Mia moglie mi crede una pianta e anche mia figlia lo crede. Sarebbe bello se dopo la morte ci toccasse un’eternità semplice come quella di una pianta: acqua, luce e nessun pensiero. Soltanto dopo essere morto come lo sono io, capisci che vivere è il passatempo più banale che ci sia.
Io da qui ho visto, senza vedere, le cose che avrei potuto fare e non ho fatto, ho assaggiato, senza mangiare, i cibi del mondo e ho amato, senza averle, tutte le donne che ho desiderato.
Qui non esistono peccati da espiare, il bene e il male sono in perfetta armonia tra loro e i sentimenti e ogni colpa sono nel Tutto, un unico grande pensiero fatto di milioni di pensieri. Qui le domande che mi facevo da vivo non contano più, ciò che conta è esserci stato, in vita, dico, nulla di più.
Ora ho capito che credere in Dio è l’unica salvezza per alleviare il dolore e accettare la paura più grande di tutte: la morte. La morte per chi muore non ha poi più tanta importanza, ma da qui è impossibile farlo comprendere a chi resta.
Mia moglie, per calmare il suo tormento e dare un senso al vuoto che ho lasciato, ha fatto di me una pianta, una splendida dracena marginata che lei cura come se curasse me ancora vivo.
Dopo la mia morte lei è caduta in uno stato di torpore emotivo peggiore di qualsiasi depressione. Io a volte le parlo, lei non può sentirmi eppure avverte la mia presenza e pare sollevata, anche se per poco. Anche io sento la loro mancanza ma la mia è una mancanza senza dolore, opalescente. A me basta evocare un ricordo e lo rivivo, senza rimpianti o pietà.
Ma la vera sorpresa è stata mia figlia. Dovevo morire per capire che persona straordinaria è il mio piccolo tesoro. Quando è sola in casa, si avvicina alla pianta – che poi sarei io, suo padre – e inizia a parlarmi come fa mia moglie di notte credendo di non essere ascoltata da nessuno. Mia figlia, invece, una notte l’ha vista parlare con me, cioè con la pianta che sta nell’angolo vicino al balcone della nostra camera da letto. Mia moglie ha messo questa bella pianta nell’angolo dove ho trascorso molto tempo del mio ultimo tempo.
La malattia mi impediva di uscire, troppo debole e troppi farmaci da ingurgitare. Me ne stavo seduto in quell’angolo a guardare la vita scorrere giù in strada, guardavo la gente andare, venire, correre, parlare al telefono. Quell’ultima estate dal mio angolo ho visto le cose più strane, anche una processione ci è passata sotto al nostro balcone. E quando lo raccontai a mia moglie, lei mi diede un bacio sulla fronte, senza rivelarmi la verità sulle assurdità delle mie visioni. Deve essere stato terribile per lei assistere al mio sgocciolare la vita giorno dopo giorno. Quanta sofferenza abbiamo sopportato insieme senza poter fare nulla se non addolcire l’aria e saldarci l’un l’altra in lunghissimi tardivi abbracci.
E mica lo sapevo che mia figlia fosse una gran chiacchierona. Da quando ha scoperto che sono una pianta, mi racconta della scuola, dei suoi compagni di classe e di quelle cose che i grandi, dice, non sanno capire. È un’adorabile bambina.
Una volta ha confessato che voleva portarmi a scuola per far vedere alla maestra che il suo papà non era morto ma si era trasformato in una pianta che la mamma bacia ogni notte. Senza parlare le ho fatto capire che non era una buona idea. Allora lei ha detto: «Ok papà, forse hai ragione, mi prenderebbero per una bambina pazzerella». È speciale, la mia piccola.
«Sai papà, oggi in classe è arrivato un nuovo bambino. La maestra ha detto che viene dalla Sicilia, si chiama Lillo. Lui però non parla. Non è che non sa parlare, è che ha smesso di farlo». Questo bambino la fa sentire triste: «Non so come spiegare, papà… Ecco, io lo guardo e mi vien da piangere». E con il dorso della mano si è asciugata due lacrime. Splendida e sensibile creatura.
