Sottoterra

Se senti la mia voce ma non riesci a vedermi è perché sono sotto la scrivania.

Non è che stia sempre qui, ovviamente: quando devo andare in bagno vado in bagno, ad esempio, e quando devo andare a letto vado a letto. Del resto, non sarebbe possibile altrimenti, a meno di avere una scrivania grande quanto una stanza intera e che abbia sotto tutto quel che serve per vivere.
Certo, a star seduti così o ci si rompe il collo, se ti appoggi con la schiena ben dritta all’armadio e pieghi la testa all’ingiù, o l’osso sacro, se preferisci sdraiarti in terra; ma alla fine ci si abitua. Anche le gambe non so mai dove metterle: distesa per lungo non ci sto più, e preferisco non lasciarle fuori da sole. Fa freddo, fuori. Posso confermare, invece, che quello delle testate è un falso mito: essendoci cresciuta, qui sotto, i miei movimenti hanno avuto tutto il tempo di calibrarsi e di prendere le giuste misure.
C’è il rischio di annoiarsi, quello sì, ma non è cosa che mi riguardi: mio fratello mi veniva a trovare ogni giorno, e insieme ci facevamo delle gran belle chiacchierate. Ora, io sarò un caso estremo, forse, ma anche mio fratello era un tipo abitudinario: per anni è venuto qui sempre allo stesso orario, alle otto e mezza del mattino. Si sedeva accanto a me – dovevamo stringerci, perché lui nel frattempo era diventato un omone – mi raccontava qualcosa, poi si alzava e lavava i piatti sporchi nel lavandino.
Ma da una settimana mio fratello è scomparso. Quest’assenza mi è sembrata strana sin dal primo momento, e mi ha fatto provare gli stati d’animo più disparati: sorpresa, all’inizio. Poi delusione, rabbia. Infine apprensione. Così, ho approfittato di una tappa al gabinetto per guardarmi un po’ attorno. Nell’eventualità che mi avesse lasciato un biglietto, sapete. Ma non ho trovato nulla. Dunque, la sua assenza non era pianificata.
Sospiro: se mio fratello non torna, sarò costretta a ricorrere alle scorte segrete di scatolette.

Spesso, soprattutto durante le lunghe serate, prima di stendermi e provare a prendere sonno, me lo immagino davanti, tutto rannicchiato, e gli parlo proprio come se fosse qui. Gli sussurro che mi manca, e arrossisco nella stanza buia. Chissà perché ha deciso di non venire più. Chissà se dovrò stare per sempre da sola.
Vorrei telefonargli, anche perché la fame inizia a farsi sentire sul serio, ma ho paura mi possa rispondere mia cognata. E non la sopporto, mia cognata. Ha sempre pensato che fossi una svitata, e una volta ha persino detto a mia nipote che vivo sottoterra. Allora resisto: cerco in fondo al congelatore e trovo una busta tutta accartocciata con dentro dei piselli.
Dovrei accendere il fuoco per cucinarli, ma poi non ricordo più come fare e resto immobile davanti alla manopola del gas. Forse ho bisogno di un accendino. Sì, insomma, di qualcosa che faccia partire la fiamma. Aspetto qui in piedi – curva, ingobbita – fino a che i piselli non mi si scongelano in mano. Allora me li rovescio in bocca e li mastico lentamente.
Sanno soltanto di ghiaccio.

L’idea di uscire si insinua nella mia mente senza il mio permesso. Non è una decisione semplice: mi mancano dei pezzi, dei passaggi logici. Le chiavi, ad esempio. Mio fratello usa le sue e io so di avere le mie, ma dove si saranno nascoste?
Mi aggiro per la casa e apro cassetti dimenticati. Rovisto tra vecchie foto, penne dall’inchiostro secco e fogli stropicciati. Per stancarmi mi basta poco: sarà che ho lo stomaco vuoto. Scompiglio un armadio e un comodino ed è subito sera. La luce si fa fioca, gli occhi diventan pesanti, le gambe non reggono più.
Mi trascino in camera, verso il letto, con i piedi nudi intirizziti dal freddo, e sto già per sdraiarmi quando davanti ai miei occhi compare la scrivania. Ancora una volta sento il bisogno di andare lì sotto, di crogiolarmi sotto la sicurezza di quel tetto di legno.

Al mattino mi svegliano i clacson.
Quando striscio fuori dalla scrivania e mi alzo in piedi, le ossa scricchiolano e si lamentano come se non fossero abituate. Con lo stomaco che urla e si contorce, mi rimetto a cercare, e questa volta sono più fortunata: le chiavi saltano fuori da un cassetto del comodino. Strano, ero sicura di averlo già controllato.
Cos’altro serve per uscire e comprare qualcosa da mangiare? Una giacca e dei soldi, credo. Ma io ho racimolato qualche monetina mentre svuotavo i cassetti e non vedo motivi per cui il giaccone nell’armadio non dovrebbe più starmi: dovrei essere a posto.

Apro la porta di casa e per un po’ rimango lì a fissare il pianerottolo. Dalle finestre delle scale filtra la luce del sole e rimbombano i rumori della strada. Ma dove vado?, mi chiedo. Se mio fratello se n’è andato, dovrò reimparare come si esce. Reimparare a camminare, a star dritta con la schiena, a parlare. Forse sarò addirittura costretta a cercarmi un lavoro, e come si fa?
Sto per tornare dentro quando un attacco di nausea quasi mi costringe a vomitare i pochi liquidi che ancora mi aleggiano nello stomaco. Ho finito le scatolette di mais e quelle di tonno, ho finito i cracker e la frutta essiccata: devo andare là fuori.

Scendo i primi gradini tenendomi al mancorrente. A stento mi reggo in piedi: la mia paura più grande è di incontrare qualcuno che mi domandi chi sia e che cosa ci faccia qui, qualcuno che mi dica delle cose cattive o che mi chieda se ho bisogno di aiuto. Cerco con tutte le forze che ancora mi restano di ricordare come si risponde a una domanda del genere, come si risponde a una domanda qualsiasi senza fare una brutta figura. Cerco di ricordarmi come ci si comporta con qualcuno che non sia mio fratello, come si vive senza il ripiano di una scrivania sopra la testa.

Il portone è di vetro, posso vederci attraverso. Uomini e donne si accalcano sul marciapiede: corrono, si stringono le mani, si passano borse e sacchetti. Ci sono auto ferme al semaforo, c’è qualcuno che ascolta la musica. Mancano solo le alghe e le bolle e sembrerebbe un acquario.
Una signora con un cane mi passa davanti a non più di un metro. Chi è? Lavora qui in zona? Vive in uno di questi appartamenti? E dove andava, così di corsa?
È finita, se comincio a farmi domande: non credo di poter reggere il peso di nessuna riposta. Abbasso la maniglia. Con un sospiro, supero la linea di demarcazione tra ciò che c’è dentro e ciò che c’è fuori. Il portone si chiude alle mie spalle con un tonfo, e la vita mi colpisce con la sua vivida lucentezza.

1 Reply to “Sottoterra“

  1. Bello! E chi non ha paura di vivere? In fondo abbiamo tutti una scrivania sopra la testa. ?

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