La confession d’un nerf à une branche

Sono più spesso teso che disteso. Distensione – non so bene che cosa significhi. A volte capita.

Di sera, solitamente: sento che le gambe vanno qui e là, si siedono, si sollevano. Tante voci nelle orecchie. Rumore di risate, di bicchieri urtati. Quel sapore-odore noto – luppolo amaro, lievito schiumoso. Poco dopo inizio a sentirla: distensione. Se il gusto è acido e più secco, invece, ho imparato a diffidare. Non dev’essere invitante nemmeno per gli occhi: quel liquido dorato, cristallino, servito in calici allungati. Ha un’aria così altezzosa. Succede infatti alle feste più eleganti. Ho imparato che alla testa fa male, la snerva. La snerva. Gliel’ho sentito urlare, una sera, mentre cercava di coordinare le mani scombinate: “Questo vino bianco mi snerva”. Quando succede, il giorno dopo sto proprio a pezzi. Un giorno appunto di: nervi a pezzi. Mi sento spossato, eppure irrequieto. Se per tutta la notte ho dovuto subire l’urto acre del vomito, anche depresso. Nei giorni così, le gambe non si muovono – da mattina a sera sprofondano nel letto, pesanti, affaticate. Se per tutta sera hanno battuto contro spigoli e stipiti, anche depresse. In primavera e in estate, quantomeno, si trascinano in giardino. Sostituiscono il letto con il tessuto di erba. Stiamo sotto il sole a languire, tutti noi. Tutti prendono sonno: io no. Ho più sentori visivi di un occhio, io. Osservo il sole, osservo gli alberi. Seguo i tronchi solcati fino alle cime. Allora eccola, la vedo: distensione.

Questa faccenda del dualismo non è vera neanche un po’, te lo dico. Oppure è un lusso di pochi. Quest’idea che la mente stia da una parte e il corpo dall’altra, è un’illusione. Siamo tutti coscienti quaggiù. Le gambe, certo, sono d’intelligenza poco fine. Lo sappiamo tutti, qui. Però anche loro sono capaci di belle riflessioni. Quando corrono, per esempio, quando inseguono un bambino per farlo ridere, quando si fanno inseguire da quelle dell’uomo che ogni tanto viene a trovarci a casa, e fanno la lotta tutte e quattro fino a cadere avvinghiate sul letto – a quel punto trepidano, dicono al sangue: “Siamo assetate: porta più ossigeno”. La pelle, lo stomaco, il fegato. Siamo tutti coscienti quaggiù. Delle mani non mi sento nemmeno di parlare: ogni gesto è così sentimento, così espressione, che mi commuovo. Ma io ho questa fama di sensibile. Lo sanno tutti, qui. Però di te non ho mai detto a nessuno.

All’inizio non mi piacevi. Ti guardavo e pensavo: che rigido, che posato. Tutto il giorno immobile sotto il sole, a flettere giusto un po’ quando c’è vento. Che vita monotona, pensavo. E a ogni autunno tutte quelle scene tra te e le foglie che cadono… – sono sensibile, non melodrammatico. Più avanti ho iniziato a capirti. Ho capito che eri un tipo sobrio. La sobrietà – l’avrai intuito – non è di casa, per noi. Preferiamo la formula: luppolo amaro, lievito schiumoso, distensione. Puoi cantarla come una filastrocca, se ti piace. Io sono stonato, e non so suonare: sono teso, sì, ma irrequieto: non ho la grazia delle corde di un violino. È tensione costante, quella, ma sobria. Vi somigliate, è chiaro, tu e le corde di violino. Credo tu sia predisposto alla musica, per via del vento che ti scuote. Anche alla danza, credo. Sempre per via del vento.

