Alveoli

1.2

Un uomo ha lavorato per trent’anni in una miniera fantastica. La strada per arrivare alla miniera fantastica gliel’aveva insegnata dopo una sbronza un vecchio e, morto il vecchio, a saperla era rimasto solo lui.

Le fluorescenze blu profondo invaghimento per l’insopportabile erotismo della fine hanno fatto brillare i suoi occhi per trent’anni, ogni notte, nel parziale buio della sua baracca di assi che sapevano di terra bagnata e legno fresco, e di bollito e di patate e di minestra, di cipolle e di pane raffermo, come se l’uomo fosse stato sepolto vivo ma allo stesso tempo come se fosse a casa.

In capo a dieci anni l’uomo non ci vedeva più, però non ne aveva più bisogno. Le luci aurorali della miniera gli avevano bruciato gli occhi. La condensa del suo respiro d’inverno assumeva i vezzi e i lineamenti degli amori che non avrebbe avuto mai. I sigari, fumati sempre su una sedia di legno, li accendeva schioccando due dita e dicendo ad alta voce il loro nome. Quando, sdraiato in silenzio sul pavimento della sua unica stanza, ascoltava il vibrare delle loro corde, i pianeti e le stelle non cambiavano i propri destini. Niente modificava le traiettorie dei corpi celesti nel cosmo, ma ciononostante l’uomo sapeva che la musica era stata creata per lui.


Un giorno di cinque anni prima è iniziato il decorso della sua malattia. Un giorno di quattro anni prima l’uomo ha trovato ciò che da ventisei anni stava cercando. Ha annegato le mani nel fango e, mordendosi la lingua per non sentire il tormento delle dita che si piegavano al contrario, ha estratto la pietra. La pietra era fredda e l’uomo si convinse che fosse sua madre. L’ha ripulita con cura dal sangue. L’ha portata al sicuro nella sua baracca, davanti alla stufa, adagiando su di essa una coperta, al secco e al caldo. Ha detto, per tutta la mia vita da adulto ti cercai, o venere tra le dee dell’esistenza, o ragione di tutte le ragioni, o impossibile e onnipotente luce dell’uomo che sogna, per tutta la vita immaginai di lasciarmi riposare nel tuo sguardo. Adesso che potrei averti con me come massimo premio per la mia perseveranza, solo adesso capisco che ti ho avuta, che sei stata mia per tanta infanzia, che adesso tu non mi appartieni più, perché nessuno ha il diritto di costringere a sé, immobili, i meravigliosi capricci della materia.

La malattia lo aveva reso più debole, ma l’uomo è riuscito a trascinare lo stesso la pietra fino al posto dal quale l’aveva sottratta. Ha calato le braccia di nuovo nel fango e ha adagiato la pietra con delicatezza, come un’anfora su un fondale marino. L’uomo trascinava i piedi stanco. La malattia, che gli aveva perforato le scarpe, si avvinghiava in tutti i modi alla terra della miniera con le sue radici magiche. Sembrava che quella malattia riconoscesse come madre, o come propria causa prima, la miniera fantastica e non volesse permettere all’uomo di separarsene.

Ogni volta che si fermava a riprendere fiato, doveva strappare via i tralci e i grovigli per poter tornare a muoversi. Nelle radici circolava tutta la sua stanchezza. Si scaricava, quella stanchezza, continuamente nel suolo e nell’aria, e l’uomo così non dormiva più. Gli incubi, che non potevano sfogarsi nel sonno, germogliavano sul suo corpo in funghi-verruca che maturavano, esplodevano e liberavano nell’aria lo spiritello di un profondo senso di solitudine, esalazioni goblinesche dell’invidia per chi non ha mai avuto bisogno di porsi domande, insetti con parti di scimmia, creature demoniache della pena e dell’inganno, velenose lucertole alate del tormento e un barbazù. Stavano con l’uomo per un po’ di giorni, gli mormoravano anatemi nelle orecchie, nelle lunghe notti insonni gli incastravano le unghie sottili nella carne. Poi, una sera o un pomeriggio, morivano soccombendo alla troppa realtà.

