Il sole è entrato da poco nello scorpione. È una fine di ottobre gelida. Faccio il fumo davanti alla bocca anche quando chiedo a Guido di andare a comprare le tende, per il salotto.
Mi sembra una cosa semplice, da fare insieme. Gli passo una tazza di caffè.
Compriamo le tende, gli chiedo. Lui fa una smorfia che non vuole dire né sì né no. Ha il collo della maglietta slargato, come se qualcuno gliel’avesse tirata prima da una parte e poi dall’altra con forza. Sotto indossa una delle sue mutande nere. Il paio di stamattina è consumato sul sedere e la stoffa è diventata quasi trasparente. Quando saliamo sul taxi di Guido, disinfetto il cruscotto e il sedile di pelle con una salvietta profumata al burro di karité. La butto sull’asfalto dalla portiera ancora aperta, poi mi pento, la raccolgo e la ripiego. La tengo nel pugno per qualche secondo, mentre Guido mette in moto e accende l’aria calda per spannare il vetro. Infilo la salvietta nel buco del portabottiglie. Guido si sfrega le mani, soffia dentro ai pugni per scaldarle. Io chiudo la portiera, gli dico andiamo? Lui mi dice, hai fretta? Io non rispondo e fisso un punto sul vetro. Il ghiaccio si scioglie lentamente, dal basso, disegnando profili di animali fatti di vapore.
Nel reparto tende la stoffa cade giù soffice e lunghissima, appesa ai ganci sul soffitto. Quella bianca con ricami sul fondo mi piace da subito. Mi giro e cerco Guido, per chiedergli se anche a lui piace, ma lui è rimasto al reparto illuminazione. Si muove come un fantoccio, con le braccia abbandonate lungo il corpo, senza un’intenzione.
A quel punto la mia caduta è improvvisa ma dolce. Qualcosa dentro di me smette di funzionare, il meccanismo si inceppa. Il collo brucia, si irrigidisce, e il respiro non arriva dove deve, alcuni punti del corpo muoiono per qualche secondo. Allora mi affloscio sul pavimento, sulle ginocchia, le caviglie, i piedi, le parti superiori sulle parti sempre più inferiori, fino al pavimento.
Quando Guido mi raggiunge sono sdraiata per terra, ho gli occhi aperti ma non riesco a muovermi. Non respiro, dico a fatica. Le sue braccia da spaventapasseri iniziano a muoversi, chiama qualcuno, una commessa. Lei corre verso di noi poi sparisce di nuovo e quando riappare ha una bustina di zucchero in mano.
Io vedo tutto dal basso. Vedo i seni della commessa che ballano, le narici scure di Guido che si china su di me, lo zucchero che mi cala in gola.
Lo sento scricchiolare sotto i denti, lo spingo giù a fatica, mi gratta la gola. Dovrei bere ma non riesco a chiedere più niente, non riesco a parlare. È per questo che qualcuno chiama l’ambulanza. Mi fanno domande ma non rispondo. Sento che le parti del corpo morte dentro di me si moltiplicano, mi sento viva solo negli occhi. Il pavimento è caldo e sporco, sulla pelle scoperta delle braccia sento i germi farsi strada verso il centro del corpo. Le tende stanno in alto, al loro posto. Da qui sembrano delle nuvole. Qualcuno dice che l’ambulanza sta per arrivare. Vedo Guido sbuffare. Chiudo gli occhi per farlo scomparire. I neon freddi fanno diventare il buio degli occhi rovente.
Le ferite sono tutte interne, non interessano le ossa ma qualcos’altro più in profondità. Sono buchi invisibili da cui inizia a entrarmi dell’acqua. È fredda e quando mi caricano su una barella rigida e stretta mi si agita dentro come una tempesta. Guido segue l’ambulanza con il taxi, me lo dice prima che io sparisca dietro i due portelloni. Durante il tragitto conto le vibrazioni orizzontali e quelle verticali. Un medico a bordo mi scruta da un angolo, mentre traballiamo insieme. Vorrei chiedergli se lui la vede l’acqua che ho dentro. In ospedale mi sistemano in un lettino più spazioso rispetto alla barella dell’ambulanza, dentro uno stanzino in cui sono sola. C’è odore di pulito e una piccola finestra che fa entrare la luce di taglio. Mi colpisce le dita dei piedi. Non ho rimesso lo smalto e l’alluce è il dito più trascurato, con la sua base bordeaux e il bordo mangiucchiato. L’unica cosa che posso guardare comodamente è il soffitto. Posso comprenderlo tutto, con una sola occhiata. È bianco, come le tende che non ho comprato. L’acqua continua a fluirmi dentro, in modo lento. Nello stanzino mi raggiunge un medico con la faccia tonda e pulita. Ha un’ombra grigia sopra la bocca e sulla mascella. Un accenno di barba domata, ogni mattina.
