«Ti ricordi? Eravamo piccoli e davamo un nome a tutto».
Indicavano le piante e gli animali. E il cielo sopra le teste e la terra sotto i piedi. Il Padre li guardava con affetto.
Si chiedono se tutto questo morirà davvero, ed è già così.
Restano stesi sull’erba, nudi e vicini, abbracciati per l’ultima volta dalla loro casa.
Resistono il brugo rosso, l’orecchia di topo, l’erba medica; attorno è punteggiato dai fiori stellati dell’inula e tra le dita dei piedi fruscia il trifoglio bianco e violetto.
Più lontano, l’edera circonda il casale dove è morto il Padre.
La Sorella ama il giardino, anche se non gli è sempre stata fedele, quando era ancora la Figlia. Da piccola volava attraverso i vicini campi a coltura e immaginava cosa c’era oltre. Una volta cresciuta aveva attraversato il cancello per andare a vedere il mondo. Era andata in città.
All’università il Padre era stato un nome conosciuto. Nel giardino non si parlava della vita di prima, come non fosse mai stata, ma sulla fronte di qualche vecchio collega compariva una piega sottile a sentire di chi era figlia.
Credevamo fosse morto, o impazzito. E invece si era fatto i suoi bei conti.
(Impossibile immaginare il Padre senza la tuta da apicoltore: le sarebbe sembrato informe, bianco e molle: una larva).
Qualcuno ricordava una moglie, anche.
Immaginare sua madre era più difficile; lontana da troppo, nello spazio oltre che nel tempo.
A volte le api regine prendono a cercare qualcos’altro. Gli alveari smettono di essere abbastanza e le famiglie iniziano a brulicare; dentro le arnie si alza un ronzio rosso e la temperatura sale.
Anche a sua madre era successo così.
Il Padre era basso, morbido e senza pungiglione. Aveva fatto quel che poteva, l’aveva convinta a restare ancora un po’ ed era nato il Fratello. Ma sua madre non aveva mai provato nulla per la bellezza del giardino e il richiamo dell’altrove le era irresistibile. Soffriva a stare con loro: sudava fin dentro le ossa già ad aprile e in inverno la noia molle dell’imbottigliatura la faceva diventare magra e secca.
Io qui, così, non vivo. Ti ho accontentato ma tu mi fai morire.
Mi vuoi far morire?
I primi tempi sua madre aveva fatto avanti e indietro col Figlio ancora piccolo. I giorni nel vecchio appartamento di città si erano sostituiti presto a quelli nel giardino. Era stata una partenza prolungata e innaturale. Alla fine l’avevano lasciata andare e l’ultima telefonata era stata un sollievo.
La Figlia si era scordata di lei ogni giorno di più. Poi si era ammalata della stessa malattia.
L’amore del Padre per il giardino, per le api, l’aveva guarita. Spore di dedizione si erano staccate da lui e il vento e l’acqua le avevano trasportate fino a loro, i suoi figli. Un amore ostinato che si era piantato in profondità; la polvere del giardino era entrata nel naso, si era accomodata tra le pieghe del cervello, nelle vallate della pelle, sotto le unghie.
Il Padre l’aveva resa non regina ma esploratrice. Un’esploratrice torna sempre a casa.
La Figlia ama le api, le aveva amate anche quando aveva abbandonato il giardino. Era lontana e le mancavano. Raramente se ne vedevano in città: troppo intelligenti, non credevano ai fiori artificiali; riconoscevano il polline di laboratorio e si allontanavano, dirette alle ultime campagne.
(Un giorno non resterà più cibo per le città).
Il Padre si era convertito alla bellezza matematica e salvifica delle api. Ripeteva che le parole e i colori non sono all’altezza: solo i numeri possono riprodurre la perfezione della natura. Le api vivono di geometria. Hanno abilità numeriche complesse, la vera chiave dell’evoluzione. In città, il Padre lavorava con i numeri. Ma non c’era ordine nelle sue classi, nessuna aspirazione fuori da sé e nessuna speranza di perfezione. I numeri erano un mezzo per prendere e nient’altro.
L’improbabile incontro con le api, per chi lo conosceva, lo aveva cambiato. Aveva cominciato con poche famiglie, ma di anno in anno le aveva moltiplicate. Quando era nato il Fratello, la Figlia sapeva già contare le arnie senza l’aiuto delle mani.