L’uomo sarebbe potuto andare via, ma non l’ha fatto. Ogni giorno tornava alla miniera, e ogni giorno per la sua malattia si muoveva un po’ peggio e ci metteva, ad arrivare, un po’ di più. È tornato alla miniera per altri quattro anni. Ogni anno, nella data in cui per la prima volta aveva estratto la pietra, l’uomo annegava le mani nel fango, la prendeva e la portava con sé. La puliva, la copriva, la metteva davanti alla stufa all’asciutto. Il giorno dopo la riportava indietro.


Una volta al mese, o poco di più, l’uomo tornava al villaggio più vicino, dormiva un giorno nell’unica locanda e la mattina dopo acquistava tutte le provviste per sopravvivere un altro mese nella sua baracca di assi. Anche quando ormai l’uomo non dormiva più, aveva mantenuto questa abitudine. La gente del villaggio lo guardava storto, cercava di evitarlo. Stringendosi le spalle in uno scialle o in un cappotto, rabbrividendo chiunque si girava dall’altra parte. Non c’era persona in grado di togliersi dalla testa i suoi funghi e le sue radici, lo sguardo da cieco dell’uomo e la loro immagine.

Quando, una notte in cui dormiva alla locanda, ha aperto gli occhi, l’uomo non è più riuscito ad alzarsi. Dopo un giorno che l’ospite non si faceva vedere, e dal piano di sopra si udivano frequenti colpi di tosse, il locandiere ha aperto la porta della sua stanza. L’uomo respirava a fatica, sragionava e tossiva sfere magiche. Le sfere rotolavano sul letto, con filacci di saliva, per la maggior parte fino al bordo del materasso e per la maggior parte poi cadevano giù. Sul pavimento si rompevano come uova perfette e ogni uovo conteneva le parole di gioia o di dolore di una persona che sarebbe potuta esistere, ma non aveva avuto sufficiente fortuna al gioco del destino e delle nascite e così non era esistita mai.

Le radici coprivano il suo corpo, dai funghi era esploso uno sciame di folletti grandi come mosconi africani. I folletti ridevano con una voce piccola e tagliente, si strattonavano tra loro, si strappavano i vestiti a vicenda e si lanciavano le scarpette di cuoio minuscole. In maniere tutte caotiche, tutte moleste, gli ronzavano attorno al volto.

Il locandiere, spaventato, si è affrettato a far chiamare un medico. Il medico, entrato nella stanza, ha aperto la sua borsa degli attrezzi. Prima di tutto ha pietrificato i folletti vaporizzando nell’aria con una pompetta di seta una sostanza che sapeva di cannella. I piccoli folletti diventavano di pietra e piombavano a terra, sgretolandosi. Poi ha visitato l’uomo. Dopo un lungo silenzio, in cui un gruppetto di curiosi aveva insediato la stanza, ha detto: sembrerà forse a tutti i profani, la malattia, senza ombra di dubbio di causa esterna al suo corpo, perché sta rapidamente divorando il suo corpo da fuori e da dentro, e non c’è corpo che, per natura, dovrebbe avere la propensione a distruggersi, ma non lo è. Sono i suoi polmoni, si faccia attenzione signori e signore, i suoi polmoni che nonostante il ciclopico sforzo, non riescono più a respirare la realtà.


Mentre il medico rimetteva a posto gli strumenti, ha spiegato al locandiere che non c’erano speranze. Si augurava che l’uomo avesse pagato prima la stanza, perché il locandiere avrebbe dovuto pagare anche il suo erario. Poi, come se l’idea gli fosse venuta all’improvviso o all’ultimo, ha aggiunto che forse tuttavia potevano trovare un’altra soluzione, un accordo, perché guarda caso, ha spiegato, lui stava studiando proprio quella malattia.

Quando il medico è tornato nella sua grande casa in ombra, sulla strada appena fuori dal villaggio, l’ha fatto accompagnato dagli uomini che aveva ingaggiato per portare il cadavere nella sua sala operatoria. Il cadavere era ormai da qualche ora un cadavere, ma respirava ancora, perché in questo consiste la malattia.