Il segreto per una vita quantomeno accettabile stava proprio davanti ai miei occhi, ma da vivo ho preferito lamentarmi per il tempo sprecato, per la libertà perduta, per la sfortuna, l’insoddisfazione e bla bla bla. Sono stato un pessimo marito e un pessimo padre.
Solo ora ho capito che i bambini sono la risposta a ogni domanda. È a quell’età che si decide il futuro, se saremo un buon medico, un buon padre, una persona triste o allegra, buona o cattiva. Quei pochi anni di fanciullezza, quel lasso di tempo così breve non è altro che il dietro le quinte della vita futura. Poi il sipario si apre, la commedia inizia, gli attori vanno in scena e, nostro malgrado, diventiamo ciò che non siamo.
Io l’ho compreso soltanto ora, ascoltando le storie di mia figlia. Lei descrive ciò che vede, ciò che per lei è di una debordante semplicità. Lei non giudica, non ferisce, non cerca l’anello mancante o la parola fuori posto, lei è come potrebbe essere il mondo: un perenne giardino di ciliegi in fiore.
Qualche giorno fa mi ha parlato di Alice, una bambina molto bella. Tutti i maschietti della classe le stanno sempre vicino, ma lei non è gelosa perché Alice è davvero bella e non si può essere gelosi di qualcosa che è vero per davvero. Ma Alice si stanca presto di ogni cosa, anche delle amiche che poi tratta come giocattoli vecchi. «Secondo te, papà, perché si comporta così?»
Poi c’è Giulia, la bambina più triste della classe che scrive solo con una penna dall’inchiostro verde foresta. La piccola sostiene che il verde è l’unico colore che può vedere. Lei, dice, non ha mai visto un arcobaleno. La maestra sa cosa c’è dietro quella innocente bugia e la tollera. Anche io lo so. Povera Giulia. Quando scoprirà che non c’è nessuna foresta, che la sua mamma e il suo papà non sono mai andati in un paese tropicale per curare i bambini malati, odierà il mondo intero. Odierà chi non le ha permesso di piangere e far diventare sua, soltanto sua, la morte dei genitori. Anche la più terribile delle verità, ai bambini bisogna sempre dirla. Loro capiranno, perché sanno come difendersi, a volte meglio di noi adulti.
«Sai papà, Luca è proprio bravo», esordisce un pomeriggio mia figlia. Credo abbia una cotta per lui perché, quando ne parla, le gambe iniziano a dondolare e formano dei cerchi nel vuoto tra la sedia e il pavimento. Luca è il bambino che racconta ai compagni di classe le fantastiche fiabe che il papà gli legge ogni sera.
Quando racconta dei dispetti di Diegarmando, invece, si arrabbia: «Quel bambino dovrebbe stare in una gabbia con i leoni. No, sai che ti dico, forse anche i leoni avrebbero paura di lui». È vero, quel bambino ne combina di tutti i colori. Ora ha un insegnante soltanto per contenere la sua esuberante richiesta di aiuto che nessuno ascolta.
E poi c’è Sara. Vive in una casa famiglia e aspetta un’adozione che non arriva. «Presto avrà una mamma tutta sua perché ha visto una stella cadente e ha espresso il desiderio. Se si parla con le stelle, loro ti ascoltano, vero, papà?»
Mettiamo al mondo dei figli inconsapevoli dell’ingiustizia che saranno costretti a sopportare. Mettiamo al mondo dei figli credendo che noi saremo i migliori genitori, che la nostra minuscola famiglia sarà quella perfetta, immune dalla catastrofe, ma non è così.
Oggi è tornata da scuola. Dalla biscottiera di ceramica sul tavolo della cucina ha preso dei biscotti, s’è seduta accanto alla pianta, cioè a me, ed è rimasta in silenzio. Sgranocchiava i biscotti a piccoli morsi. Per alcune ore è stata al mio fianco, ovvero al fianco della pianta, senza dire una parola. Fissava i vetri della portafinestra come facevo io quando ancora avevo occhi per farlo. Ogni tanto si sollevava dalla sedia per vedere il via vai della gente in strada.
