La fuga di Cubillo

Il signor Cubillo Martoriato stava portando a spasso il suo tre-cani, come ogni sera, appoggiandosi malfermo al treppiedi che lo aiutava a sostenere il peso delle idee.

Ci teneva molto a quella bestia, l’aveva comprata nella Rete Buia per una cifra considerevole, pagamento anticipato, e era disposto a sacrificarsi per ammortizzare il costo: tra i sacrifici rientrava quello di portare il tre-cani a fare i bisogni ben tre volte al giorno, rigorosamente vicino ai lampioni blu elettrico del Paese Alto, tra ciuffi di erba sintetica fosforescente che, ormai Cubillo lo aveva capito, stimolavano il multi-cane.

Mentre camminava, pensava e ripensava a quello che gli avevano detto i Cacciatori di tartufi delle Langhe: «Cubillo, guarda che torna… stai attento a te e vedi di andar via per tempo dal Paese Affollato. Sarà peggiore della prima volta e anche della seconda, sarà la Terza Ondata Terribile, così l’ha chiamata l’Oracolo dei Boschi delle Langhe. Neanche gli avevamo chiesto nulla, noi… Stavamo lì a raccogliere tartufi e funghi quando all’improvviso abbiamo sentito il vocione soffiato dell’Oracolo. Erano vent’anni, eh, lo sai, vent’anni che non fiatava, quello. C’è da avere paura, Cubillo. Te lo diciamo perché sei un amico. Ma non fare pubblicità alla cosa altrimenti lo sai che dal Paese Affollato scapperanno tutti e verranno a invadere queste terre tranquille e a impestarci per bene».

Ci mancava questa. Cubillo era sopravvissuto alla Prima Ondata grazie alla fuga dalla Città Bella. Aveva abbandonato il suo padrone, il vecchio Principe che poi, aveva saputo Cubillo dai Portatori di Notizie, era morto proprio di quel morbo, da solo, nel palazzo infetto. D’altronde mors tua, vita mea, come gli aveva insegnato sua madre quando era piccolo, lasciandolo appeso alla ringhiera del più alto grattacielo dello Skyline durante il Terremoto Distruttivo di Buenos Aires. Lei si era salvata facendo morire lì il piccolo Cubillo. Però Cubillo non era morto affatto: fu salvato dal Principe che viveva in un attico del grattacielo e che, nella concitazione della fuga, aveva visto quel ragazzino appeso come un salame e ben deciso a non mollare la presa. Il Principe lo aveva cresciuto e se l’era tenuto come servo. Cubillo, nel momento del pericolo, era scappato. Aveva proprio i geni di sua madre. Quanto a suo padre, non sapeva chi fosse. Qualcuno, in tempi molto lontani, chiamava Cubillo “il figlio del Delatore”. Ma ormai il mondo aveva dimenticato tutti, padre madre figlio, e Cubillo poteva vivere tranquillo nell’anonimato.

Passò davanti al George V (giorg senc si pronunciava, glielo aveva insegnato Simonetta, la puttana con cui si intratteneva per una cifra modica una volta a settimana) e vide un sacco di persone. Tra musica Etno a tutto volume, drink di salamoia e sigarette alla nipitella allegra, tutti si scambiavano liquidi.

Cubillo rincasò pensando che lui non aveva mai goduto di tanta compagnia, che non aveva mai avuto degli amici, che aveva preso un tre-cani per colmare un vuoto ma che quel vuoto alla fine gli piaceva, ci si trovava proprio bene. Gli umani erano solo pericolosi sacchi di germi, vettori di malattie asimmetriche (prendevano una parte del corpo e la bruciavano, l’altra restava intatta ma monca e inservibile). Meglio le bestie. O le piante. Aveva un orcio di gelsomino che emanava un profumo asfissiante, teneva lontano gli insetti pungenti e ornava la parete nascondendo le parti scrostate e lerce che non avrebbe mai ridipinto.

Andava bene così: era sopravvissuto, e sarebbe sopravvissuto ancora tenendosi stretto il segreto dei Cacciatori della Langhe. Quando la malattia avrebbe iniziato a colpire un po’ in qua e un po’ in là, senza clamore all’inizio, lui sarebbe già stato in salvo, al sicuro, nei boschi lontani dalla folla. Simonetta, la puttana, forse sarebbe stata l’unica a chiedersi dove fosse finito Cubillo con le sue cinque dracme settimanali, giacché quello era il valore di Cubillo per lei e per Cubillo di lei. Cinque dracme di ghisa con cui comprare nipitella o salamoia, oppure un saio di seta del Bangladesh, di quelli che portava l’affarista equivoco che ogni mese visitava la città, a dorso di un cavalo orbo, carico di oggetti raccattati nei viaggi. Scaricava, vendeva, ripartiva. E dopo un mese tornava con cose nuove. Solo Cubillo aveva il sospetto che non viaggiasse affatto ma che avesse raccattato il ciarpame ai tempi della Seconda Ondata e tenesse tutto ammassato in una qualche caverna, da dove tirava fuori di volta in volta un po’ di tesori per gli scemi.