Una volta rimasto da solo nel suo studio, il medico ha rimosso le radici che lo coprivano e ha aperto il torace del cadavere che continuava a muoversi su e giù. Ha estratto uno dei due polmoni: illuminava tutta la stanza della fosforescenza blu. Ha tagliato con il bisturi il tessuto del polmone e ha isolato un gruppo di alveoli. Infine ne ha reciso uno e ora lo sta osservando.

2.1

Un uomo è stato investito da una carrozza, ma quando la ruota di ferro ha calpestato il corpo dell’uomo schiacciandogli il ventre e alcuni organi interni, la carrozza si è alzata da terra e ha iniziato a galleggiare nell’aria.

I due cavalli della carrozza hanno le criniere e le code sollevate come alghe, perché niente di quella carrozza è ormai più soggetto alla gravità. Le labbra sui musi dei cavalli ondeggiano su e giù; le loro zampe sono storte e messe a incrocio, le loro smorfie sono ridicole, come se si stessero affacciando dai finestrini di una locomotiva in corsa. I musi dei cavalli sanno essere terribili.


Un gentiluomo che soffre di vertigini e si trova sulla carrozza perché, facoltoso e molto grasso, non intende coprire a piedi neanche la più piccola distanza, preso dal panico per i tre o quattro metri da cui la carrozza sta fluttuando, non ci pensa due volte e si lancia fuori dallo sportello.

Si è fatto, sotto la carrozza, un brulicare di gente incredula. Un prelato che ha la fama di essere un pezzo grosso, l’emissario di un Cardinale o addirittura dell’Arcivescovo in persona, si inginocchia e ad alta voce si mette a pregare. Il fabbro del quartiere indica la carrozza con un pesante martello a suo padre, un vecchio onesto e stordito dall’anzianità. Le solite pettegole parlano di finestra in finestra, osservando la scena dalla loro altezza prediletta, primo piano, secondo piano, mansarda, soffitta, e qualcuna dalla sua postazione può intravedere, attraverso i vetri, anche i passeggeri della carrozza miracolata. Un cane, percepita la natura inammissibile del fatto, ulula con il muso rivolto verso l’alto. Tutte le bestie della strada sono in fermento.


Quando il gentiluomo facoltoso e molto grasso si lancia fuori dallo sportello, ha gli occhi chiusi e per un attimo gli pare davvero di cadere giù. Da sotto vedono le code del suo frac svolazzare come una lingua di drago o due.

Il gentiluomo apre gli occhi quando è sicuro che dovrebbe essere arrivato a terra, ma constata che, infaustamente, è ancora lì; sospeso in aria. La camicia si gonfia all’altezza del petto come se avesse trafugato un polpo su un banco del pesce e, per non farsi scoprire, se lo fosse nascosto addosso.

Una commerciante di spezie e di incenso addita il cane e grida, fatelo smettere, per l’amor del cielo, fatelo smettere, ti entra nel cervello. Per un attimo tutti rimangono in silenzio. Molti di quei tutti fissano il cane. Qualcuno nella folla tira al cane una mela morsa, qualcun altro un osso di bistecca e il cane si dirige verso quest’ultimo. Poi il gentiluomo sbraita e si dimena, e l’attenzione ritorna per lui.

Sgomita e muove i piedi come se nuotasse, ma rimane fermo dov’era, non si sposta di un solo centimetro. Con tutto quel provare a farsi largo nell’aria, il cilindro nero si separa dalla sua testa. Il gentiluomo per fortuna se ne accorge subito, lo afferra e gli si avvinghia con entrambe le braccia e pensa che è la cosa più preziosa che ha. Attorno a quel cilindro si rannicchia come un bambino. Fatemi scendere, dice a gran voce, e piange di terrore o di speranza: le lacrime gli scivolano sul volto al contrario, verso la fronte, i capelli, verso il cielo e le nuvole.

Pagherò, pagherò lo prometto, declama, pagherò qualsiasi somma a chi mi possa salvare, e dalla tasca prende un portafogli a fisarmonica. Ma quando lancia alcune banconote alla folla che lo guarda incredula, anche quelle, hanno l’idea, ancora una volta piuttosto sorprendente, invece che di scendere, di salire su.


