Ventitré anni

Avevo fatto pochi metri di corsa, prima di raggiungere il portico. Solo la testa, sotto al mio vecchio cappello, mi era rimasta asciutta.

Camminavo per la strada che mi portava da casa alla piazza della stazione e a ogni passo rischiavo di finire a terra: i piedi pattinavano sul pavimento liscio e bagnato.
I tre lati del portico erano chiusi da muri dacqua incessanti. Gli scrosci coprivano il rumore dei miei passi. Diedi un colpo di tosse per provare a sentirne il rumore, ma niente. Allora ne diedi un altro più forte e, quando lo sentii, le cose mi apparvero più normali.
Arrivato allangolo, mi buttai oltre il muro d’acqua e i piedi mi finirono in una pozza. Feci un balzo da una parte, ma affondai in altra acqua. Ovunque era una pozza. Solo tratti dasfalto affioravano lungo la strada come punte di terre sommerse.
Camminavo nel centro della carreggiata deserta. Ero solo. Un rivolo dacqua costeggiava il marciapiede e pareva volerlo inondare.

Quella sera, a casa, era successo che mio figlio aveva pregato. Così, senza dire niente né a me né a sua madre. Era già pronto in tavola, io ero alla televisione in sala, mio figlio non so dove fosse, in camera sua immagino. Mia moglie ci ha chiamati, ha detto che era pronta la cena. Io ho spento la televisione e sono andato a tavola. Mi sono seduto e pure mio figlio, di fronte a me. C’era l’arrosto con le patate. Mia moglie aveva fatto una fatica non da poco per farci da mangiare. Ho preso la forchetta e stavo per chiedere a mia moglie di accendere l’altra televisione prima di sedersi a tavola con noi, quando ho visto mio figlio che, invece di mangiare, s’è fatto il segno della croce. Io ho guardato mia moglie, perché certe volte lei sa delle cose che io non so, ma ho visto che anche lei c’era rimasta. Così l’abbiamo guardato, mentre si faceva la croce, e poi s’è messo a pregare. Ha sollevato le mani, con i palmi rivolti verso l’alto come i preti e i santi, e ha detto una preghiera. Ma non mi guardava e non guardava neanche sua madre, che gli aveva preparato l’arrosto e tutto quello che aveva nel piatto. Ha chiuso gli occhi e li ha tenuti così per tutto il tempo che ha detto la sua preghiera. Con comodo. Quando ha finito di dirla, ha riaperto gli occhi, ma era come se li avesse ancora chiusi, e si è rifatto la croce. Poi si è messo a mangiare. Io no, non ce l’ho fatta a mettere in bocca neanche una forchettata, ed è stato un peccato, perché mia moglie ci aveva messo del tempo e della fatica, e io dei soldi per quell’arrosto e per quelle patate, con gli odori e tutto il resto. Neanche un boccone ho mangiato, ho bevuto soltanto. Il vino mi andava giù fin troppo bene. Mia moglie si è seduta fra di noi, al suo solito posto, e si è messa in bocca qualcosa, ma io lo so che ha fatto fatica, lo so che ha mangiato solo per far sembrare che andasse tutto bene. Lo ha fatto per me e per suo figlio, povera donna, ma quei bocconi non le andavano giù.
Poi mio figlio ha finito di mangiare e ha fatto per alzarsi, ma io gli ho detto: «Come si dice?»
«Posso andare?»
«Ora puoi».
Voglio dire, hai tanto rispetto per il tuo Dio e non per i tuoi genitori. Così ha portato il suo piatto e il suo bicchiere in cucina e s’è chiuso in camera sua. A quel punto avevo già deciso di uscire. Da mia moglie è già difficile cavar fuori qualcosa al normale, dopo una scena come quella, figurarsi. Ci ho provato: «Ma ti pare?» le ho chiesto. E lei niente, sparecchiava le nostre cose. «Ma con che coraggio, senza dirmi niente. A te ha detto qualcosa?» le ho chiesto e lei ha fatto di no con la testa. Non le cavi niente di bocca quando non vuole. «È quel gruppo che frequenta. Altro che far del bene in giro; pregano, ecco cosa fanno. Senza neanche dirmi niente, senza chiedermelo. Che cosa vuoi che ne sappia lui, lo hanno messo di mezzo». Ma niente. Ho continuato a parlarle per tutto il tempo che ha sfatto la tavola e anche mentre puliva i piatti, ma lei neanche una parola. Poi ho fatto per spogliarmi e, quando mi ha visto, ha fatto per spogliarsi anche lei. In ventitré anni di matrimonio, mai una volta che mi abbia detto di no, per quello. Santa donna davvero. Ma a quel punto le ho detto: «Me ne esco». Lei si è rimessa le mutande e mi ha fatto un sorriso. «Stai tranquilla» le ho detto e me ne sono uscito fuori senza neanche accorgermi di quanta ne veniva giù.