Dopo aver capito che eri un tipo sobrio, ho capito un’altra cosa. È successo un pomeriggio che tutti, qui, languivano più del solito. La sera si era bevuto da bicchieri alti pochi centimetri. Dentro c’era una miscela traslucida che a me ricordava l’acetone. Lo stomaco ha esclamato: “Un secondo bicchiere non lo reggo”. Invece ne ha mandati giù parecchi, in stato assorto. Di notte non ho sentito nessun urto acre. Molto male, ho pensato. Infatti il giorno dopo si stava tutti a pezzi sotto il sole. L’intestino, la gola, le caviglie. Ma a passarsela peggio di tutte, credo fossero l’interno coscia e il pube. Per via della vicinanza alla Signorina – così la chiamiamo. Doveva essere successo qualcosa, di sera, con l’uomo che ogni tanto viene a trovarci. Io non so niente perché la miscela-acetone mi aveva steso: ero in stato narcotico peggio dello stomaco. Però che era successo qualcosa l’ho capito in fretta, il mattino dopo. Devi sapere che la Signorina è già molto languida di suo. Quando testa e cuore si innamorano, lei ha questi sfoghi caldi e romantici… – è un tipo passionale, insomma. Anche teatrale. Una da drammi e tragedie. Ho la sensazione che l’uomo non verrà più a trovarci, dev’esserci stato un litigio gravoso. Così quel pomeriggio si stava male due volte: male per via della miscela-acetone, male per via dei lamenti della Signorina. Si sentiva abbandonata, credo, forse tradita. Allora tutti languivano più del solito, come ho detto. E pure io non ce la facevo proprio più. Ho addirittura pensato di prendere appuntamento con la testa, e dirle in tutta franchezza: “Così non possiamo continuare, è un’emergenza: annuncia a tutti la formula”. Luppolo amaro, lievito schiumoso, distensione – ne avevamo un tale bisogno. Però come convincere lo stomaco? E il fegato? Che pessima idea, ho pensato, e ho lasciato perdere. Poi ti ho visto. Fintamente rigido, fintamente posato. Fintamente sobrio. Perché è stato lì che ho capito. È stato lì che ho visto: distensione.

Devi sapere che quando me la passo male anche più del solito, la mia sensibilità si raffina. Divento ancora più sensibile, insomma, più ricettivo. Saranno stati i residui della miscela-acetone, sarà stato un certo taglio della luce inclinata verso il tuo albero – non so. Fatto sta che ti ho visto ridere. Un riso discreto, naturalmente – tu sei un tipo sobrio. Un sorriso-riso discreto e silenzioso. Ho provato a chiamarti. “Che hai da ridere?”, ho gridato un po’ astioso. Devi perdonarmi: stavamo tutti tanto male che vederti ridere di quel sorriso-riso beato mi ha fatto perdere il controllo. Non hai risposto. Allora ho chiamato i tuoi vicini rami. Niente. Ho chiamato le foglie, il tronco, la corteccia, i muschi: niente. Ma mano a mano che scendevo con lo sguardo, ho visto un’altra cosa. Mi è sembrato che tutti quanti – voi dell’albero – aveste quel sorriso-riso beato. Discreto, silenzioso. Persino la linfa, che ho intravisto sotto la corteccia – ho più sentori visivi di un occhio, io – aveva quel sorriso-riso beato, mentre fluttuava su e giù come una scia di smeraldo.

Ammetto che mi avete incantato. Avrei voluto dirvelo, ma ormai ho capito che voi non parlate. Non avete voce, forse nemmeno sentite i suoni. Però che siete coscienti quanto noi, è chiaro. Forse siete anche più coscienti – ammetto che l’ho pensato. Più guardavo quel sorriso-riso universale più mi sentivo scosso, emozionato. Mi avete fatto sentire proprio rotto in due, sì, un nervo spezzato. Io me la passo così male, qui. Ce la passiamo tutti male, qui. Siamo sempre languidi, o sfrenati, o depressi. Mentre voi: beata calma ridente. Mentre voi: distensione.

Ho capito che siete tutti diversi, eppure tutti uguali – beata calma ridente in tutte le parti. Che differenza c’è, poniamo, tra te e una radice? Forse lei ha più amore per la terra, mentre tu ami il cielo. Forse lei è più sensibile all’acqua, sì, è lei che se ne occupa. Ma tu hai il senso della luce.

Sì, credo che sia così: tutti diversi, ma tutti uguali. Da noi invece ognuno ragiona per sé, siamo egoisti noi. C’è chi piange, chi si annoia, chi si snerva. Non ne posso più di stare qui: te lo dico. Troppo baccano, troppa confusione. Insostenibili languori ogni domenica, sotto il sole. Ora che l’uomo non verrà più a trovarci, poi, puoi immaginare che cosa mi aspetta. Pianti isterici della Signorina giorno e notte, testa e cuore sempre a discutere, sempre a litigare. Dovrò stringere un patto con il fegato per avere più luppolo in cambio di favori. Sono un tipo scaltro, io.

Ora devo andare. La testa ha attivato l’allarme: è sabato sera – luppolo amaro, lievito schiumoso, distensione. È un peccato che tu non possa parlare, comunque. Vorrei proprio che tu mi spiegassi come funziona questa vostra coscienza-non coscienza, beata calma ridente, distensione. Potrei farne una filastrocca, in effetti. Potrei cantartela, anche se mi vergogno – ti ho detto che sono stonato. Stasera ci penso. Domani è domenica: saprò dirti. Quindi a domani.

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