Però, in tutta onestà, una volta ci era cascato anche lui: aveva comprato una statuina di Buddah. Paccottiglia.

Adesso Cubillo la fissava, aspettandosi una qualche illuminazione. Aveva parcheggiato il treppiedi nell’ingresso della sua casetta e dato da mangiare alle tre bocche del tre-cani in tre ciotole di rame. Ascoltava le lappate plurilinguali e rifletteva sul da farsi.

Prima di tutto: cosa portare e cosa lasciare. Andava nelle Langhe e non poteva sapere per quanto ci sarebbe rimasto. Così, seduto sulla poltrona rococò che aveva preso come liquidazione dal palazzo del Principe, si mise a scrivere una lista di oggetti utili:

torcia, sacco a pelo, maglioni, calzini pesanti, un cuscino, il coltello, cibo in scatola, nipitella, salamoia, spiedi di rombo, ciotola luminosa, fazzoletto fosforescente, anello di congiunzione, paletta e secchiello, pettine di osso, semi di lino per la sua stitichezza.

Cosa ne avrebbe fatto del tre-cani? Non sarebbe andato con lui, questo lo sapeva già, ma, dopotutto, gli dispiaceva abbandonarlo: era la forma di vita per lui più simile a un amico. L’unica persona che avrebbe accettato di prendersi cura della bestia era Simonetta. Ma sicuramente avrebbe fatto domande e avrebbe capito: quella donna era arguta e furba, con la sua faccetta a forma di donnola e le ossa puntute dei gomiti. I capelli rosso fuoco si increspavano quando captava una bugia, iniziavano a drizzarsi come spine di istrice e prendevano la forma di una nuvola ispida e sanguinaria.

Doveva lasciarlo nell’atrio del condominio di Simonetta, di nascosto, mentre tutti dormivano, senza dire niente. Lei avrebbe capito comunque, ma Cubillo avrebbe avuto almeno dodici ore di vantaggio e non avrebbe dovuto dare spiegazioni.

Con la lista fatta e il piano d’azione in testa, Cubillo Martoriato andò a dormire nel suo cubiculo legnoso, coperto da un piumino di oca bionda e con il tre-cani acciambellato accanto, una testa a Cristo, una a San Giovanni e la terza nascosta dall’ammucchiata di zampe e pelo.

Russavano a scuotere le pareti, il tre-cani più di Cubillo, tanto che la casa da fuori tremava lievemente come se un terremotino subacqueo facesse capolino indeciso, e poi tornasse indietro.

Al George V nel frattempo un uomo era svenuto, del sangue usciva dalla sua bocca. Ma nessuno se ne era ancora accorto.

Restò lì, sul pavimento disco techno viola e verde, con le luci strobo a roteare lapilli sulla sua faccia morta, fino al mattino all’alba quando un inserviente lo trovò e dette l’allarme. Arrivò la Polizia Gendarmica, prese misure e raccolse pezzettini invisibili intorno al corpo, poi chiamò la Morgue e il cadavere fu portato via.

Qualche goccia di sangue era entrata in contatto con le mani dell’inserviente e un pulviscolo di virus gli era entrato dall’angolo nell’occhio. Lui non lo sapeva affatto, era stato attentissimo, e del resto quello era morto di morte violenta pareva, visto il sangue. Comunque l’inserviente non era un medico e apparteneva ai Paria Pulitori, che non brillavano d’ingegno o erano stati solo sfortunati.

Alle 9.30 Cubillo era sveglio, aveva già nutrito il dodecapode e sorbiva l’estratto di cicoria, smangiucchiando un pane di melma. Accese la tv radar con una manata di grande effetto e attese le notizie del giorno su Canal Fake. Apprese pochi istanti dopo che “un uomo è morto stanotte in uno dei locali più alla moda della Città, sconosciute le cause, dalla perdita di sangue si ipotizza una morte violenta per mano ignota. Nessun testimone. La Polizia Gendarmica indaga”.

È iniziato, pensò Cubillo.

Domani saranno due, domani l’altro quattro, poi otto, sedici e in capo alla fine della settimana tutti lo sapranno e inizieranno i Fuochi di Cadaveri, le delazioni di tossicchianti, i furti di maschere e di pulisci-mani, i metodi incantesimali delle vecchie sopravvissute solo per pura fortuna ma che adesso avrebbero venduto la loro sorte favorevole sotto forma di impiastro miracoloso.

La Terza Ondata Terribile era cominciata in sordina, di soppiatto, per non farsi fermare anzitempo. Cubillo decise di aspettare la notte: doveva preparare il sacco, lasciare il tre-cani, smontare il treppiede e scappare a bordo del calesse pubblico che stava legato in piazza con attaccato il cavallo più stupido dell’universo. Prenderlo sarebbe stato facile.