«Sai papà, questa mattina la maestra, che secondo me era un po’ triste perché lo dicevano i suoi occhi, ci ha assegnato un compito in classe, un tema libero. Per fare un tema libero, ci ha spiegato con una voce mogia mogia, bisogna usare la fantasia e scrivere una storia inventata, o quasi inventata, che sembra un poco vera, un poco no. Hai capito? Insomma, io ho pensato a quello che dice sempre la zia, che “io ho tanta tanta fantasia”. Allora ho scritto di te che sei diventato una pianta. Il tema l’ho scritto sul quaderno. Te lo posso leggere?» Senza aspettare la mia risposta, è uscita dalla camera da letto, improvvisamente allegra. È ritornata saltellando, s’è sistemata la gonna, ha passato una mano sui lunghi capelli, ha verificato che i piedi fossero perfettamente uniti tra loro, e così in ordine, dritta davanti alla pianta, ha aspettato un cenno. Poi il sipario lentamente si è aperto e ha iniziato a leggere.
Il mio papà è una pianta
Il mio papà è una pianta, cioè lui non è stato sempre una pianta ma si è trasformato in una pianta dopo che è volato in cielo. Adesso il mio papà che è una pianta sta in un angolo della camera da letto. In quell’angolo l’ha messo la mamma quando papà è andato in cielo a stare con gli angeli e con nonno Pasquale. Lo scorso dicembre la mamma e le zie hanno pianto parecchio. Quel giorno la mamma non si è nemmeno truccata. A lei piaceva truccarsi anche quando era in casa: un filo di trucco e un filo di tacco, diceva sempre. La mamma era un tipo allegro, anche se dal giorno che papà è volato dal nonno non è stata più tanto allegra. Ora sorride poco anche quando da scuola le porto dei buoni voti. Passerà, mi ha detto zia Titta, dobbiamo aspettare che il dolore trovi un posticino tutto suo. Io mi fido di zia Titta, però questa cosa del posticino forse non è una cosa per bambini, perciò non la capisco.
Mio padre è diventato una pianta dalle foglie verdi, sottili e lunghe, e sta nell’angolo vicino al balcone. In quell’angolo lui ci passava molto tempo perché era malato e non poteva più uscire. Non andava nemmeno al lavoro, però ci andava la mamma al posto suo. Mi piace guardare fuori, mi diceva, da qui posso vederti quando vai a scuola e posso guardare la mamma quando torna a casa. È un bel posto, sai?, mi diceva il mio papà, non la pianta.
Adesso, al posto di papà la mamma ci ha messo una pianta e lei ci parla con quella pianta. Io la sento di notte. Si alza dal letto e si siede accanto alla pianta. Non so cosa dice, ma piange.
A volte, quando torno da scuola e sono da sola in casa, anche io prendo una sedia e mi metto vicino alla pianta nell’angolo della camera da letto e guardo giù in strada come faceva il mio papà. Anche io come la mamma ho iniziato a parlare con la pianta, cioè con papà. Racconto a papà, cioè alla pianta, quello che faccio a scuola, i compiti che devo fare, e confido a lui le cose stupidine, cose da bambini che i grandi non sanno ascoltare. Mi piace molto stare lì perché sento meno la mancanza di papà che è volato in cielo a stare con gli angeli e con nonno Pasquale.
La mamma si prende cura della pianta, la innaffia, lucida le foglie, smuove il terriccio e ci mette dentro dei sassolini. Io non so a cosa servono quei sassolini dentro al vaso della pianta che è il mio papà, ma lei dice che è un segreto e che da grande capirò. I grandi fanno cose strane. La mia mamma ora sorride solo quando è vicina alla pianta, cioè al mio papà.
Penso che quando leggerò questo tema alla pianta, cioè al mio papà, lui ne sarà contento e lo sarà anche la mamma, e forse non piangerà. Mi stringerà forte e mi porterà a prendere un gelato di pistacchio e nocciola, come piace a me e come piaceva al mio papà prima che diventasse una pianta.
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