L’uomo che odiava i cani

«La bellezza salverà il mondo, diceva quello, ma la bellezza, e quindi il mondo, sono morti non appena si è cominciato a trattare le persone come cani e i cani come persone».


Così borbottava, per conto suo, perché ormai nessuno gli dava più retta, il giovane vecchio Abele Fogna, aspirante cineasta indipendente, fallito ma finanziato, ovvero mantenuto, dai suoi.
«Dalla notte dei tempi», si pontificava addosso, «non c’è mai stata un’epoca come la nostra in cui gli uomini siano stati così miserabili, randagi, affamati, messi in ginocchio, e i cani tanto protetti, grassocci, inoperosi e vezzeggiati. Gli uomini sono i nuovi cani e i cani i nuovi uomini.
«Un adorabile cucciolo smarrito, col pelo arruffato e gli occhioni intelligenti, lo si adotta subito, mentre un mendicante, seduto sui propri escrementi secchi a elemosinare, nel migliore dei casi lo si ignora, nel peggiore lo si prende a calci, e può persino capitare che gli si dia fuoco, così, tanto per accendere la serata».
Appurato che quella tra popolo e branco canino fosse comunque una lotta tra ultimi, tra vittime, a Abele Fogna tutto questo faceva lo stesso eticamente schifo.

I dottori del cranio a cui aveva sottoposto il suo pensiero cinofobico, talvolta addirittura cinocida, gli avevano obiettato che i cani non potevano essere davvero odiati, perché erano creature infinitamente buone e docili, schiavizzate biologicamente dall’uomo con la scusa, falsa, dell’amicizia, e quindi quella sua ingiustificata avversione era per forza il sintomo di un profondo turbamento psichico. Insomma, come nelle teorie complottiste, c’era sotto qualcosa.
E in effetti la verità sulla sua cinofobia, che non aveva mai rivelato a nessuno, ma di cui tutti i suoi più cari e insinceri amici sparlavano alle sue spalle, aveva i capelli scuri e profumati, il sorriso calmo e i due piccoli nei sulla guancia sinistra di Chiara Tortelloni, suo primo, sempre fallito e dunque ultimo amore.
Lui l’aveva amata da quando, in quarta ginnasio, un pomeriggio di cogestione, era venuta, anzi era apparsa, alla sua proiezione di Eraserhead di David Lynch, unica spettatrice oltre agli organizzatori e a un paio di coppiette che cercavano solo un po’ di buio per grattarsi a vicenda i genitali quindicenni.
Lei, negli anni, pur tenendoselo come amico strano, aveva amato gli altri – il ripetente in eskimo, il gucciniano menestrello, e in seguito, all’università, il superbo attore carmelobeniano, il nietzschiano violento –, ma il suo unico amore, al quale rimaneva devota nonostante le veniali cotte, era uno splendido pastore scozzese a pelo lungo, ramato e bianco, di nome Sir Arthur Conan Doyle, per gli amici Arthur Conan Doyle, e per i nemici, ovvero Abele, solo e tassativamente Sir.
Piccolo e sudaticcio, capelli lunghi da donna ma trascurati come quelli di un uomo, verdi occhi vinti su montatura comprata in edicola, Abele Fogna non era bello e nemmeno un brutto che piace, aveva in sé qualcosa d’infantile e al tempo stesso di vecchio, ma nulla di maturo.
Il suo rivale invece, Sir Arthur Conan Doyle, era robusto e splendente come un sole agostano, era regale, vanitoso e studiatamente malinconico, e pur essendo un cane, aveva i modi del gatto: non cercava, era cercato, non marcava il territorio, regnava.
Nessuno dei due aveva un lavoro, ma mentre Abele Fogna era continuamente criticato e spinto a farsi friggitore di patatine all’autogrill, il cane non doveva dimostrare niente, era mantenuto e nessuno glielo faceva notare. Viveva, sazio e monarchico, come un Luigi XIV, in un intimissimo bilocale di città insieme a Chiara Tortelloni e ad altre due dolci, e spesso nude, coinquiline, che se lo contendevano per portarselo a letto con la scusa del freddo ai piedi.
Abele Fogna odiava dunque i cani per risentimento, per darwiniana selezione sessuale: se era troppo tardi per essere un uomo, voleva almeno essere all’altezza, quadrupede, di un cane, il cane, fedele e amato, di Chiara Tortelloni.