“Come si sente?”, mi chiede.
“Sono piena di acqua”, dico.
Lui sorride, sembra divertito.
“Non credo, in questo momento sarebbe morta”.
Non ci crede nemmeno Guido, alla storia dell’acqua.
Quando lo fanno passare, ho il dito attorcigliato a un lembo del lenzuolo bianco e ruvido. Mi rendo conto di essere tutta vestita sopra il lettino intatto e la trovo una cosa strana. Guido mi scioglie il dito dal mulinello di stoffa in cui l’ho intrappolato e poi rimane a fissarmi dall’alto, ma senza incrociare perfettamente i miei occhi. Sposta i suoi sulle mie orecchie e sul cuscino bianco, sotto la testa.
“Sto diventando un acquario”, gli dico.
Lui scuote la testa e rimane in silenzio, stempera la tensione stirandosi i jeans e i bordi del lenzuolo. Io giro la testa di lato e chiudo gli occhi.
Mi spostano nel corridoio perché lo stanzino serve a qualcun altro. Mi accorgo solo quando l’infermiera muove il lettino che ho degli aghi infilati nel braccio e un rigagnolo di sangue che si è seccato più in basso.
“Per le analisi”, dice l’infermiera che ha interpretato il mio sguardo.
Alzo gli occhi e le vedo i capelli intrappolati dentro una coda alta, perfettamente tirata. Gli occhi le diventano leggermente a mandorla per la tensione.
Quando mi colloca lungo il muro arancione del corridoio, mi chiede se ho bisogno di qualcosa. Le risposte si accavallano e alla fine non dico niente.
Le guardo l’anulare sinistro. Lo guardo a tutti, di solito. Lei non è sposata. Faccio avvicinare Guido al lettino. È stato in disparte per tutto il tragitto. Vorrei dirgli che può provare a scoparla, nel bagno, che poi lo perdonerei. Ma l’acqua mi risale da un punto centrale del corpo e mi affoga le parole.
Nel corridoio le persone si muovono e le ruote stridono sul pavimento di linoleum.
In alto non c’è più il soffitto bianco. È di un colore spento che non ha un nome. Apro e chiudo gli occhi a ripetizione, cercando di indovinare quanto tempo è passato ma, quando controllo sullo schermo del cellulare che ho in tasca, mi accorgo di aver sbagliato sempre.
Il medico di prima mi viene incontro.
“Le analisi vanno bene, anche la pressione e gli altri parametri. Facciamo una lastra ai polmoni e poi, se va tutto bene, la rimandiamo a casa”.
La vedranno l’acqua, allora. La vedranno e la dreneranno in qualche modo, togliendola dai buchi. Mi si riformeranno le ossa, tutte intere e solide. Di acqua nei polmoni non me ne trovano. Sembra non esserci nemmeno in altri punti del corpo lì intorno, eppure io, quando mi rimetto in piedi, sento che l’acqua, tutta l’acqua che ho immagazzinato, ha aumentato il suo volume. Torna il medico e mi accorgo che è basso e la sua faccia non è così. Lui è sorpreso che io lo superi di molto, in altezza. Nel lettino forse gli sembravo minuscola. Mi dice che posso andare a casa, che forse è stato un calo di zuccheri, un piccolo attacco di panico. Non c’è niente di strano dentro di me, conclude. Il medico chiama un’infermiera, diversa da quella di prima, e Guido che mi ha aspettato in una piccola sala con sedie di plastica messe in modo disordinato.
Anche questa infermiera non ha la fede, si muove sicura nella sua divisa bianca, porta dei fogli al medico, gli sorride, poi mi dice arrivederci ma non faccio in tempo a rispondere.
