Molto altro

Sono a casa con Lara. Le ho preparato le linguine al pesto fatto da me e i fiori di zucca fritti, perché so che le piacciono. Abbiamo pranzato in cucina e dopo ci siamo spostate in sala, che è anche la mia camera da letto. Ma è grande e ci sta tutto. Le ho fatto vedere come ho pitturato la finestra di giallo crema e le tende che ho montato. Le ho fatte io, con un tessuto che ho trovato in cantina. Anche il copridivano l’ho cucito io. Lara lo guarda e mi dice che ne vuole uno anche per lei, così il gatto non le rovinerà più il divano. Ma io le dico di no, che non ho tempo. E lei me lo chiede di nuovo. Su, dai, mi dice, quando usciamo, andiamo a scegliere il tessuto insieme. Allora le spiego cosa intendo, quando dico che non ho tempo. Lara studia e lavora nella ditta di suo suocero, con il marito, e va bene così. Se tutti e due volessero mettersi a far niente da un giorno all’altro, potrebbero farlo.

Quelli della cooperativa mi hanno ridotto le ore, le dico. Io non faccio la vittima e queste cose le tengo per me, ma se qualcuno me le chiede, gliele racconto. Non è fare la vittima, questo. E adesso come fai a cavartela? mi chiede. Allora mi viene proprio la voglia di spiegarglielo, come ci riesco, e le faccio l’elenco di tutti i lavori che ho in questo momento. Dove, per chi e per quante ore, ogni giorno. Il sabato sono fissa al negozio di animali, dalla mattina alla sera, ma la titolare mi paga solo se la giornata è andata bene. Come se dipendesse da me, se la giornata va bene o no. I bambini, intanto, sono saliti a due: uno lo tengo il sabato sera, l’altro la domenica sera. I loro genitori vogliono uscire, e a me torna bene così. E poi ci sono le ore delle pulizie, che variano di mese in mese.

E così ce la fai? mi chiede. Lo so che ci tiene a me, perché lo so. Anche se lei lavora dal suocero e lavora per modo di dire. Ce la faccio per forza, le dico. Lei non sa cosa vuol dire farcela per forza. Allora la riporto in cucina e le faccio vedere lo schema che ho appeso al frigorifero. Mica l’aveva visto, prima. Lei lo guarda e io le dico: è uno schema che cambia di continuo. Le spiego che se mi danno meno ore alla ditta di pulizie, lo schema cambia. Il numero scritto nel riquadro, che sono i soldi che prendo, cambia. E quando mi danno da tenere un bimbo in più o uno in meno, lo schema cambia di nuovo, e cambia anche se mi chiedono di fare più o meno ore di pulizie durante la settimana. Ma alla fine del mese, il minimo che c’è scritto in fondo al foglio deve tornare. In un modo o nell’altro. Lei lo fissa e dice, oh. Magari pensa che lei neanche sa quanto spende ogni mese, altro che schema. Altro che minimo. Ma intanto oggi è venuta a casa mia e ha visto quanto la tengo bene, che ha pure la finestra della camera pitturata di nuovo, con le tende in tinta giallo ambra, e lei non ci credeva che ho fatto tutto da sola.

Torniamo in camera e ci sediamo sul divano.

Mi dice, chiedi i soldi a Giovanni. Dice così perché lei a suo marito li chiederebbe.

Allora le dico che dal mio ex marito non voglio niente. Nessuno mi può dire che gli devo qualcosa, né per la casa né per nient’altro. Che da quando ci siamo lasciati, e sono già due anni, non gli ho mai chiesto niente. Le dico che lei dovrebbe conoscermi, che piuttosto non mangio. Lavoro, pago l’affitto, metto da parte qualcosa ogni volta che ci riesco e non chiedo niente a nessuno.

E lei mi dice, ma come, se ti spettano. Lo ha detto anche il giudice. E continua. Non ne avessi bisogno, mi dice, ma invece ti farebbero comodo.

Certo che ha ragione, mi farebbero davvero comodo. Ma riesco a incastrare tutto e a spendere poco. E Lara lo sa. Anche il tubo del lavandino ho riparato, in bagno, tutto da sola. E le dico anche questo.

Quello che mi frega sono i ritardi, quando la gente mi dice, poi facciamo i conti, te li do alla fine. Oppure, te li do quando posso.