Il suo odio per i cani crebbe, se possibile, ancora di più quando la pandemia mondiale d’influenza assassina costrinse i governi di tutto il mondo, da Mumbai a Reykjavík, dal Cairo a dove stava lui, borgo sperduto tra nebbia, autostrade e concime, a ricorrere al metodo, medievale ma pur sempre efficace, della quarantena, ovvero dell’autoarresto domiciliare, trasgredibile soltanto per comprovate necessità d’ordine capitalistico superiore, cioè il lavoro e la spesa, o per brevi e circolari passeggiate da penitenziario intorno al quartiere, a un massimo di duecentocinquanta metri dall’ingresso della propria abitazione, millimetro più millimetro meno.
Ma la massima umiliazione, nonché prova empirica definitiva delle sue improbabili tesi di sostituzione di specie e di rovesciamento gerarchico tra uomini e cani, era che le persone non potevano uscire liberamente, mentre i cani, impuniti defecatori liberi, erano autorizzati a farlo, anche due, tre, quattro volte al giorno, scortati dai loro fedeli padroni, per urinare l’erba e/o imburrarla di palta organica.
Privo di un impiego e quindi non autorizzato a lasciare la casa dei suoi, Abele Fogna cominciò a respingere quel che era sempre stato il suo humus esistenziale: la solitudine, il diritto all’autosepoltura da vivo. Ora che gli veniva imposto dal detestato governo demodittatoriale, il suo non era più isolamento misantropico, ma sequestro, detenzione, e questo pensiero, in moto circolare e paranoico, gli inquinava il quotidiano, recideva i nessi del ragionamento complesso, impedendogli così di concentrarsi sui film e sulle ottime cattive letture.
Il principio di realtà, o se vogliamo il fracasso della storia, di cui fino a quel momento la sua generazione aveva fatto digitalmente a meno, ora lo colpiva in pieno, svegliandolo dal suo ottundimento multimediale. Si convinse che era giunto il momento di darsi, come Levi, come Solženicyn, alla testimonianza. Non solo sarebbe uscito abusivamente ogni sera, come forma di protesta passiva verso quegli ordinamenti filocanini e dunque inumani, ma avrebbe portato con sé anche la sua macchina da presa, ossia il telefono, per girare un documentario, etico e insieme estetico, una sorta di cinéma vérité.

Intorno alle ventuno, dopo un pasto leggero a base di bistecca al burro, purè liofilizzato e litigi coi genitori, usciva col suo piumino nero, lo scaldacollo nero e la berretta nera nella notte nera, e filmava.
Filmava la chiesa, il campanile, la farmacia, la scuola elementare, la biblioteca, tutti gli gnomici e pittoreschi epicentri della vita paesana. Filmava e si riconciliava con quel territorio, perché, svuotato dei suoi abitanti, lo percepiva alieno, occulto, e quindi, in un certo senso, pseudoartistico, come i vespasiani di Pompei o i sassi materani.
Filmava gli scoiattoli che liberi dal colonialismo ecologico umano esploravano i cortili dei padiglioni chiusi, filmava il cemento illuminato a vuoto delle superstrade, le luci mute delle autoambulanze, filmava le scritte orwelliane, che minacciavano il passante criminale con sentenze tautologiche come «Se stai leggendo questo messaggio vuol dire che non sei in casa».
Ma alla seconda settimana di riprese, mentre tornava da una passeggiata nei campi, a pochi metri dal sottopassaggio che separava un borgo da un altro borgo identico, sul suo cammino si parò, come l’abominevole pesce lanterna davanti al pesciolino rosso, una volante dei carabinieri, con tutti i fari accesi, non per far luce, ma per fare scena, possibilmente del crimine.
A bordo ridevano, scherzavano e perseguitavano, due indomiti difensori del bene comunale: Giovanna Chiesa, stagista precaria e dunque buona come il pane, e come il pane piena di mollica, ovvero di tessuto flaccido asportabile, ma soprattutto Gennaro Cupo, nano culturista, ben recensito dalla gazzetta parrocchiale perché conclamato castigatore e sgombratore di migranti.
«Perché è in giro lei? Dove abita? Non lo sa che è vietato allontanarsi dall’abitazione per più di duecentocinquanta metri?»
Essendo un anarcoide, passato in pochi anni dal comunismo al nichilismo e all’estinzionismo, Abele Fogna diede una risposta troppo lunga per essere vera e troppo intelligente per non essere una giustificazione.
