive di vegetazione, che si alternavano al mare, sembravano enormi molari cariati. Le case basse di villeggiatura perdevano pezzi d’intonaco; mancava una qualunque idea di piano regolatore urbano. Sparirono le colline, le case, il mare e si approssimò, sola, la campagna verso occidente.
Circa due ore dopo, quando le abitazioni tornarono a far parte del paesaggio, l’autista disse «Mozia. Per l’imbarcadero qua». Nessuno rispose e il bus ripartì.
La prima impressione che Mancino ebbe di quel luogo fu di desolazione; la seconda, formulata solo dopo essere arrivato in centro città, migliorò. La parte storica era quasi del tutto chiusa al traffico e lastricata non di basole vecchie e sudice come quelle che era abituato a percorrere nel posto dove viveva, ma di basole bianche e splendenti per il sole. Quel sabato c’era molta gente che passeggiava senza fretta.

L’appuntamento, che lo aveva condotto con largo anticipo in quel paese in cui non era mai stato, doveva avvenire solo nel primo pomeriggio. Prese a camminare senza meta facendo più volte il giro di quelle stradine, e per far passare il tempo decise d’entrare in una libreria. Era piccola, ben fornita e gestita da una signora anziana. La donna, insieme al figlio e al nipote, era alle prese con i compiti di quest’ultimo. Cercavano il termine più appropriato da inserire in un breve componimento. I tre optarono per “alla chetichella”, anche se il ragazzino continuava a preferire un semplice “andò via in silenzio”.
Mancino continuava a sfogliare libri; i presenti – oltre i tre citati anche due clienti – sembravano non accorgersi della sua presenza. Poi qualcosa colpì la sua attenzione: la proprietaria, rivolgendosi a uno degli avventori, iniziò a parlare di un certo Rosso Galantuomo. Dicevano che l’uomo avesse avuto un figlio da una moglie più giovane di lui e morta pochi giorni dopo il parto. Il bambino era nato sordo, ma non muto, cosa di certo strana, pensò Mancino: se così fosse stato, infatti, come avrebbe potuto conoscere il suono delle parole e riprodurlo senza averlo mai sentito?
«Che era meglio che non parlasse…» disse la donna alludendo a uno o a più avvenimenti accaduti al giovane nel corso della vita. Si capiva, però, che il ragazzino doveva possedere un’altra qualità fuori dal comune. La discussione continuava senza che quel talento venisse svelato, come se fosse tanto noto che ricordarlo sarebbe stato inopportuno. Ciò accrebbe la curiosità di Mancino, che si avvicinò al bancone – “alla chetichella” come avrebbe preferito scrivere la libraia – continuando a far finta di essere interessato al dorso dei libri. Con il passare del tempo qualcosa sembrò trapelare. Il figlio del Rosso Galantuomo era in grado di prevedere alcuni eventi che si sarebbero svolti nel futuro, seppur questi fossero di scarso interesse o del tutto privi di fondamento. I presenti, e la donna in particolare, sembravano tutti scettici su quelle qualità paranormali, adducendo domande del tipo «ma chi lo ha visto?», «ma è sicuro?», o considerando l’avverarsi delle previsioni come esclusivo frutto di casualità, nonostante, di solito, la gente di quel tipo fosse più predisposta a dar credito alle dicerie che ai fatti reali. Il ragazzo pareva essere un moderno Geremia, profeta a cui nessuno dava credito.
«Io posso dire per esperienza personale che non sono solo chiacchiere…» disse uno dei clienti, che fino a quel momento era stato zitto. Tutti si girarono verso di lui, anche Mancino che della discussione non faceva parte e che, sentendosi tradito da quel gesto inopportuno, tornò subito a guardare i libri sperando di non essere stato scoperto a spiare.