Dico a Lara che da Giovanni non voglio niente. Cerco di essere chiara, che non tiri fuori questa storia un’altra volta. Piuttosto vado a battere, le dico, ma lei tira fuori il suo problema col gatto che le piscia sul pavimento di legno. Non so come, tira fuori quello e allora perdo il filo. E quando la seguo di nuovo, la sento dire che il legno del suo pavimento non si trova più di quelle dimensioni. È un bel problema, dice, e io penso che, se la conoscessi ora, Lara, forse non diventeremmo amiche. Ma la conosco da sempre e allora è diverso.

Le chiedo se si ricorda quando andavamo al mare insieme. Lei aveva il sedere più bello della spiaggia e io le tette più belle della spiaggia. Qualche volta andavamo giù al fiume, era bello anche lì. Ci andavamo col motorino di mia sorella, in due. Provo a parlarle di quello, ma lei tira di nuovo fuori il mio ex marito. Ripensaci un po’, mi dice, magari solo per qualche tempo. Lascia perdere, le dico io, ti faccio il caffè? E intanto mi alzo e vado a farglielo. Lei mi segue e quando entriamo in cucina il sole illumina il tavolo e si riflette sui fornelli. Si è fatta quasi estate e per un attimo mi fa rabbia pensare che andrò al mare quanti giorni?, una manciata, se mi va bene.

È in quel momento che decido di raccontarle una cosa che non le ho mai detto. Non l’ho mai detta a nessuno.

C’era stato un periodo, ai tempi del call center, sarò stata sposata con Giovanni da cinque o sei anni, in cui il lavoro mi pesava più che adesso. Stavo al commerciale e avevo come capo del personale la Marini. Te la ricordi la Marini? chiedo a Lara. Lei mi fa due occhi, per dirmi che se la ricorda eccome. Gliene avevo raccontate di cose su di lei. Che poi era stata la Marini a decidere di mandarmi via. Comunque, stavo al commerciale e lì dovevamo vendere contratti. Non come al supporto tecnico, dove la gente chiama per risolvere problemi, ma per te fa lo stesso, che glieli risolvi o meno. Tu stai ad ascoltare e basta. Al commerciale, invece, dovevamo chiamare noi e dovevamo vendere. Io avevo superato il mio periodo di crisi. Quello lo avevo avuto all’inizio e mi era durato parecchio, sei mesi almeno, in cui tornavo a casa e piangevo, perché mi sembrava impossibile usare quel maledetto programma e convincere la gente a comprare. Ogni mese dovevo convincerne almeno dieci, sennò ero fuori. Il mio periodo di crisi lo avevo superato e non so quante vendite avessi già fatto quel mese. Un giorno, verso la metà del mio turno, ho fatto un’altra telefonata e mi ha risposto un uomo che mi ha salutato, poi ha ascoltato quello che avevo da dirgli e alla fine mi ha detto, va bene, lo faccio, se a lei può servire a qualcosa.

Era una persona educata, credimi, l’ho capito subito. Uno di quelli come ce ne sono pochi. E parlava bene, con un tono di voce tranquillo. Educato e tranquillo. Sai come? Come uno che non ha fretta. Che è una cosa molto rara da trovare per chi sta al telefono a disturbare la gente mentre fa chissà cosa, a casa propria, o sul lavoro. Insomma, mi ha colpito quella risposta, era una cosa strana. Allora gli ho detto, bene, poi l’ho ringraziato e mi sono messa a chiedergli le solite cose che chiediamo a tutti. Credimi, mi parlava come ci parliamo io e te al telefono. No, è diverso, ma voglio dire, non era come succede di solito, che dall’altra parte neanche mi ascoltano, o buttano giù all’improvviso, o le cose me le dicono, ma intanto fanno altro. Lui mi dava l’impressione di essere lì, capisci?, dall’altra parte della cornetta, mentre mi parlava. Poi non ti ho detto che mi dava del lei. Non succedeva mai che mi dessero del lei. Ma lui sì, e guarda, era tanto educato e garbato.

Ci stava provando, mi dice Lara, ma io le dico che non era così, per niente, e allora continuo a raccontarle la mia storia. Le dico, ogni cosa che gli chiedevo lui mi raccontava qualcosa di sé, o qualcosa in generale. Sapeva un sacco di cose ed era bello ascoltarlo. Sarei stata al telefono con quell’uomo per ore, ma non potevo, la Marini mi ronzava intorno, mentre l’uomo al telefono faceva certe pause che non hai idea. Sembrava che gli servissero per scegliere le parole da dire. Ma non era un’angoscia aspettare che parlasse, anzi, mi metteva un gran senso di pace che era l’opposto del clima che respiravo lì dentro. Mi ha pure detto, come per giustificarsi: d’altra parte noi siamo le parole che diciamo. Così mi ha detto.