Naturalmente prima di partire doveva recarsi alla Banca Strozzina – Usura in sicurezza dal 2029 a ritirare tutte le sue dracme. Strada facendo le avrebbe cambiate un po’ per volta in Dobloni delle Langhe. Si vestì bene, con il completo di fresco di lana di lama, mise le scarpe di vernice, lucidò il treppiedi e andò verso l’istituto di credito per la sua operazione. Sicuramente avrebbe detto anche “Vorrei conferire con il Direttore Canaro”: questa era la frase che rendeva tutto possibile, davanti a quelle parole gli impiegati con gli occhiali tremavano sotto le visierine e iniziavano a darsi da fare come formiche drogate, tirandosi su le maniche e obbedendo a qualunque richiesta.

«Buongiorno, sono Cubillo Martoriato, il mio numero di conto è 6666. Debbo ritirare i miei risparmi».

«Ci sono 12.000 dracme sul suo conto, Signore. Debbo chiederle il motivo per cui vuole ritirarle tutte, lo sa… le regole» balbettò timidamente l’impiegato Bugno, calvo e sofferente di una fastidiosa ascellopatia sudoripara.

«Penso che spiegherò al Direttore in persona il motivo, Signor Bugno. Comunque debbo acquistare un riciclatore a fusione di rifiuti».

Alla parola “Direttore” il Bugno si ritrasse come una prugna al sole: «Beh, dopotutto non è una gran somma… provvediamo pure… se mi mette una firma qui… sì?»

«La ringrazio, perfetto» sentenziò con benevolenza Cubillo.

Uscì dalla banca come se avesse fatto il colpo della vita e per la gioia e il sollievo ebbe subito voglia di una sigaretta di nipitella, ne chiese una al primo barbuto che passava per strada. La fumò con gusto.

A casa aspettò, paziente, l’ora del tramonto. Parlò a lungo con il tre-cani, sperando che capisse e perdonasse, preparò il bagaglio e mise le dracme al sicuro nella busta di plasti-metallo a chiusura stagna anti-acqua, anti-fuoco, antifurto, sblocco con impronta del piede destro di Cubillo e di nessun altro.

Nel frattempo la televisione aveva diffuso la notizia di un ripper con cappello a tuba e mantello blu notte che si aggirava per la città uccidendo persone con il sanguinamento dalla bocca, perciò per strada non c’era nessuno. Avevano paura di fare la fine dell’uomo al George V. Questo aiutava molto il piano di Cubillo.

Quando fu buio vero, senza stelle e senza luna, Cubillo uscì. Portò il tre-cani al guinzaglio, gli fece fare un’ultima nostalgica pisciatina al suo lampione blu preferito e poi lo lasciò, nutrito e coperto con un tre-cappucci rossi, nell’atrio profumato di incenso di Simonetta. Un ultimo sguardo quasi commosso alla sua preferita delle tre teste, quella nera e lanuginosa, e se ne andò.

Con il sacco pieno, la busta di dracme infilata nei pantaloni di lycra espansa e il treppiede lucidato, andò in piazza e si avvicinò al cavallo scemo del calesse: aveva bevuto salamoia quel tanto che bastava ad avere l’alito dell’abituale cocchiere sempre sbronzo. E infatti il cavallo scemo non protestò, si fece slegare mansueto. Cubillo mise tutte le sue cose sul calesse, salì con poca agilità ma alla fine riuscì a mettersi ben fermo sulla seduta, redini in mano. E partì.

Erano le 22.40 del 3 aprile dell’Anno Imprecisato.

All’alba Cubillo incrociò il landò dell’affarista mercante, diretto a Paese Affollato. Si salutarono e quello non lo riconobbe.

Bene così. Tra una settimana o forse meno si scatenerà la pandemia e il Paese sarà pieno di morti e di Intubati, pensò Cubillo, raggiante per averla scampata ancora una volta e immaginandosi con incontenibile gioia a raccogliere funghi e tartufi e a inseguire facoceri addomesticati nei boschi, al sicuro.

Ancora più incontenibile fu perciò la sua sorpresa quando, dopo due giorni di viaggio, circa a metà strada per le Langhe, subito dopo aver bevuto un po’ di salamoia e masticato corteccia di formaggio verde, iniziò a tossire di una tosse strana, che sconquassava il torace e non lo faceva respirare, e fu percorso da brividi freddi e sputò lungo il sentiero una scia di sangue scuro scuro: guardò il fiotto di sangue che gli usciva dalla bocca, con gli occhi lucidi di febbre, e bestemmiò molti santi.

Il signor Cubillo Martoriato morì sorpreso, chiedendosi soltanto cosa ne fosse stato del tre-cani. Ma poteva stare tranquillo: in quel momento era a pancia all’aria su una cuccia di seta, dopo aver soddisfatto voglie sconosciute con una cagnolina a sei zampe che abitava nel suo nuovo condominio. Simonetta aveva pettinato tutte le sue teste.

1 Reply to “La fuga di Cubillo“

  1. Semplicemente perfetto:il vero scrittore cattura il suo lettore e lo lascia con il desiderio di leggere ancora. In attesa di un nuovo racconto!

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