«Quando era ancora bambino, poteva avere tre o quattro anni» disse l’uomo «una mattina lo incontrai per strada, passeggiava con il padre. Siccome con il Rosso ci siamo sempre rispettati, ci fermammo per salutarci e scambiare due parole. Il bambino rimase tutto il tempo a fissarmi, a un certo punto gli sorrisi e gli feci una carezza. Lui, sereno come un papa, disse, ricordo ancora le parole esatte: “capiterà una cosa brutta”. Il padre arrossì più di quanto non lo fosse già, si scusò mille volte e se lo portò via. Da allora non ci siamo più incontrati».
«E questa sarebbe la cosa brutta?» chiese la libraia.
«No, la cosa brutta è stata che dopo meno di una settimana caddi dalla scala della mia cantina e mi ruppi una gamba, non sono rimasto zoppo per miracolo».
«Ti è capitato perché ti doveva capitare» disse la signora facendo una smorfia.
Mancino divertito scelse un libro dalla copertina nera, pagò e uscì. L’ora e l’aria frizzante primaverile, nonostante fosse ancora febbraio, gli avevano fatto venire appetito.

Barbara, ancora malconcia per un’influenza non del tutto superata, lo accolse sorridente. Si erano visti un paio di volte, parlati solo una, ma tramite amici comuni lei lo aveva invitato a raccontare la sua storia a un corso organizzato dall’associazione di cui era fondatrice. Il compagno di Barbara, Alfredo, un napoletano che da anni aveva deciso di trasferirsi sull’isola per seguire vari affari, aveva preparato il pranzo.
L’incontro con gli iscritti al corso era fissato per le sedici, ma iniziò circa un’ora dopo. Le tre ore abbondanti, che servirono a Mancino per raccontare di come qualche anno prima era riuscito a riacquistare la memoria dopo che una mattina si era svegliato per strada senza sapere chi fosse, trascorsero in maniera abbastanza veloce.
La sera Mancino e il Napoletano, davanti a una bottiglia di Marsala, parlarono fino a notte fonda delle prossime elezioni. Naturalmente nessuno riuscì a convincere l’altro delle proprie ragioni.
Mancino ripartì il giorno successivo. Il viaggio di ritorno, sebbene il medesimo, sembrò più breve, ma di solito capitava così.

Giunto ad Aniattì, prima di risalire a casa passò dal bar di Baldo. L’umore dell’uomo era tutt’altro che gioviale, la qualità del caffè era eccellente, ma entrambe le cose non erano una novità per Mancino. Portando la tazzina alla bocca ripensò alla discussione sentita in libreria. Un termine in particolare gli era rimasto in mente. Lo aveva sentito ripetere più volte riferito al figlio del Rosso Galantuomo: Ciràulo, parola che aveva reputato far parte del dialetto locale, ma che non capì se fosse nome o aggettivo.
«Sai cosa vuol dire Ciràulo?» chiese Mancino.
Baldo, che era rivolto verso la macchinetta del caffè, si girò e lo guardò incuriosito.
«Ciràulo» ripeté scandendo per farsi meglio intendere.
L’uomo strinse gli occhi e delle lunghe rughe gli attraversarono la fronte. «E a lei dottore chi gliel’ha detta questa parola?».
«Amunì Baldo, lo sai o no?» disse Mancino preparando una sigaretta.
«Ora che mi ci sta facendo pensare… È che non la sentivo da quando ero bambino» disse. «I ciràuli erano uomini che andavano di paese in paese e facevano spettacoli con i serpenti. Se li intorcigliavano alle mani, sulle braccia, al collo e così giravano per le strade. Ma se le devo dire la verità, io mai ne ho visti e questi erano i racconti delle madri e dei padri, che secondo me facevano per far spaventare i figli». Fece una pausa. «Ah, la sa un’altra cosa? Certi vecchi, ancora oggi, quando qualcuno indovina una cosa che deve succedere o se qualcun altro vince un terno al lotto, dicono “è chi fu ciràulo!” quindi può essere…».
«…che i Ciràuli prevedessero il futuro» concluse la frase Mancino accendendosi la sigaretta.
«Può essere» disse Baldo.
Mancino risalì i quasi cento scalini che lo separavano dal suo appartamento, si spogliò e si mise sotto la doccia. Quando ebbe finito scelse uno tra i suoi libri, ne consultò l’indice e trovò ciò che cercava.