Da sotto il cappello vidi la porta illuminata del locale. Feci per salire sul marciapiede, ma un grosso gorgo dacqua vorticava dove prima c’era un tombino, tra il marciapiede e la strada. Camminai oltre, sotto altre slavine d’acqua, finché arrivai in fondo alla strada. Venne un colpo di vento e mi tenni il cappello sulla testa. Sentii lacqua salirmi su per lavambraccio, sotto alla maglia. Voltai intorno allultima macchina e da lì salii sul marciapiede, poi tornai indietro, verso la porta del locale. Arrivai alle spalle del tombino ed entrai.
«Cè un cazzo di gorgo qua davanti» dissi all’uomo dietro al bancone. C’era Oscar quella sera. Ci metto sempre un attimo a distinguerli, lui e suo fratello, che si alternano al bar e, se non sono gemelli, poco ci manca.
«Sei venuto senza ombrello?» mi chiese.
«Mai avuto un ombrello in vita mia» gli dissi io.
Attaccai la giacca dietro alla sedia, gocciolava. Poi appoggiai il cappello sul tavolo. I tavoli sono tutti messi da una parte, in quel locale, è da trent’anni che è così. Dall’altra c’è un lungo bancone in formica, come quelli che facevano una volta, con una striscia marrone sotto e una verde sopra.
Oscar riprese a parlare con il vecchio seduto a uno dei tavolini. Era un insegnante in pensione che veniva spesso al bar, ma aveva sempre fretta. Sgattaiolava fuori di casa dicendo alla moglie le scuse più diverse e restava giusto il tempo di scambiare due parole e bere qualcosa. A me stava simpatico perché era l’unico, lì dentro, ad avere un naso più brutto del mio, con un grosso rigonfiamento sulla punta, e anche perché lui, come me, indossava sempre il cappello.
Il vecchio professore riprese il discorso da dove lo aveva lasciato: «E quindi capisci che dietro all’eresia cè tutto il retroscena culturale che ti ho detto, che è vecchio quanto luomo. Un radicato substrato di istinti umani innati e indotti. E sai in quanti ne hanno scritto? Te lo dico io: nessuno, o quasi. E lo sai perché?» gli erano rimasti il tono flessuoso e la gestualità accentuata di quando insegnava «Questo non te lo dico, perché non lo so, ma ti dico che secondo me la bestemmia non è un semplice turpiloquio. Nossignori. La bestemmia c’è, esiste» sollevò il dito indice e lo abbassò, poi lo portò di nuovo in alto «Puoi dire di no?» chiese al barista. Questo aveva preso un bicchiere dalla rastrelliera e mi aveva versato tre dita di whisky. Ora ne aggiungeva uno di acqua.
«E tu?» mi chiese il vecchio professore.
«Io bestemmio» gli dissi «e non dirmi che tu, invece, non bestemmi mai».
Il professore si avvicinò al bancone e notò gli avanzi degli aperitivi pomeridiani. Erano stuzzichini sparsi qua e là, che presi uno alla volta avevano poco di appetitoso. Valutò a lungo, come se dopo averne scelto uno non potesse mangiarne altri, e alla fine mise in bocca un cubetto di prosciutto. Poi disse: «Io, alla mia età, non ho più bisogno di pregare nessuno, né di prendermela con nessuno. Ho fatto a lungo entrambe le cose, ma adesso non più. Però vi dico questo, che a parer mio ci permettiamo di bestemmiare il nostro Dio solo per il fatto che si è reso uomo e che è sceso tra noi, o almeno così ci hanno detto, e anche perché lui può fare tutto ciò che vuole. Anche questo ci hanno detto. Capite?» guardò il barista e poi guardò me. Il barista batté la mano sul piano di formica verde e io presi il mio whisky con acqua. Il vecchio professore non era più abituato a parlare così tanto, tutto il giorno in casa con sua moglie, e secondo me non aveva idea che s’era fatta ora di andare. «La diamo troppo per scontata, la bestemmia» mangiò un altro cubetto di prosciutto, uguale al primo «Il Dio cristiano si è incarnato, capite? è qui che si è fregato. Altre religioni hanno un Dio astratto e lontano, che neanche ci considera. E poi il nostro, in fondo, non è neanche troppo crudele. Ecco perché possiamo permetterci il lusso di dirgli che è colpa sua, se qualcosa non ci va come deve andare. Per questo e anche perché è un Dio che interviene» mosse il dito indice da una parte all’altra «Quindi gli posso attribuire tutto il bene e tutto il male».
Io mi ero scolato il mio whisky e Oscar me ne stava preparando un altro. Il vecchio professore diceva cose che magari erano giuste, ma avevo smesso di seguirlo da un pezzo. Ero a stomaco vuoto e avevo la preghiera di mio figlio per la testa. Presi una di quelle tartine dalla forma triangolare, che mi parevano l’unica cosa che potesse sfamarmi.
Il professore rimase zitto un secondo e allora vidi che stava rosicchiando un’oliva. Pensai di dire qualcosa pure io, magari sulla preghiera che aveva detto mio figlio, ma Oscar batté la mano sul bancone per sostituire il bicchiere vuoto che avevo davanti con quello pieno e il vecchio professore si destò: «Devo tornare da mia moglie, se non voglio dormire per terra». Pagò, si mise il cappotto, prese il cappello dall’appendiabiti, un buon cappello, se lo conficcò bene sulla testa e aprì la porta. C’era una vera e propria bufera là fuori, un vortice di vento e acqua, illuminato da una sinistra luce gialla che faceva paura, e il vecchio professore ci si buttò dentro con la mano premuta sul cappello. Quando si chiuse la porta, il rumore della tormenta rimase fuori. Lì dentro poteva essere qualunque ora di un qualunque giorno. Cambiavano solo le persone che ci incontravo.
«La moglie gli fa più paura della tormenta» disse il barista e forse provò a sorridere, ma era come se quelle guance così sporgenti pesassero troppo sulla bocca per farla allargare in un sorriso.
Bevvi un sorso e scelsi una tartina di un colore diverso.