Quando ho finito di raccogliere i dati e dovevo fare solo la registrazione, sai, la lettura del contratto che facciamo alla fine, gli ho chiesto se aveva capito tutto e se gli stava bene. Lui allora si è preso la sua solita pausa e mi ha ringraziato di avermelo chiesto, pensa. E alla fine mi ha detto, ma certo, lo faccio volentieri, se ne otterrà un beneficio. Certo, gli ho detto io, eccome. Così gli ho spiegato che se non chiudevamo dieci contratti a settimana eravamo fuori e che quel lavoro mi serviva. Gli avrei detto qualunque cosa, te lo giuro, non puoi capire.

Lara mi dice, che bel tipo che dev’essere stato. Lo hai conosciuto? Dopo la telefonata, intendo. Macché, le dico io, aspetta.

Lui mi ha detto, allora facciamolo, registri. E io ho aggiunto, poi la saluterò. E lui, registriamo e poi la saluterò anch’io. Lo sa, mi ha detto l’uomo, senta bene Lara, mi ha detto, sarà l’ultima cosa che faccio. Così ha detto e io ho pensato che intendesse l’ultima cosa prima di andarsene a casa o in ferie o prima di uscire con un amico o che so io, e invece mi ha detto, la saluterò come si fa l’ultima cosa prima di farla finita.

Oddio, dice Lara, e si raddrizza sul divano. Continua, mi dice. E allora le dico, si è subito scusato, pensa. Mi ha detto, mi scusi, la prego, non avevo intenzione di spaventarla. D’altra parte devo ammettere che mi è scappato di dirglielo.

Io gli ho chiesto se stesse scherzando, anche se avevo capito che non scherzava. Non avrebbe mai scherzato su una cosa del genere, una persona così. È stato allora che mi ha detto che lo aveva deciso da tempo, e poi mi ha detto, e lo sa qual è stata la cosa più difficile? Mentre ci pensavo, lui mi ha detto: è stato decidere l’ultimo libro da leggere, l’ultimo film da vedere, l’ultimo posto dove andare e l’ultima persona da salutare. Tutte cose che, mi può credere, prima di decidere di ammazzarmi, per me contavano poco, tutto sommato.

E poi mi ha detto, certo non immaginavo che l’ultima cosa sarebbe stata conoscere una persona al telefono e stipulare con lei un contratto di luce e gas. Non ne abbia a male, la prego, mi ha detto proprio così: la prego.

Era la persona più educata con cui avessi mai parlato in vita mia. La sua non era un forzatura, vedi, non era come quelli che ti parlano con la voce affettata e lo senti che dicono certe cose solo perché un attimo dopo devono chiederti se fai una cosa per loro. Lui era educato e basta, con quel suo modo.

Lara mi dice: io mi sarei presa una paura boia. E io ce l’avevo, le dico, ma lui no, e questa cosa mi faceva stare bene e male allo stesso tempo. C’era una tale serenità nelle sue parole ora mi chiedo se era davvero serenità, o qualcos’altro.

Però la telefonata si allungava e la Marini, te l’ho detto che tipa è, basta vederla, mi è passata a fianco e mi ha fatto segno di chiudere. Io le ho fatto vedere che avevo a monitor la schermata del contratto, ma lei mi ha fatto segno di tagliare corto comunque. Ero a 20 minuti e le telefonate più di 15, secondo lei, non dovevano durare.

Vai avanti, mi dice Lara. Poi si è sparato o cosa? mi chiede. Io le dico che non lo so, se si è ammazzato e come lo ha fatto. Però, dopo la registrazione, dopo che abbiamo registrato il contratto, non ho chiuso la telefonata, non me la sono sentita, e lui mi ha detto dell’altro. La cosa più bella, dico a Lara e le verso il caffè che intanto è uscito da un bel po’. Lo verso anche per me e davanti agli occhi mi viene la faccia di quell’uomo, che non ho la minima idea se sia davvero la sua, ma per qualche ragione me la immagino così. Un uomo come dovrebbe essere un uomo con quella sua voce e quel suo modo di fare e di parlare. Ma potrebbe anche non essere affatto così, come questa faccia che ho davanti agli occhi. Questo non lo dico a Lara e do un sorso al mio caffè.

Continua, mi dice lei, e lo so che si immagina chissà che, e per un attimo mi viene voglia di non dirle altro. Ma poi le dico la storia che quell’uomo mi ha raccontato. Avevano avuto un problema, lui e sua moglie, e s’erano messi di mezzo i servizi sociali. Fatto sta che lui non vedeva suo figlio da anni. Cioè, lo vedeva una volta ogni due settimane, ma solo alla presenza di un educatore, per due ore ogni volta, in una stanza oppure al parco comunale. Così mi ha detto. E dopo qualche tempo di questi incontri, suo figlio neanche più lo voleva vedere. Urlava e strillava e si agitava quando veniva l’ora di andare da lui e dall’educatore. Così gli diceva la sua ex moglie e lui le credeva.

Mi ha detto: alla luce di numerosi episodi che si erano verificati, avevo smesso di considerare la mia consorte una persona affidabile, ma quando mi ha detto questa cosa di nostro figlio, le ho creduto e ho smesso di vederlo. Così mi ha detto.

Pover’uomo, mi dice Lara.

Già. Mi ha detto che questo era successo un anno prima, più o meno, e che da quel giorno si era messo a ristrutturare una vecchia automobile che teneva in garage. Mi ha detto: il Maggiolone bianco con cui io e mia moglie siamo convolati a nozze. Convolati, ripete Lara. Consorte e convolati. Capisci, le dico, io avevo la Marini che girava intorno alla mia postazione e continuava a farmi segno di tagliare, e dall’altra parte avevo quest’uomo che mi raccontava una cosa del genere e che poi si sarebbe ammazzato.

Mi ha detto che ci ha impegnato un anno intero a sistemare la macchina e che ha fatto tutto da solo. Lui, che di motori non ci aveva mai capito niente, che aveva lavorato nella ristorazione e in tanti altri settori, ma che di manualità ne aveva ben poca. Lo ha rimesso a posto per suo figlio, mi ha detto.

Ti giuro che il tempo per me non aveva più un senso, dico a Lara. Ero divisa in due. Ma sai una cosa? A quel punto, del contratto che avevo chiuso mi fregava ben poco, e anche della Marini. Da una parte c’era lei che mi gesticolava davanti, e dall’altra quest’uomo che mi raccontava di una sera in cui lui e sua moglie, durante il viaggio di nozze, videro un gruppo di ragazzini che tormentava un porcospino con un ramo. Sai come sono crudeli a una certa età, dico a Lara, e non so se stia ancora seguendo quello che dico. Poi uno di questi ragazzini si era fatto avanti e aveva proposto di dare il porcospino in pasto al suo cane. Allora gli altri si erano eccitati e si stavano organizzando per catturarlo, ma lui e sua moglie erano intervenuti, avevano tirato su il porcospino con due asciugamani messi uno sull’altro e lo avevano caricato in auto. Era sera, mi ha detto, e i fari del Maggiolone illuminavano appena le strade che percorrevano. Lui ha usato delle parole diverse dalle mie, vorrei saperle ripetere uguali. Quando me lo ha descritto, ho pensato, che bello. Ho immaginato loro due su quel vecchio Maggiolone, lungo stradine tortuose dell’entroterra sardo, con questo porcospino sul sedile posteriore, avviluppato negli asciugamani, e il suono di quel vecchio motore. Mi ha detto che erano andati avanti per chilometri, fino a quando avevano trovato un posto che pareva giusto per farci stare il porcospino. Una zona di verde isolata dalla strada principale, senza case in vista, senza pericoli. Ma anche questo posto, avessi sentito lui come me lo ha descritto.

Insomma, mi dice Lara, ha finito di ristrutturare la macchina per poi ammazzarsi.

Io le dico: sì, perché è così, anche se mi sembra poco, a dirla in questo modo. E aggiungo: mi ha detto che l’idea di ammazzarsi gli era venuta proprio quando era nel mezzo della ristrutturazione, quando non sapeva neanche se l’avrebbe portata fino in fondo. Un anno di lavoro e venti chili, mi ha detto. Venti sono tanti, mi dice Lara, dev’essere stato parecchio grasso il tuo uomo. A me dà fastidio che lo chiami il mio uomo, ma grasso dev’esserlo stato per davvero. Mi ha anche detto: così faranno meno fatica a occuparsi del mio corpo.

Lara beve il caffè e tiene la tazzina stretta in mano. E poi? mi chiede. Poi, le dico, si è scusato di nuovo per avermi turbata, mi ha detto che per lui era stato un piacere e mi ha salutato. Io sono scoppiata in lacrime, lì com’ero, seduta alla mia postazione, con le cuffie e gli occhiali, ho iniziato a singhiozzare e poi a piangere.

Non ci pensi, mi ha detto lui prima di buttare giù, ora non ci pensi più. Il contratto lo abbiamo fatto, mi ha detto, siamo a posto, no? È finito? mi ha chiesto. Mi si erano messi intorno la Marini e Gabriele, quello che lavorava accanto a me, sai che per lui ogni occasione era buona per non fare niente.

E io gli ho detto, fatto, e lui mi ha detto, bene, uno in più. E poi ha detto, cos’altro siamo? Poi si è scusato di nuovo, mi ha ripetuto non so quante volte, mi scusi, ma intanto io non capivo più niente, e lui ha aggiunto, la saluto, perché sto diventando malinconico e pietoso, tutto quello che ho cercato di non essere durante la mia vita. E ha buttato giù, dico a Lara, e se non sto attenta piango di nuovo.

Finisco anch’io il caffè, poi prendo le due tazzine e le metto nel lavandino. Pulisco sempre i piatti appena finisco di mangiare e do una passata anche ai fornelli. Non li lascio mai lì per dopo. Apro l’acqua e dico, a volte penso che avrei dovuto chiedergli se potevo fare qualcosa per lui, per fargli cambiare idea, magari. Oppure che dovevamo sentirci anche il giorno dopo, per il contratto, una cosa di questo tipo.

Non me lo avevi mai raccontato, mi dice Lara. No, le dico io, l’ho detto solo a Giovanni, quando sono tornata a casa. Era passato da poco il mio compleanno e Giovanni mi aveva regalato un attrezzo per la cucina che non funzionava. Faceva saltare il quadro elettrico. Io volevo chiamare il numero verde per l’assistenza, o riportarlo al negozio, visto che era in garanzia, ma lui sai com’è, mi aveva detto che voleva aggiustarlo per conto suo. Così, appena ho finito il turno, sono tornata a casa. Ho camminato quasi di corsa, per strada. Te lo immagini come stavo. Quando sono arrivata, Giovanni stava dietro a riparare quell’attrezzo.

Mi sono seduta vicino a lui e gli ho raccontato subito quello che mi era successo, proprio come l’ho raccontato ora a te. Un po’ più alla svelta, credo, perché sai com’è lui, che dopo due parole pensa già di aver capito cosa dici e taglia corto.

E lui mi ha detto, guarda che ti prendeva per il culo e nient’altro. Mica faceva sul serio, quel tipo.

Lì per lì ho provato a fargli capire meglio. Ma lui, invece di rispondermi, mi ha fatto un’altra domanda: vorresti che lo facessi anch’io? Ti piacerebbe? mi ha chiesto, e poi si è rimesso a lavorare sul quel coso rotto.

Ti rendi conto? dico a Lara. E aspetto.

Ma lei mi dice, tutto qua? Ti ha fatto molto altro, aggiunge, e di peggio.

Allora penso che non ha capito. Non lo so se Giovanni mi aveva fatto di peggio, magari, forse, ma se anche fosse, non conta. Non è questo il punto. È lei che non capisce quale è il punto, come non lo aveva capito lui.

Solo per un attimo, penso a quanto cambierebbe il mio schema appeso al frigorifero se mi decidessi a fare come dice Lara, se gli chiedessi i soldi che il giudice gli ha detto di darmi. Basterebbe la metà di quello che ha detto il giudice, per far cambiare lo schema. E forse anche il frigorifero non sarebbe più lo stesso.

Mi alzo dalla sedia e apro la ghiacciaia. Prendo il limoncino che ho fatto io, lo appoggio sul tavolo davanti a Lara e le chiedo, lo vuoi assaggiare? E lei mi dice, certo, ma dopo andiamo a scegliere il tessuto per il mio copridivano.

Questo racconto è stato tradotto in inglese da Scott Belluz e pubblicato sulla rivista americana MAYDAY con il titolo So Much More, per leggerlo clicca QUI.

5 Replies to “Molto altro“

  1. Spunto narrativo originale, lettura per me molto piacevole per lo stile di scrittura ma anche per le riflessioni, di natura generale e personale, alle quali alcuni passaggi, anche solo poche parole, mi hanno stimolato

  2. non capita spesso di leggere un racconto in cui ti ritrovi, scritto con uno stile colloquiale ma preciso, che azzarderei definire “beat” e tale da rendere così piacevole la lettura da far venire voglia di sapere come continua la storia…
    bravo!

  3. E’ un bellissimo racconto! Profondo e pure lieve, bravo Marco non immaginavo… i miei complimenti,
    Pia

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