Ciràulu o Ciaràulu dal greco: KspauXes, suonatore di tromba. È così chiamato chi nasce nella notte del 29 giugno, o in quella dal 24 al 25 gennaio, commemorazioni di S. Paolo. È scritto negli Atti degli Apostoli, che quando San Paolo andò a Malta, venne assalito da una vipera, che lo morse a un dito, senza fargli nessun male. Si dice che chi nasce quella notte può toccare senza danno la vipera, l’aspide, la biscia, il calabrone, lo scorpione, il rospo, il ragno ed altri rettili ed insetti velenosi. I ciràuli sono in grado di sverminare i bambini passando una mano sull’addome e pronunciando preghiere incomprensibili. Una delle più alte qualità del ciràulo è indovinare le cose che dovranno avvenire e predire il tempo della morte di ognuno. La gente si rivolge a lui come oracolo infallibile. Il popolo ha contrapposto alla sua figura quella di re Salomone, personificazione in terra della Sapienza: infatti, dove arriva l’indovino non può farlo il sapiente.

Dopo aver finito di leggere, la prima cosa che pensò Mancino fu che anche sua nonna era in grado di sverminare i bambini, ma non era nata in nessuno dei giorni indicati.
Una certa curiosità nei confronti di quel ragazzo, che ormai ragazzo non doveva più essere, si insinuò in lui, anzi nei giorni a seguire non riuscì a pensare ad altro. Passarono tre giovedì e la situazione non sembrò migliorare, anche perché per quanto s’impegnasse non riusciva ad acquisire altre informazioni su quella che era diventata la sua unica materia di studio. Quel particolare titolo di veggente era quasi del tutto caduto nell’oblio, quei pochi che ancora ne conservavano memoria nulla riuscivano ad aggiungere a quanto avesse sentito da Baldo o letto dal Pitré. Così decise, come chi si sveglia con una certa musica in testa e non riesce a liberarsene fin quando non sente la canzone per intero, che per scacciare quel pensiero ricorrente, che era divenuto un assillo, avrebbe dovuto incontrare il Ciràulo in persona.
La mattina del quarto giovedì telefonò a Barbara e le spiegò il fatto che lo angustiava. Lei rise e scherzò sulla futilità di quella ossessione. Disse di aver sentito parlare dell’uomo, ma che non lo aveva mai incontrato.
«Puoi portarmi da lui?» chiese Mancino.
Barbara rise di nuovo, in quei giorni si trovava fuori città per lavoro.
«Se pensi sia così urgente può accompagnarti Alfredo» disse in tono ironico.
Mancino non colse l’ironia, o se lo fece non lo diede a vedere e disse a Barbara di avvisare il Napoletano che sarebbe arrivato l’indomani prima di mezzogiorno.

Incontrò Alfredo al bar di fronte il Duomo. Il Napoletano era al corrente del motivo della nuova visita e, in quel poco tempo, aveva anche fatto delle ricerche in merito. L’uomo insistette nel pagare il caffè, salutò in maniera calorosa la barista e impaziente per la nuova avventura invitò Mancino a seguirlo, «Non sarà difficile trovarlo» disse. Salirono su una piccola utilitaria a due posti, e dal centro storico raggiunsero prima il lungomare e s’immisero poi sul viale Florio. Dopo qualche chilometro percorso parallelamente al mare, imboccarono una strada provinciale che s’inoltrava verso l’entroterra.
«Ci sono diverse voci sul Ciràulo» disse il Napoletano, «Il Rosso che era Galantuomo a detta di tutti, nonostante volesse un bene dell’anima a quel suo unico figlio pronto a dispensare profezie, un po’ se ne vergognava, così gli impose la clausura forzata, ritirandolo da scuola e allontanandolo dai suoi coetanei. Si dice che alla morte del padre, il ragazzo, ormai trentenne, non avendo dimestichezza con la vita sociale aveva continuato a vivere a quel modo».
«Qual è il suo vero nome?» chiese Mancino.
«Non sono riuscito a scoprilo, tutti lo chiamano Ciràulo da sempre».
L’auto girò per uno sterrato, dopo qualche centinaio di metri il Napoletano accostò sul bordo, scesero entrambi e richiamarono l’attenzione di un contadino che avevano visto da lontano tra i campi. Fatti pochi passi, un grosso cane bianco si lanciò abbaiando nella direzione dei due, che di corsa tornarono indietro chiudendosi in macchina. Il cane continuava a girare intorno alla vettura con aria minacciosa e sembrò placarsi solo all’arrivo del padrone.
«Niente fa» disse l’anziano accarezzandolo. I due, per nulla rassicurati, preferirono parlagli dal finestrino. Chiesero dove trovare chi cercavano. L’uomo li scrutò a fondo; escluso che fossero malintenzionati o al servizio dello stato – che ai suoi occhi dovevano essere equivalenti – disse loro di continuare per quella strada, avrebbero riconosciuto il posto dai due pini che stavano ai lati del cancello d’ingresso e dal fatto che era l’unico campo incolto del circondario. Mancino porse la mano al vecchio e, se non fosse stato abbastanza lesto a ritirarla, se la sarebbe trovata azzannata dal cane “che niente faceva”.
«Vai! Vai!» disse e ripartirono.
Le indicazioni risultarono esatte, alla loro destra si trovarono i due pini e il cancello aperto su una stretta strada privata che arrivava fino a un casolare e tagliava un terreno sul quale cresceva solo erba selvatica. Decisero di percorrere la stradina a piedi, nonostante avrebbero potuto farlo in maniera agevole in macchina, ma pensarono fosse più discreto e meno invasivo, non essendo ospiti attesi, farlo a quel modo.
Nessuno dei due sapeva cosa avrebbe detto o fatto una volta giunto davanti alla porta del casolare; infatti, lì si fermarono. Mancino guardò in faccia il Napoletano, che fece un cenno appena percepibile con il capo a cercare di dare coraggio al compagno, il quale fece un respiro profondo e bussò. Nessuna risposta arrivò da dentro. Il Napoletano fece lo stesso gesto di prima e Mancino tornò a bussare una seconda volta e poi una terza, sempre con maggior forza.
Ancora niente.
Fecero il giro del casolare per cercare qualche possibile abitante o un vicino a cui potessero chiedere informazioni. Tutto sembrava abbandonato da tempo: gli alberi crescevano senza che la mano dell’uomo li guidasse e il tempo ne aveva abbattuti un paio, i tronchi degli ulivi erano quasi del tutto coperti dalle foglie. Grosse crepe scendevano dal tetto della casa sulle pareti, da una delle quali pendeva un filo che non arrivava al palo della corrente elettrica.
Mancino si avvicinò alla finestra, scostò la vecchia persiana e guardò dentro. Si vedeva una grande stanza da pranzo, con un tavolo al centro, da un lato una cucina in muratura. Tutto era in ordine e un pentolino sui fornelli faceva presupporre la presenza di qualcuno. Sul lato destro si intravedeva una porta chiusa. I due completarono il giro di perlustrazione. Nella parte posteriore dell’edificio, quella rivolta al nord, c’era un’altra finestra, che fu però impossibile anche solo scostare. Tornarono all’ingresso, bussarono ancora, ma nessuna risposta. La porta era chiusa solo da un chiavistello, Mancino la spinse e venne a crearsi uno spiraglio.
«Reggi così» disse il Napoletano che si guardò attorno alla ricerca di qualcosa che facesse al suo caso. Trovò un rametto secco, abbastanza sottile da poter passare tra la porta e il muro, e con destrezza fece saltare il gancio dall’occhiello.
Il perché stesse agendo in maniera tanto avventata rimaneva un mistero: una loro abusiva presenza, in quella che era proprietà privata, poteva far reagire i proprietari in maniera poco amichevole, o fargli passare guai con la legge. Se qualcosa li spingeva ad agire in quel modo loro non opponevano alcuna resistenza.
Entrarono.
La stanza era immersa nella penombra, dalle finestre spiragli di luce mostravano la perenne caduta della polvere su ogni cosa. I due cercarono di muoversi in silenzio, l’unico segno di presenza umana rimaneva il pentolino vuoto sul fornello. Mancino passò un dito sulla striscia bianca di latte che circondava il bordo, era stato di certo usato quella mattina. Il Napoletano fece segno verso la porta che dava sull’altra stanza. Si avvicinarono con cautela. Mancino alzò il braccio per bussare, ma quel gesto rimase sospeso a mezz’aria, perché una voce gelò lui e il suo compagno.
«Venite, vi aspettavo».
I due si guardarono per un attimo, non riuscirono a capire se erano più stupiti o terrorizzati, e non avendo a quel punto altra scelta, attraversarono la soglia.
Furono investiti da un tanfo che rendeva l’aria irrespirabile: odore rancido di sudore reso dolciastro da una qualche essenza d’incenso e cera bruciata ristagnava in quel luogo buio come quella notte in cui tutte le vacche erano nere. Intravidero una sagoma muoversi sul letto.
Mancino ricordava che a un certo punto, non avrebbe saputo definire con precisione quando, il Napoletano chiese al Ciràulo «Riesce a sentirci?».
«No, non sono in grado di sentirvi» fu la risposta «Però riesco a leggere le vostre labbra» cosa che risultava improbabile per la distanza e per l’oscurità. «Avete una sigaretta?».
Mancino si avvicinò alla voce a tentoni, come un cieco in un ambiente che non conosce. La scintilla dell’accendino e la fiammella che ne scaturì mostrarono un viso di colore olivastro e guance scavate che mettevano in risalto zigomi sporgenti. Le dita tra le quali teneva la sigaretta erano magre e lunghe. Per qualche secondo si udì solo lo sfrigolio della brace che consumava carta e tabacco e illuminava in maniera alterna quella faccia.
«Aprite la finestra» disse l’uomo.
Il fumo rendeva ancora più intollerabile l’esistenza in quel luogo. La luce che entrò arrogante strinse le pupille dei presenti e mostrò il contenuto della stanza: una sedia e un armadio. Il corpo che stava disteso sul letto era scheletrico, vestito solo da una maglietta verde scuro e da un paio di mutande. Le gambe e le braccia erano stecchi che s’ingrossavano rispettivamente a livello delle ginocchia e dei gomiti, e terminavano in piedi e mani sproporzionati. Sul viso cresceva a ciuffi, come muschio, una lunga barba, rada come peluria adolescenziale. L’uomo avrebbe dovuto avere meno di quarant’anni ma ne dimostrava almeno venti in più.
«Ci scusi, ma forse c’è stato uno sbaglio» cercò di dire il Napoletano.
«Noi cercavamo…» aggiunse Mancino.
«Io sono Labiano» lo interruppe «Non penso ci sia alcun errore» disse dando una boccata alla sigaretta «Forse è colpa di questo esile corpo che ha deluso la vostra attesa, ma questo è, qua siamo» disse tradendo in parte il dialetto del posto. Chiuse gli occhi e poggiò la mano sulla faccia.
«Noi cerchiamo…» riprese Mancino.
«Un uomo di cui non conoscete nemmeno il nome» disse il Ciràulo.
«Il figlio del Rosso Galantuomo, ecco chi cerchiamo» disse il Napoletano.
L’uomo se possibile divenne ancora più cupo.
«Ho aspettato, ho sperato…» disse con un filo di voce, «Voleva il mio bene sopra ogni cosa, conosceva la cattiveria degli uomini. Cercava di proteggermi» aprì gli occhi, continuò a tenere la mano sulla faccia «ma ero un bambino, come può un bambino sapere cosa è giusto? Non tutto quello che vogliamo è possibile, ci sono delle regole, diceva» il suo sguardo tra le dita era perso nel vuoto, «Un segreto deve rimanere tale, la gente non sarà mai contenta, diceva» si girò verso i due, ma era come se non li vedesse, «All’inizio, venivano a trovarci in tanti, ogni giorno. Vedevo nei loro occhi la curiosità, ma anche il terrore. Poi sono stati sempre meno. La cosa non mi dispiaceva, avevo più tempo per giocare» fece una pausa e non si sentì nessun altro rumore, «Quella donna era stata la mia maestra, fu l’ultima persona che vidi. Era venuta fin qui per chiedere consiglio. Consiglio a me, un ragazzino. Dissi che avrebbe aperto un negozio di libri e che il figlio di suo figlio non sarebbe stato sangue del suo sangue. Iniziò a inveire contro di me e mio padre. Lui chiese scusa e abbassò gli occhi, lei andò via furiosa», il Ciràulo parlava in una sorta di trance, «Da quel giorno mi vietò di vedere chiunque. Solo io e lui. Sempre» la cenere cadde sul letto, ma non se ne accorse, «Volevo solo dimostrargli quanto valessi. Ho aspettato, ho sperato, ho desiderato con tutto me stesso… sapevo il giorno: un geco sarebbe uscito dalla sua tana con il sole ancora alto e un bicchiere si sarebbe infranto in cucina, sarebbe stato quello il giorno in cui sarei stato di nuovo libero, ma non glielo svelai. Avevo solo lui».
«Lei è in grado…» disse Mancino temporeggiando per fare completare la frase al suo interlocutore, che però non accettò l’invito, «Lei è in grado di prevedere il futuro?» riuscì a concludere.
«Dottor Mancino, io conosco poche cose e quelle poche le ho dovuto pure imparare da solo» disse il Ciràulo ridestandosi.
«Quindi conosce il mio nome senza che io glielo abbia mai detto, così, per caso?» lo incalzò.
«Per caso… Ricorda quello strano episodio che le è capitato? Tra tutte le cose possibili, la meno probabile».
Mancino strinse gli occhi non riuscendo a capire a cosa si riferisse.
«La mattina di circa un mese fa, ricorda? Il giorno del suo primo viaggio da queste parti. Appena sveglio, se non sbaglio, venne a conoscenza di un fatto, che ritenne increscioso, ma che non riuscì a spiegarsi».
«Ah!» fece Mancino meravigliato.
«Dottor Mancino, nulla avviene per caso, almeno da quando questo e altri universi ebbero origine».
Mancino si girò verso il Napoletano a chiedere con lo sguardo se avesse almeno lui inteso. Quello rispose abbassando gli angoli della bocca e alzando le spalle, a intendere che no, nemmeno lui aveva capito.
«Il fatto che le è accaduto quel mattino, seppure le è potuto sembrare del tutto fortuito, non lo è stato. Esso è stato il frutto delle azioni che lo hanno preceduto e nel momento in cui esso stesso si è fatto reazione è diventato, suo malgrado, Mancino, innesco per altre azioni che sono successe dopo e succederanno ancora».
«Quindi?».
«Non sottovaluti quell’evento, anzi non sottovaluti nessun evento» l’uomo soffiò una nuvola di fumo che scomparve dopo qualche secondo, «Per me è diverso, tutto questo non ha importanza, non c’è né un prima e un dopo, né una causa e un effetto, oggi è già domani» tenendo la cicca tra due dita la fece volare oltre la finestra, «Vede, dottor Mancino, lei per molto tempo non ricordando nulla è stato costretto a occuparsi del passato, così allo stesso modo io sono condannato a occuparmi del futuro, entrambi viviamo in un tempo che non è il nostro». Mancino distolse lo sguardo dagli occhi del Ciràulo. «Perché è venuto a trovarmi? Per conoscere me o per conoscere sé stesso?». Mancino non riuscì a rispondere nulla. «Posso chiedervi di richiudere la finestra?» disse il Ciràulo. Fu accontentato e la stanza cadde di nuovo nell’oscurità. «Vi prego di andare, adesso, non sono abituato alle visite, sono molto stanco» e parve che dicendo quelle parole ogni forza lo avesse abbandonato.

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