Dalla porta in fondo al bar si affacciò un ragazzo con la barba incolta, un cappello di lana e un gilet di jeans. Teneva la stecca da biliardo stretta in mano: «La fai una partita?» mi chiese.
«Non stasera. È una serataccia» dissi e avrei voluto raccontargli quello che mi era successo, ma il ragazzo scomparve nella sala dei biliardi e così mi ritrovai solo di fronte alla faccia tonda del barista. Aveva anche lui, come suo fratello, il labbro leporino, ma, per qualche ragione che non aveva a che fare con la natura, la cicatrice sotto al suo naso quasi non si vedeva. Aveva finito di sistemare gli stuzzichini che erano avanzati e in pratica li aveva raccolti per me in un piattino. Nella sala accanto esplose lo schiocco di una spaccata e sentimmo tre palle cadere in buca.
«Problemi con tua moglie?» mi chiese Oscar e poi sentii una quarta palla cadere in buca.
«Macché, quella è una santa donna. In ventitré anni, mai una volta che mi abbia dato problemi».
Mandai giù un sorso veloce. Poi continuai per non perdere loccasione di dire quello che volevo dire da quando ero uscito di casa: «È il ragazzo che me ne ha fatta una. Ha pregato» dissi.
Il barista smise di lucidare il bicchiere che teneva in mano e lo mise al suo posto nella rastrelliera. Poi si frustò la spalla con lo strofinaccio e se lo lasciò lì, come se lo avesse steso ad asciugare.
«Ha pregato?» sgranò gli occhi e le borse viola gli scesero giù fino alla bocca.
«È per come lo ha fatto» gli dissi «Lo ha visto anche mia moglie. Si è seduto a tavola come ogni sera e, senza dire niente a nessuno, ha alzato le mani e si è messo a dire la sua preghiera. E noi lì, capisci? Ad aspettare che finisse di pregare. Mica ci aveva detto niente. Ce l’ha imposta dall’inizio alla fine, ecco cos’ha fatto».
«Magari ha visto pregare tua moglie».
«Non s’è neanche mai fatta il segno della croce, in casa. Quella santa donna me lo avrebbe detto, mica come mio figlio. Se ci fosse il professore, gli direi che bestemmio, ma ti dico che penso più io a cosa vuole dire bestemmiare che mio figlio a quello che vuole dire pregare. Te lo dico io, e lo direi anche al professore, se non fosse dovuto scappare dalla moglie, sempre che non sia annegato, per arrivarci. Guarda che là sotto dove lavoro io, te ne vengono un sacco di cose in testa da chiederti. E non c’è storia per non pensarci, là sotto»,
«Non so cosa dirti. Qui beviamo e non preghiamo. E se bestemmi, non ti dice niente nessuno. Davanti a questo bancone hanno bevuto i più grandi bestemmiatori della città, e che lo fossero te lo garantisco io. Uno dei migliori è stato mio padre, che serviva al bar proprio qui, prima di me. Se poi ce n’è qualcuno che prega pure, questo non te lo so dire, ma qui dentro non lo fanno».
«È per quel gruppo che frequenta. Vanno a dare da mangiare ai poveri e cose del genere, ma poi pregano, capisci. Gli hanno messo in testa certe cose. Mica come me, che sto tutto il giorno là sotto, al buio, sotto ai culi di tutti quanti. Era un ragazzo a posto, mio figlio, prima che conoscesse il prete. Lo sai che ha pure smesso di suonare il violino nuovo che gli abbiamo regalato? Con tutti i soldi che ci abbiamo speso, io e sua madre… ha deciso di metterlo via e di usare quello vecchio, e cadesse il cielo se ci ha detto il perché. Anche questa cosa è colpa del prete. Ma per il resto è un ragazzo a posto, tu lo conosci».
«Per quello che lo conosco, è a posto. Anche se non beve».
«E questo cosa vuol dire?»
«Magari niente. Ma l’ultima volta che è venuto qua con te, ha chiesto una gazzosa».
«Quello lo fa per sua madre» dissi io «Lei non vuole che beva come me, tutto qua».
«Se lo dici tu».
«Certo, quello che dovevo dire lho detto. O no? Non lho detto, forse? Sono io che lho detto, che mi ha fatto un bello scherzo, con quella sua preghiera. E pure col violino. Sono venuto qua e lho detto».
«Daccordo».
«Se non beve, meglio per lui. Quello che dico io è che se preghi così, senza farti certe domande, è come se fai il buono solo perché non hai le palle per fare il cattivo. Capisci cosa intendo? Sai quanti ce ne sono che fanno i buoni perché non sanno come si fa a essere cattivi?»
«Ce ne sono eccome».
Finii anche il secondo bicchiere. Dalla sala dei biliardi spuntò la testa di uno che non avevo mai visto prima. Chiese tre birre e Oscar si mise a spillarle. Io rimasi a guardarlo e a riordinare i pensieri. Volevo essere stato chiaro, che mio figlio altri problemi non li aveva, se non quello che pregava e che frequentava il prete. Poi il barista batté tre volte sul bancone e il tipo sconosciuto venne a prendere le birre.