Qualcuno, intanto, ha chiamato le autorità. Il prelato si muove tra la gente e convince una a una le anime credenti a pregare con lui. Il garzone del macellaio, un ragazzo grosso che piace alle femmine, si fa volontario per aiutare il gentiluomo e, sottratta una ramazza a un ceramista affacciato a guardare dalla propria bottega, va sotto al gentiluomo facoltoso e molto grasso. È così alto, il garzone, che distendendo il braccio, quando brandisce la ramazza arriva ben oltre i tre metri. La afferri, gli dice pregustando già i tavoli di biliardo a cui raddoppiare i soldi che il gentiluomo gli darà.

Il gentiluomo, che ha visto il ragazzo sotto di lui, si distende per afferrare le setole. Alcune le strappa, e salendo quelle gli finiscono sul volto, ma al secondo tentativo ce la fa. Nel momento stesso in cui afferra la ramazza, però, l’intera catena di gentiluomo e garzone si solleva ancora più in alto, almeno tre metri più su.

Il prelato dice ad alta voce, pregate forte per queste anime sante, che si stanno innalzando per allontanarsi dalla miseria del nostro peccato e si muovono verso l’apice geometrico dell’umanità. La gente che lo ascolta dice amen. Il garzone del macellaio guarda in basso e cerca di capire se saltando rischierebbe di rompersi il collo, oppure se ha speranze di restare tutto intero. Di certo il salvataggio non è andato come aveva immaginato. Non mi lasciare, ragazzo, dice il gentiluomo grasso che ha intuito l’intenzione dell’altro. Non mi lasciare, ripete, ti prego, vuoi una carrozza tutta tua, vuoi uno stallone di razza purissima, un abito esattamente come il mio? posso comprarti tutto quello che vuoi. Il ragazzo guarda il gentiluomo grasso e poi guarda di nuovo a terra. Una gallina razzola ai margini della folla, ma spaventata da un uomo che indietreggia per vedere meglio, svolazza via. Al garzone fanno gola i soldi del gentiluomo, ma fa ancora più gola la prospettiva di scendere da lì. Pensa, in che guaio mi sono andato a cacciare, perdio. Pensa al fatto che la prossima consegna dovrà farla dalla moglie del fornaio e pensa a quelle grandi tette con un neo vicino al capezzolo sinistro, a quella specie di predilezione che la signora ha per lui, e pensa che di fatto potrebbe già essere lì, così strizzando gli occhi forte si lascia andare giù.

Il gentiluomo grida no, ragazzo, ma il garzone del macellaio non cade giù. Anche lui comincia a salire a piombo lungo la verticale della ramazza, e sbattendo con la mole grossa sul gentiluomo, se lo trascina con sé.


Da dentro la carrozza i passeggeri si affacciano dalla cabina per seguire con lo sguardo il garzone e il gentiluomo che gridano disperati mentre vanno sempre più su.

Nella carrozza ci sono una donna incinta vestita di abiti poveri, un uomo magro con il volto divorato dal vaiolo, e una famosa giocatrice di carte – una donna di cui alcuni dicono che è tanto brava perché può leggere la mente delle persone, altri invece dicono che è una ladra. La giocatrice dice, a quanto pare non scenderemo facilmente di qui, signori, spero che nessuno di voi abbia problemi con l’altezza. L’uomo magro trema e estrae dalla giacca di cuoio una fiaschetta, da cui beve. Poi alza lo sguardo, fissa le donne che sono davanti a lui, sembra stupito come se si rendesse in quel momento conto della loro esistenza. Riuscendo a malapena a controllare il tremore le tende la fiaschetta. Non lo vedi che è incinta? Non può bere, dice la giocatrice, e gli strappa di mano la fiaschetta, con un gesto di una violenza delicatissima che l’uomo magro sente tutta come una carezza pelvica. La donna incinta si affaccia di nuovo, rimanendo ferma e allungando solamente il collo. Dice, non vedo e non sento il cocchiere da un po’. La giocatrice dà un altro sorso, poi affacciandosi sputa fuori e chiede, tutto bene là fuori, messer?