L’apiario era un rettangolo isolato di casette sotto l’ombra degli alberi.
Quando erano bambini, ogni aprile il Padre usciva nel verde e faticava nella tuta gialla fino a estate inoltrata. Le api gli succhiavano giorni e pensieri.
Permetteva che i figli gli ronzassero intorno ma più loro crescevano più li teneva lontani, finché non li aveva esclusi del tutto dal suo prezioso paradiso. Una cacciata graduale e inesorabile. Il Padre era basso, morbido e senza pungiglione, però alle arnie nessuno si poteva più avvicinare.
Ai controlli il Padre aveva iniziato a far scivolare una busta in tasca al veterinario, sempre più gonfia.
La Figlia doveva sapere. Li seguiva sino al cancello, senza riuscire a capire. Attorno a lei, le api volavano indaffarate, producevano miele e riposavano strette due a due nelle corolle quando erano stanche.
Niente sembrava cambiato e al Figlio non l’aveva detto, nemmeno per riempire il silenzio quando aspettavano insieme l’autobus per la scuola alla fermata di fronte al cancello, e insieme fissavano i chilometri di serpente scuro che apre solitario il disabitato. Di tanto in tanto spuntava qualche casa scoperchiata.
La Figlia lo guardava partire ogni mattina. Il Figlio saliva, prendeva posto vicino al finestrino e la salutava alzando un braccio. Da sotto la manica della maglietta si affacciava della peluria bionda, morbida come quella che ricopre il corpo delle api; gliela tracciava con la punta dell’indice ancora macchiato d’inchiostro quando tornava e riposavano vicini.
Non appena l’autobus si allontanava, la Figlia rientrava. Si chiudeva bene alle spalle il cancello e sedeva sul prato, con veri fogli, pennelli e colori, e lavorava come prima che gli inverni morissero.
Aveva studiato anche lei i numeri e ormai le spettava la contabilità, ma le piaceva occuparsi delle etichette. Erano diventate compito suo, come ricevere quelli che venivano dalla città su bolidi grigi di polvere.
Lo spaccio è quasi sulla strada, così nessuno può mettere piede nel giardino.
Il Padre non era adatto a stare con le persone. Lei mancava da meno dal mondo, così aveva preso a occuparsene. Dopo la guarigione, però, non riconosceva più i visitatori come suoi simili: li osservava durante la scansione oculare per i pagamenti, cercava di capirli, ma lei era un’ape e loro erano vespe in completi costosi, grigi e stretti.
Quando andava a scuola e allo spaccio impacchettava solamente gli acquisti, immaginava di seguirli fino alla macchina e convincerli a portarla via al costo di un altro prezioso vasetto.
Era giovane e il giardino la soffocava. Nel casale il malumore brulicava rabbioso e si era alzata la temperatura. Voleva altro, di più. Ma nel profondo, il Padre l’aveva guarita all’insaputa di entrambi.
(Ormai non c’è nessuno allo spaccio e le macchine che ancora arrivano ripartono in fretta quando vedono la serranda abbassata. L’autobus continua la sua corsa solitaria).
La malattia del Padre era fiorita con la lavanda di settembre. Nel giardino, la Figlia alzava gli occhi verso la sua cella. Se ne stava chiuso nella stanzetta dalle pareti chiare, le gambe spiegazzate sotto il lenzuolo.
Un giorno aveva smesso di camminare bene. Non riusciva più a correre, si muoveva tremolante. Sembrava senza scopo, vagava scoordinato non distante dalle arnie. Poi lo avevano trovato supino sull’erba. Le api lo avevano respinto. Non poteva più avvicinarsi a loro.
Avevano capito che era davvero malato.
Che le api avessero preso a comportarsi stranamente, la Figlia l’aveva capito dal miele: il Padre lo raccoglieva tutti i mesi, ma ce n’era sempre meno del dovuto e aveva preso una brutta sfumatura itterica, una consistenza più liquida. Se ne era accorta già all’ultimo dicembre, mentre incollava le etichette sui vasetti con una mano e con l’altra si faceva aria con un foglio. I clienti forse non ci avevano fatto caso.
Il Padre aveva ricacciato indietro le sue domande con lo stesso gesto automatico con cui allontanava le operaie quando spiava nelle arnie, e le aveva sigillate dietro un veloce bacio sulle labbra.
Nemmeno quello aveva detto al Figlio.
Era tornata dalle api nell’ora più calda del giorno.
Le cicale le facevano vibrare la gola, l’erba sembrava andarle contro. Fiato, gambe, pancia pesanti. Quando aveva visto la sagoma dal Figlio venire dalla strada si era fermata un attimo prima di ripartire.
Lui l’aveva seguita in silenzio fino alla rimessa degli attrezzi. Aveva fatto scivolare lo zaino dalle spalle e recuperato il distacco in un attimo.
Dentro, la rimessa era una fornace.
Quando aveva aperto la porta socchiusa, la Figlia si stava già spogliando. L’aveva raggiunta, così vicino da respirarle in faccia. Aveva afferrato l’orlo del vestito, glielo aveva sfilato dalla testa, veloce, e gettato di lato. Con l’indice aveva seguito le venature viola e rosse delle smagliature che si ramificavano sotto l’ombelico.
La Figlia lo aveva scacciato con un colpetto secco della mano e gli aveva allungato la tuta da apicoltore troppo piccola per lui. Infilarla era stato come rimettere una pelle abbandonata, faceva resistenza contro il corpo appiccicoso. Si era voltata solo quando aveva calato la maschera sul viso, mentre il Figlio le chiudeva la zip. Con gli occhi, da dietro la veletta, aveva detto: rimani qui, e lui era rimasto.
Teneva stretto l’affumicatore tra i guanti. Il petto tirava – forse era la tuta, forse l’ansia. Il fiatone le si condensava sul viso, inumidiva le guance, le pizzicava il naso.
Superato il perimetro dell’apiario era stata l’assenza a colpirla. Le arnie sembravano come le aveva lasciate anni prima: una schiera equidistante di casette linde disposte a rettangolo, palazzetti in miniatura dai colori chiari che il Padre aveva ridipinto prima dell’arrivo del grande caldo. Ma erano silenziose e dal retro spuntavano dei nuovi rubinetti di vetro. Si era avvicinata trascinando i piedi. Il Padre doveva averli fatti installare da poco, all’ultimo controllo lo aveva sentito parlottare col veterinario di una nuova tecnica. Efficiente ma non gentile. Bastava alzare la manopola e…
Sotto la tuta il sudore gelato faceva prudere la schiena.
Si era chinata al livello della prima porticina: nessuna operaia ad accoglierla, a malapena aveva avvertito un ronzio. Si era raddrizza, aveva girato attorno all’arnia sino alla bocca del rubinetto. Sotto c’era un barattolo vuoto e impolverato. Aveva sollevato la manopola e nella soffocante attesa, in principio, non era successo nulla. Poi, con un verso improvviso, il rubinetto aveva sputato un fiotto liquido e itterico, riempiendo a malapena due dita di barattolo.
Aveva afferrato il tetto dell’arnia, facendo forza per scoperchiarla e spiare il segreto all’interno. Era stato l’odore a piegarla in due. Si era voltata, gettando via il coperchio. Voleva andare via, ma non aveva fatto più di qualche passo. Si era strappata la maschera e aveva vomitato succhi gialli non troppo diversi dal contenuto del vasetto semivuoto.
Dalla bocca del rubinetto era scivolata una piccola ape dalle ali accartocciate. Il suo corpicino adagiato sul pelo appiccicoso del miele lentamente affondava.
Da piccoli, si davano anche loro da fare nell’apiario. In inverno preparavano il candito con acqua e zucchero a velo e piazzavano i vassoi nell’arnia per tenere le api umide e ben nutrite. Quando le nuove regine emergevano dalle loro cellette, il Padre reggeva per i fianchi la Figlia e insieme frugavano tra le operaie per trovare le vergini e marchiarle di rosso con un puntino di vernice. Il Figlio era poco delicato, ma amava sporcarsi le mani e sceglieva i colori con cui tinteggiare le arnie; in estate imparava a riconoscere i fuchi e quando arrivava l’autunno ne spazzava via i corpi morti con una scopa di saggina, oppure li prendeva tra le dita e correva dietro alla Figlia, glieli lanciava addosso per farla urlare – sapeva che fingeva solo di avere paura.
Poi, quando avevano creduto di essere abbastanza grandi per fare tutto da soli, lei era stata confinata allo spaccio, ai conti e alle etichette, e a lui era stato detto chiaro e tondo che le arnie non erano fatti suoi.
Era l’estate in cui la Figlia aveva iniziato a prepararsi per l’università, anche l’ultima in cui avevano potuto restare a lungo sotto il sole senza protezione oltre la crema di oli e cera d’api preparata con le loro mani. Il giardino mostrava i primi, deboli segni della febbre e la Figlia quegli stessi sintomi se li sentiva addosso. Non lo sapevano, ma da qualche tempo erano aumentate le visite del veterinario, che veniva magro dalla città ma li lasciava con le tasche gonfie di contanti, a volte persino con dei vasetti sottobraccio. Il Padre era sempre all’apiario, si allontanava solo quando doveva spingersi dai vicini per contrattare il prezzo dell’impollinazione e tornava più in fretta che poteva. Capitava che nemmeno cenasse, semplicemente si buttava giù accanto alla Figlia, il capo sul suo seno. Lei gli passava le dita tra i capelli sudati e sognava a occhi socchiusi la casa appena affittata in città. Il Padre non aveva fatto un fiato quando aveva detto che voleva andare via.
Quell’estate i figli avevano imparato a stare per conto loro.
I libri elettronici sul prato, le api che svolazzavano intorno e si posavano sulle parole. Erano seduti schiena contro schiena, la Figlia risolveva problemi ed equazioni e il Figlio fingeva di leggere Il sermone del fuoco. Sottolineava distratto lo schermo, premeva col dito tanto da deformarselo.
Era raro che il Padre alzasse la voce ma qualche mattina prima, dopo aver lasciato la Figlia nel letto, era sceso più tardi del solito e aveva visto il Figlio con delle stampe tra le mani, fogli in cui aveva potuto spiare solo il nome poco familiare di un laboratorio. Le grida erano arrivate fino alla stanzetta dalle pareti chiare dove riposava la Figlia e l’eco del litigio aveva ammutolito il casale.
Quel giorno faceva così caldo che il sudore si confondeva sulle loro schiene, ma non si erano spostati. Quando il sole aveva raggiunto la metà del cielo, avevano girato il capo, i colli tesi, l’una verso l’altro. Avevano la pelle d’oca.
La Figlia si era portata dietro una mela.
Lascialo perdere. Stai con me.
Se la rigirava tra le mani, rossa e lucida.
Tu vai via presto, aveva risposto il Figlio. Chissà quando torni, se torni.
Sul viso aveva i primi peli chiari. La Figlia si era voltata col busto e si era allungata verso di lui: tenendo la mela in una mano glieli aveva sfiorati con le dita libere. Era carne della sua carne, ossa delle sue ossa. Se ne andava perché doveva, perché lì impazziva, ma non se ne andava da lui. Gli aveva detto tutto questo, indicandosi il cuore, tra le costole.
Sei un pezzettino di me che mi è stato tolto da qui.
Sì, dici così. Però vai via.
La Figlia si era portata la mela alla bocca. Il Figlio taceva, gli occhi fissi sui bei segni dei suoi denti nella polpa bianchiccia. Dopo aver finito, si era alzata e aveva gettato a terra il torsolo. Presto sarebbero arrivate le formiche.
Aveva abbandonato anche i suoi esercizi ed era andata verso il casale. Sulla soglia si era girata a guardare il Figlio.
Lui l’aveva seguita dentro.
(Al Padre avevano lasciato le arnie e lo avevano cacciato dal loro paradiso).
Dalla città era arrivata un’ambulanza, ma il Padre non era voluto tornare nel posto che aveva lasciato tanti anni prima.
Stavano con lui costantemente, come da piccoli, quando dopo la partenza della madre dormivano tutti insieme nello stesso letto.
Il veterinario aveva ignorato le loro chiamate. Lo squillo del cellulare e il battito del Padre registrato dai macchinari avevano lo stesso ritmo metallico e nessuno dei due rispondeva alle loro domande.
Un pomeriggio, mentre il Padre dormiva, la Figlia aveva preso il Figlio per mano e l’aveva guidato fino all’apiario. Non indossavano nemmeno le tute. Non c’era più bisogno di calmare le api con l’affumicatore.
Il Figlio aveva sollevato i coperchi delle casette uno per uno, per non farle fare sforzi. Ogni volta li aveva accolti lo stesso odore di carne andata a male.
Stanno marcendo.
Il veterinario aveva trovato tempo per loro solo dopo il funerale. Un uomo consunto, pronto anche lui per la bara, con un completo non molto diverso da quello del Padre sotto terra.
(Avevano pensato di seppellirlo con la tuta, ma poi avevano deciso di no. Così accartocciato non sembrava nemmeno lui).
Il veterinario aveva sospirato ma non li aveva guardati. Varroasi o peste americana: qualcosa nel mezzo, un male più misterioso, non sapeva dirlo. Ma è iniziato tutto anni fa, aveva confessato alla fine, per liberarsi l’anima dopo che la Sorella gli si era piantata davanti a gambe larghe e sguardo duro.
Sarà che fa troppo, troppo caldo, aveva detto.
Le api erano lentamente diminuite di numero. Le regine avevano iniziato ad accettare un solo fuco nei loro voli nuziali. La prole era debole e sempre meno numerosa.
Lui lo sapeva, ha detto, e ha provato a risolvere. E pure io, non è colpa mia, più di provare a vederci chiaro non potevo fare.
Tutte le regine erano morte ormai, l’ultima proprio quella mattina. Il Padre non poteva permettersene di nuove: le cose della terra costano, lo sapete pure voi, non ci sono quasi più api selvatiche. Quelle allevate sono troppo care.
Ora, nelle arnie anche le larve erano morte e le operaie avevano preso il posto delle regine. Sarebbero nati solo fuchi, le famiglie erano condannate.
Ma… che possiamo fare? aveva chiesto il Fratello. Ci sarà qualcosa che possiamo fare.
Il veterinario aveva alzato le spalle. Prima di andarsene, la Sorella gli aveva allungato una busta gonfia di banconote e lui se l’era infilata in tasca.
Era stata la Sorella a prendere la decisione.
Aveva letto cosa fare, non aveva fatto altro che leggere per giorni.
Si era voltata con tutto il corpo verso il Fratello: «Dobbiamo contare le famiglie e comprare lo zolfo».
Lui taceva.
«Lo facciamo stasera».
Aveva girato la testa per non guardarla.
Nel buio, il Fratello aveva raccolto tra pollice e indice i cadaveri delle operaie che punteggiavano il terreno attorno alle arnie. Li aveva messi dentro le casette lentamente e con delicatezza, gli occhi lucidi.
Prima di bloccare le porticine avevano posato all’interno delle arnie il loro estremo dono alle api ammalate: zollette di zolfo accese su un lamierino di metallo.
Avevano aspettato facessero effetto per una notte intera e il mattino dopo, di buon ora, avevano scavato le buche.
Il Fratello cercava di togliere la pala di mano alla Sorella ma le arnie erano tante e da solo non avrebbe finito più. Spesso lei si fermava a riprendere respiro, piantava la pala a terra e si sfregava il viso sudato.
Poi avevano dato fuoco alle arnie, insieme vicini mentre le api scricchiolavano.
Il Fratello singhiozzava.
«Ti prego…»
«Chi preghi? Non c’è nessuno da pregare».
(Non c’era più il Padre, e nemmeno c’erano le api).
I fuochi erano arsi un giorno e una notte, e per un giorno e una notte aveva vegliato le fiamme nutrite con i vecchi strumenti del Padre, svuotato per intero il magazzino. Avevano dovuto dare fuoco persino al terreno attorno, ai loro abiti.
Adesso non resta che polvere.
La Figlia solleva e abbassa piano il petto, le sembra di respirare ceneri amare. Rimane in silenzio aspettando la luce, senza muoversi.
Hanno dormito in giardino, chiudendo gli occhi solo con gli ultimi bagliori. Una nell’altro, come due api dentro il fiore.
Il Fratello si sveglia dopo di lei. Allunga una mano e le tocca le ciglia.
«Ho sognato che piangevamo per sei giorni interi. Ti uscivano le api dalle lacrime».
«Dobbiamo andarcene».
«E dove vuoi andare?»
Ora sente che il giardino non li vuole più.
«Forza, non possiamo restare».
Si alzano da terra. Si scostano di dosso il loro lenzuolo di rugiada, sono ancora nudi. Rientrano nel casale scalzi, lasciandosi il giardino alle spalle. Prendono le loro cose, qualche abito per coprirsi e poco altro.
«Dove andiamo?» chiede il Fratello quando si sono vestiti.
La Sorella si ferma, si posa una mano sulla pancia tesa e piena.
«Di là».
Indica l’ovest.
Camminano verso il serpente di strada.
Non guardano indietro.
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