«Ne vuoi un altro?»
«Me ne vado» dissi.
«Voglio raccontarti una cosa. Se c’era il professore la raccontavo anche a lui, gli sarebbe piaciuta» disse così e prese dalla rastrelliera un altro bicchiere. Ci mise dentro del whisky e non so cos’altro. Poi batté la mano sul bancone come se dovesse avvisare qualcuno che era pronto da bere e me lo allungò. «Provalo, senti se ti piace» mi disse, e poi riprese a raccontarmi: «Sarà stato qualche settimana fa, tornavo per la provinciale con mia moglie. Era quasi l’ora di cena. Dall’altra parte della strada abbiamo visto uno che stava cuocendo le caldarroste. Sai, aveva il suo barile di ferraccio, chissà cosa conteneva una volta, insomma, lo usava per cuocerci le caldarroste. E mia moglie mi ha detto: quant’è che non le mangiamo? Dici sul serio? le ho chiesto. Allora ho accostato e ho attraversato la strada. Per poco uno col furgone mi metteva sotto, ha tirato una frenata all’ultimo momento. C’era la coda, prima di me. Volevano tutti le caldarroste, quella sera. C’era una vecchia, che poi avrà avuto la mia età, in realtà, e un ragazzo giovane, di colore, sarà stato un marocchino o giù di lì». Sorseggiai senza capire cos’era che rovinava il sapore del whisky.
«Ti piace?»
«Buono» dissi.
«Dicevo, il tale che faceva le caldarroste ci ha contati e ha messo su a cuocere le caldarroste per tre. Con le tazze, sai come le contano loro, ha messo su tre tazze e un po’. Noi abbiamo aspettato, ognuno si faceva i fatti suoi. A metà cottura, o giù di lì, ha preso uno spruzzino e s’è messo a spargere un liquido sulle caldarroste mentre cuocevano. Questo liquido non si capiva cosa fosse, ma faceva fumare e sfrigolare le caldarroste sopra le fiamme. Allora il ragazzo di colore si è avvicinato e gli ha chiesto se era vino, per caso, e lui gli ha detto che lo era. Allora sai cos’ha fatto?»
«No» gli dissi e diedi una lunga sorsata «Cos’ha fatto?»
«Ha detto: allora per me no, grazie, non le posso mangiare. Poi ha preso e se ne è andato, così».
«Non ci credo» dissi. La storia non mi sembrava un granché.
«Giuro» disse il barista «E sai a quel punto cos’è successo? Che la vecchia si è messa a dire che gran testa di cazzo fosse quel ragazzo. E intanto il tipo delle caldarroste ripeteva: lo sapevo, glielo dovevo chiedere, mica è il primo sapete, glielo dovevo chiedere, ci dovevo pensare, sapete».
«E poi?» mi aspettavo che ci fosse dell’altro.
«E poi niente. È questa la storia».
Restammo in silenzio. Io finii di bere e lui buttò via gli ultimi rimasugli di cibo.
«Fra poco devo dire ai ragazzi di fare l’ultima».
Io mi alzai e misi la giacca. Poi presi il cappello e feci attenzione a calcarmelo bene sulla testa. Era quello il trucco per tenersi i capelli all’asciutto, sempre che il cappello fosse quello giusto.
«E insomma» gli chiesi «le caldarroste che sono avanzate, ve le ha date?»
«Macché, se le è tenute».
«Hai ragione» dissi «Questa storia sarebbe piaciuta al professore».
«Non so come l’avrebbe pensata il professore, ma secondo me uno che non vuole neanche il vino sulla castagne, mica bestemmia».