Guido è prudente in macchina. Non abbiamo mai fatto un incidente insieme. Porta il taxi come se dentro ci fossero sempre dei passeggeri, anche se è solo con me. Guida piano per tutto il tragitto. Oggi è particolarmente attento ai dossi e alle buche che si aprono nella carreggiata. Forse ha paura che possa svenire di nuovo e che possa sbattere la testa sul finestrino. Invece sono stata vigile per tutto il tempo, anche se l’acqua interna allargava il suo perimetro raggiungendo le estremità del corpo. La sentivo nelle dita delle mani e dei piedi. Mi sono tenuta forte alla maniglia e alla cintura di sicurezza, alternando la presa. In tutti i nostri viaggi in macchina ho immaginato come sarebbe stato tamponare la macchina davanti, catapultarmi dal parabrezza e atterrare da metri di distanza, con le ossa rotte e gli organi spappolati. O forse sarebbe stato Guido a sbalzare fuori, a morire. Avrei pianto.
Quando rientriamo in casa l’acquario interno è enorme. È uno di quegli acquari di lusso con le luci azzurrine e verdi che illuminano l’acqua di notte, proiettando sul muro ombre cangianti e dinamiche. Quando vedo la finestra del salotto ancora senza tende l’acqua strabocca anche dagli occhi e dalle sacche lacrimali.
Vado a farmi un bagno, dico a Guido.
Sei sicura che ce la fai?, mi chiede lui.
Annuisco, non riesco più a parlare. Sono un fiume in piena.
Guido aggiunge qualcosa, mentre cammino verso la camera, del tipo, domani non andrai mica a lavoro. Dico ok, poi sparisco dietro l’angolo della zona notte.
Quando entro in camera mi volto per vedere se il gatto è sul cuscino poi mi ricordo che è morto da un mese. Mentre l’acqua calda riempie la vasca del bagno che abbiamo in camera, mi spoglio lentamente. Faccio scivolare i vestiti sulla pelle, gratto via quella morta e mi guardo allo specchio, nuda.
I fianchi e il bacino sono larghi, l’ombelico stretto e buio e il seno un po’ calante.
Mentre l’acqua scorre mi tiro indietro la carne, mi appiattisco il ventre levigandolo con i palmi delle mani. Quando rilascio la pancia viene di nuovo in fuori ed è rossa in alcuni punti.
Mi immergo nella vasca e l’acquario che ho dentro si unisce finalmente a quello fuori, dentro le pareti bianche e schiumose.
Adesso l’acqua è bollente. Il vapore che si forma sopra la mia testa si raggruppa in nuvolette che spazzo via con un soffio, si attacca alle superfici lucide delle cose e ne confonde i confini. Sento le cosce e i piedi, finalmente, leggeri. Sono un acquario tropicale grande come tutta la vasca. Su di me crescono alghe lunghe e scure.
Fra l’ombelico e il seno ho una flora e una fauna personale con nuove specie di molluschi che non conosco. Quando abbasso la testa verso l’acqua e immergo le orecchie, dalla testa iniziano a spuntarmi pesci. Sono tutti diversi, hanno colori appariscenti e le pinne che si muovono veloci creano piccoli vortici. Le loro branchie si aprono e si chiudono al ritmo del mio cuore. Prendono tutto l’ossigeno che non trovo, lo tengono dentro e poi lo spingono via insieme a nuove particelle di acqua.
L’acquario si trasforma in un mare. Ci sono onde alte, con la schiuma in cima. Qualcuna mi inghiotte il viso, risucchiando il naso e la bocca. D’un tratto sono ricoperta da tronchi marci e sopra di me volano gabbiani. Stridono e si tuffano in picchiata a cercare qualcosa da mangiare. Mi beccano la carne, mi fanno male. Ci sono granchi e lumache marine. Mi fanno una colonia addosso, sul petto, intorno all’aureola dei capezzoli e tutto intorno alla vita. Mi mozzano il respiro, lo cerco dentro il petto. Ci sono anche le stelle marine, sul fondo, attaccate alla porcellana sabbiosa.
Mi immergo per toccarle, abbasso la testa sotto il livello dell’acqua. Le guance, gli zigomi e la punta del naso sono accolte in un calore pungente. Allungo le dita, verso le stelle, e il mare dentro e quello fuori diventano una cosa sola. Apro la bocca e inspiro.