Il garzone e il gentiluomo sono scomparsi. Tra la folla il prelato dice, gioiamo fratelli per queste sante pecorelle ammesse nelle altezze con il bene supremo, cantiamo la nostra felicità poiché colui del quale non si può pensare il più grande ha reso un passo ancora più vicine a sé le nostre anime. Intanto, sono arrivati i gendarmi. Il più robusto di loro ha portato una lunga scala e adesso, facendosi largo tra la gente, provano a piazzarla in modo che si appoggi sul fianco della carrozza che galleggia in aria. Non è facile. La carrozza, per quanto mediamente sempre nella stessa posizione, ondeggia di qua e di là. Mentre il prelato parla di giudizio universale, a un certo punto addita i gendarmi. Il grande drago, declama, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo o satana e che seduce tutta la terra fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli. Uno dei gendarmi lo guarda di sbieco, come se da un momento all’altro potesse scatenare una rissa. È caduta, è caduta, inveisce il prelato, Babilonia la grande, quella che ha abbeverato tutte le genti col vino dell’ebrezza della sua fornicazione. In quel momento il più robusto attracca i ganci della scala alla chiglia della carrozza, e non c’è tempo perché il prelato lo fermi. Riesce solo ad aprire le mani e a gridare, no, no, no.


La carrozza si porta via la scala e comincia a salire. Dopo un po’ i tre passeggeri sentono una richiesta di aiuto. La famosa giocatrice nota due mani rosse, pelose e tozze, le afferra, e con uno strattone tira su il cocchiere. Il cocchiere è un nano butterato e sbarbato con una piccola bombetta verde inclinata sulla testa gigante. Stiamo salendo molto in alto, dice il nano scrollandosi i vestiti e poi compiendo un saltino per sedersi a fianco dell’uomo magro, al posto che era stato del gentiluomo. Le mie due bambine si stanno agitando, sono preoccupato per loro. Hanno i peli della criniera dritti come se avessero preso una scossa da seicento volt. L’uomo magro, scuotendo la fiaschetta in aria per rintracciare le ultime gocce d’alcol, chiede, riusciremo a farla fermare e a scendere, prima o poi?

Il nano gli risponde subito, sentendosi chiamato in causa, ti sembro un pilota di dirigibile, ragazzo?


La carrozza sale sempre più su. A un certo punto, quando la cittadina non si vede più da un pezzo, fa molto freddo e la costa è una macchia confusa, natura e mostro: i luoghi dell’uomo. La donna incinta, che era assorta in silenzio da un bel po’, comincia prima ad ansimare, poi a lamentarsi. Ha le contrazioni. La carrozza sale. La donna incinta soffre e scalcia, mentre la carrozza raggiunge le nuvole. Il nano dice: ascoltami, respira lentamente. Lo ripete. Lentamente. Lo so, io. Ho già fatto sbracare un paio di vacche in vita mia.

La carrozza arriva all’altezza dei due cadaveri. Sono rigidi e hanno il volto tumefatto e la pelle blu. La donna incinta grida e sta partorendo. Mentre il nano la aiuta a spingere, la famosa giocatrice le tiene la mano; lancia occhiatacce ai due cadaveri che galleggiano alla loro altezza. Non passa un attimo che BUM. A uno dei cadaveri esplode la testa. Poi tocca subito all’altro, BUM. Il sangue schizza anche nella carrozza e volteggia nell’abitacolo in goccioline sferiche. Alcune gocce sporcano la pelle della donna incinta. La donna incinta grida. La giocatrice le tiene più forte la mano. Il nano la aiuta a spingere. L’uomo magro guarda fuori e per la rabbia e per il panico scaraventa la fiaschetta vuota giù, ma la fiaschetta sale più su, verso il cielo. I cavalli sembrano due marionette vuote in cui sono stati infilati dei topi che ballano. Tutti hanno freddo.


Una notte un bambino piccolo fluttua tra le nuvole. Il bambino ha la testa schiacciata e nel buio del cielo sogna una miniera fantastica.

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