Tornai a casa per la solita strada, ma sembrava un’altra. La tormenta s’era calmata, il gorgo era stato risucchiato dal tombino, il rivolo d’acqua a fianco del marciapiede era sparito. Il pavimento del portico era ancora scivoloso e rischiai di cadere all’indietro un paio di volte. Tutta colpa di quel whisky dolciastro, mi dicevo.
Appena entrato in casa, appesi il cappello vicino alla giacca e mi spogliai. Buttai a terra il maglione bagnato, la maglietta e i pantaloni. Rimasi in calze e mutande. Mia moglie corse a darmi una mano.
«Sei zuppo» mi disse. Si vedeva che aveva dormito. «Come sei stato?»
Pensai di raccontarle la storia del ragazzo di colore e delle caldarroste col vino, che poi il vino c’era stato solo spruzzato mentre cuocevano, ma poi cambiai idea e non cominciai neanche. Le chiesi solo: «Lo sapevi tu che i musulmani non bevono vino?»
«Sì».
Io la guardai. Mi tolsi i calzini impregnati d’acqua e glieli diedi. Mise via anche quelli. Poi lasciai cadere a terra le mutande. Mia moglie mi vide, si sdraiò a letto e si sfilò le sue.

1 Reply to “Ventitré anni“

  1. Secondo me questo racconto è molto esplicativo suo rapporti tra genitori e figli oltre che tra marito e moglie bravo Marco

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *