Ogni cosa al suo posto

Quand’ero piccolo avevo un pupazzetto di circa dieci centimetri. Era un cowboy, nella fondina aveva una colt estraibile e quando gliela mettevo in mano le mie guance scoppiettavano come i popcorn della mamma.

Un giorno presi il cowboy, ma la colt non c’era. Non era nella fondina, non era nella sua mano, non era nella cesta dei giochi, non era sotto il letto, non era sulla scrivania, non era sul comodino. La cercai per tutta la casa, ma quella minuscola colt era scomparsa, e io non potevo più giocare. Che senso ha un cowboy senza pistola?
«Mamma! Ho perso la pistola di Bill».
Mia madre mi raggiunse in camera, frugò un po’ in giro e mi chiese: «Sei sicuro che la pistola è qui?»
«Sì, sono sicuro, l’ho cercata pure in salotto, in cucina e in bagno, ma non c’è. L’hai presa tu?»
«Certo, non lo sai che mentre sei a scuola gioco con i tuoi giocattoli prima di andare a lavoro? Chissà dove l’ho lasciata».
«Dai, Ma’, magari l’hai vista mentre riordinavi e l’hai messa da qualche parte e ora non sai più dov’è». Mi guardò storto e non rispose.
«Ti prego, trovala. Senza la pistola non posso più giocare con Bill».
«Mi ricordo che ieri, quando siamo usciti, hai lasciato Bill sulla credenza».
«No, Ma’, Bill era nella cesta. Cerca meglio, è qui! Dai, voglio giocare».
«Andiamo in cucina, ascoltatami».
Arrivammo di fronte alla credenza, lei cominciò a spostare chiavi, post-it, monetine e cd, io mi arrampicai su una sedia, osservandola.
«Guarda un po’. Eccola, che ti avevo detto? Sicuramente hai rimesso Bill nella cesta ma non ti sei accorto che gli mancava la pistola».
«Ce l’hai messa tu ora, dimmi la verità! Avevo già cercato qui e non c’era».
Ogni volta che perdevo qualcosa mia mamma me la trovava. Questa sua capacità certe volte mi faceva sentire sbagliato. Anche da grande, quando, ad esempio, non trovavo gli occhiali, lei subito mi rispondeva: «Ma come hai fatto a non vederli? Erano proprio sotto il tuo naso». Provavo un senso di inadeguatezza, mi arrabbiavo con lei e, proprio come facevo da piccolo, le dicevo: «Glieli hai messi tu, dimmi la verità. Ci ho appena cercato».

Ora ho un posto per ogni cosa. Portafogli, chiavi di casa e dell’auto stanno sempre sopra il mobiletto all’ingresso, ma in scodelle diverse; quelle di casa hanno una calamita per portachiavi. Accendino e sigarette sul tavolino del salotto, penne, fogli e scotch trasparente nel primo cassetto della credenza, caricabatterie del computer e del telefono nel secondo e nel terzo gli attrezzi. Tutto è a sua volta organizzato in armadi, cassetti, vetrine, scaffali, mobiletti e scompartimenti, secondo un metodo preciso. Per esempio, nel cassetto in cui tengo gli attrezzi, il martello è in fondo, perché è raro che lo usi, mentre il cacciavite piccolo è in prima fila, mi capita spesso di prenderlo per stringere le stanghette degli occhiali da vista.
Oggi mia madre non c’è più. C’è chi dalla morte di una persona amata impara ad adorare di più la vita o a godersi ogni momento come fosse l’ultimo, a vivere nel presente, ad apprezzare i piccoli piaceri. Io, invece, ho imparato a dare un posto alle cose per non perderle più.

Per questo è da tre giorni che mi si rivoltano i nervi dalla rabbia: ho perso il mio coltellino svizzero. Di solito il suo posto è la tasca interna del mio zaino, ma lì non c’è. Mi sono dato malato al lavoro e ho scandagliato ogni armadio, ogni ripiano, ogni mobile. Ho smontato il divano, ho ispezionato fra i cuscini della poltrona, ho ravanato in ogni tasca di pantaloni e cappotti, e anche nella cesta dei panni sporchi. Ho rovistato per tutta questa cazzo di casa, ma quel dannato coltellino non si fa trovare. Non ci dormo la notte, allora rimango sveglio e continuo a cercarlo, ricontrollo nei posti in cui ho già guardato, poi con una torcia illumino sotto ogni mobile, guardo nel frigo e dentro le scarpe. Sbatto il piumone e rovescio il cestino dell’immondizia. Poi ricomincio da capo.
Citofonano, è il pacco che aspettavo, un piccolo schedario componibile per rassettare carte e documenti, ma non posso aprilo se non ho il coltellino. Gli scatoloni li apro solo con quello. Mentre sposto e setaccio penso all’ultima volta che l’ho visto, non riesco a ricordarmela. Cosa ci ho fatto? A cosa mi è servito? Forse mi sono tagliato le unghie, allora è in bagno. Ispeziono ogni centimetro, smonto il tubo del lavandino. Potrebbe essere finito lì ma, a parte una matassa di peli, non c’è nient’altro. Mi osservo le unghie, sono lunghe e sporche, ma non posso tagliarle. Passano altri tre giorni, mi arriccio la barba dai nervi, sento il mio puzzo sui vestiti. Non me ne frega niente, devo trovare quel coltellino. Dove cazzo è finito? Qualcuno deve essermi entrato in casa. Vado alla ricerca di possibili segni di scasso sulle finestre e sulla porta. Forse, mentre ero fuori, qualcuno mi ha rubato le chiavi di casa, ne ha fatta una copia e me le ha rimesse in tasca per entrare indisturbato senza lasciare tracce. Maledetto! No, aspetta, sei giorni fa avevo una spina nell’indice, ho preso le pinzette dal coltellino e l’ho levata. Subito dopo la vicina aveva bussato alla porta, le servivano un paio di sedie perché aveva ospiti a cena. Prima di poterle dire che non presto mai le mie cose, il telefono aveva squillato e io avevo lasciato il coltellino sul mobiletto all’ingresso. Ritornai alla porta, le dissi quello che avevo da dirle e mi rimisi a fare quello che stavo facendo. Quella stronza, ha preso lei il mio coltellino svizzero!

«Sei venuto a scusarti per quella storia delle sedie? Acqua passata, ho chiesto ai signori di giù e ho risolto», mi dice squadrandomi dalla testa ai piedi. La scanso dalla soglia e apro il primo stipetto che mi trovo davanti. Lei mi dice qualcosa. Che si fotta, penso, mentre continuo a cercare. Se non vuole che gli perlustri ogni angolo della casa vuol dire che nasconde qualcosa. Urla di chiamare la polizia, è pazza, sono io a doverla chiamare, ladra schifosa! Le urlo di ridarmi quello che è mio e io non la denuncerò, ma lei sembra non capire e si mette a strillare. Le ho smontato casa, il coltellino non c’è. Allora ce l’ha addosso, sono sicuro, o è così oppure il mio coltellino ha imparato a camminare. Le ordino di stare zitta e la trascino per la vestaglia fin dentro casa mia. La butto per terra e la perquisisco. «Non so dov’è il tuo coltellino. Ti prego, lasciami andare». Mollo la presa e le urlo che a casa mia non c’è. Trema ancora, ma con voce più calma mi dice: «Dov’era l’ultima volta che l’hai visto?». Con gli occhi all’infuori le dico che era sul mobiletto ma che ora non c’è più. Lei solleva le mie chiavi di casa, attaccato alla calamita c’è il mio coltellino. Le urlo: «Ce l’hai messo tu. Dimmi la verità!», poi l’abbraccio forte e piango.

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