Sosteneva di aver interpretato quel molto vago «nei pressi dell’abitazione» come un più ragionevole «all’interno del proprio comune», e in effetti nel comune lui c’era rimasto, anche se sembrava esserci appena rientrato.
Detto questo, era abbastanza ovvio che il divieto di camminare all’aperto fosse una restrizione perlomeno controversa. Intanto non ci si poteva contagiare camminando da soli, e inoltre, se tutti fossero usciti a fare due passi rispettando scrupolosamente quei duecentocinquanta metri, ci sarebbero state folle di passeggiatori sotto casa, e quindi sarebbe stato comunque meglio distanziarsi un poco.
Ancora, l’atto di mettere una multa era, per assurdo, molto più pericoloso a livello sanitario di quanto non lo fosse il gironzolare per conto proprio ad arieggiare le cervella. A suo antipolitico parere, quella pseudonorma aveva l’unico scopo, comprensibile ma ingiusto, d’eleggere un capro espiatorio mediatico, dando l’impressione di star lavorando alla soluzione di un problema in realtà troppo complesso e inedito per legiferarci su, soprattutto in così poco tempo.
Abele Fogna provò a dire questo e altro al nano culturista, il solo a parlare mentre la stagista cercava sfiziose ricette sul tablet, ma gli vennero fuori deliri balbuzienti e anarcoidi. Tra loro c’era come una parete comunicativa.
Da una parte Abele Fogna, omuncolo tutta teoria e niente pratica, parlava sottovoce e con lessico colto ma antiquato, un po’ giurisprudenziale e un po’ tecnico scientifico, masticando le parole, troncandole e completandole con tic nervosi e bestemmie. Dall’altra Gennaro Cupo, nano risentito, meridionale perseguitato, aveva messo la divisa per vendetta sociale e voglia d’armi e pensava che qualunque parola al di fuori del «Sì Signore» fosse un insulto o, ancora peggio, un’allusione alla sua bassezza.
«Come si chiama lei?
«Mi dia il suo numero di telefono.
«E ora l’indirizzo di casa».
A ogni domanda Abele Fogna pontificava, ma alla fine forniva sempre l’informazione richiesta, il tutto senza mascherina.
«Bene. Ora la accompagneremo a casa sua per verificare che non abbia mentito sul domicilio, entrerà a prendere un documento e lì completeremo il verbale. Proceda a piedi e noi la seguiamo».
Pensò di fuggire nei campi, ma subito s’immaginò inseguito e placcato, con le guance premute sulle zolle di sterco e ghiaccio, e allora crollò, a livello emotivo e poi vertebrale, lasciandosi cadere sull’asfalto.
«Perché i cani sì e io no?» gemeva e piangeva, «perché i cani sempre sì e io no? Io sempre no e loro sì? Anche io voglio essere un cane. Che c’è? Non posso? Mi dichiaro cane. Da questo momento in poi io sono un cane. Voglio pisciare libero come un cane, cagare come un cane, essere amato come un cane!»
E dopo quell’invettiva ultima, convertì il verbo in verso, e come lupus in fabula, nemmeno tanto bene cominciò ad abbaiare.
«Wof wof».
«Si alzi da lì! Non lo vede che si rende soltanto ridicolo? È per colpa di irresponsabili come lei che le terapie intensive sono piene. È per gente come lei che l’Italia va a rotoli».
«Wof wof».
«Si alzi! Non le hanno insegnato l’educazione? La avverto che se non la smette sarò costretto a chiamare i miei colleghi e a portarla in caserma. Veda lei. È avvisato».
Appena Gennaro Cupo accennò ad aprire la portiera, Abele Fogna si spaventò, perché verso i maschi, anche nani, aveva sempre avuto il complesso d’inferiorità atletico, e sebbene con lo spirito, o quello che è, fosse già sottoterra, molto lentamente riuscì a ritrovare il bipedismo dell’uomo vivente e s’incamminò, muto, vuoto e vinto, verso casa. Dietro, a passo di funerale, l’automobile lo seguiva, in una sorta di via crucis cristologica, illuminando il paesello con le scenografiche luci blu, tanto che le persone si affacciavano alla finestra, i cani abbaiavano e tutti gli davano la colpa di tutto.
E mentre Gennaro Cupo, al caldo artificiale del climatizzatore, compilava il verbale una sillaba al minuto, perché tutto il vicinato potesse vedere bene chi era l’untore, e fotografarlo ed esporlo, come scherzo della natura, sui profili virtuali, Abele Fogna aspettava fuori, al gelo penitenziale, e se non si era preso il virus parlando coi carabinieri, di sicuro si sarebbe portato a casa, oltre alla multa, una più che rispettabile ipotermia.
Con mani, piedi e mignolo penico in necrosi, si piegava in avanti e poggiava i gomiti sul finestrino, aperto a metà, assumendo, senza accorgersene, mentre tutti gli altri invece sì, la posizione a culo in alto e petto in basso della zoccola in trattativa.
Pensava ad Auschwitz, ai Gulag e alla scuola concentrazionaria dell’obbligo e capiva che il male non era altro che pirlismo del bene, una sorta di belante immunità di gregge contro l’intelligenza, ma più delle autospiegazioni colte e del sollievo di sentirsi inutilmente acuto, Abele Fogna era alla ricerca di un pensiero caldo a cui stringersi forte, come il bambino, o il malcresciuto, all’orsacchiotto, un motivo per il quale valesse ancora la pena di penare, e quel motivo non poteva che essere lei, Chiara Tortelloni.

L’agosto della maturità classica alcuni amici dello stesso anno si ritrovavano, in memoria del passato prossimo, alle proiezioni serali del cosiddetto cinema all’aperto, un cortile ciottoloso di un palazzo novecentesco, allestito con sedie zoppe in plastica scivolosa e chiosco carissimo di popcorn raffermi. Si proiettavano film arthouse, d’essai, esistenzialisti, multiculturalisti, impegnati a impegnarsi, insomma film da vedere per poter dire di averli visti.
In quella compagnia di bellezze umanistiche, di occhialuti usciti col cento, di capelloni usciti col sessanta e di fattoni usciti di testa, futuri normalisti e bocconiani che dopo cinque anni di conflitto bellico liceale volevano godersi un ultimo torrido agosto d’immaturità, bruciando i manuali, scopando pansessualmente e andando in pellegrinaggio casinista a Santiago de Compostela, il misantropo Abele Fogna c’era entrato solo ed esclusivamente per parlare con Chiara Tortelloni, ma dovendo sgomitare aveva sempre fatto, come Buster Keaton, scena muta.
Una sera però, alla non attesissima proiezione di Satantango, eutanasico capolavoro di Béla Tarr del 1994, sette ore e mezza di bianco e nero, steppa sovietica e silenzio di dio, praticamente tutti avevano dato buca, dichiarandosi malati, ustionati, saettati, dispersi e sommersi, tutti tranne lui, cinefilo, e la Tortelloni, cinofila, che aveva portato, come cavaliere, l’avversario erotico di Fogna, il divin quadrupede dal pelo fiammeggiante, Sir Arthur Conan Doyle.
Il cane, più nervoso del solito, sin dai titoli di testa in cirillico, fiutando forse l’imminente tortura, aveva ringhiato e abbaiato ribellandosi allo schermo come i primi spettatori di fronte al treno dei Lumière, tanto che la sua servile padrona era stata costretta a portarlo fuori, guinzagliandolo premurosamente a un palo.
Lei, più incline al cinema lieve di Godard, dopo aver saputo che il film sarebbe durato così tanto, aveva sbuffato un po’, ma era rimasta, per conformismo culturale, e durante il primo tempo aveva cafonescamente inviato messaggi e cosiddette faccine alle amiche assenti, riso quando c’era da piangere, pianto quando c’era da ridere. Infine, alla terza ora di neve bagnata e dialoghi in ungherese rurale, aveva chiesto ad Abele di darle la felpa, ovvero di denudarsi per lei, l’aveva ripiegata in quattro e senza chiedergli il permesso lo aveva cuscinato, ovvero convertito in guanciale del guanciale, facendo bivacco abusivo sul suo corpo obbediente.
E in quella notte agostana, mentre tutti, tranne i giovani bigliettai, pagati a coni gelato e visioni gratis, se ne tornavano a casa, brontolando recensioni del tipo «io per me non ci ho capito niente», «è una cagata pazzesca» e «va bene l’avanguardia, ma c’è gente che domani deve andare a lavorare», Abele Fogna rimase lì seduto, immerso nei fumi lucenti della settima arte, come un feto beato perché non ancora venuto al mondo.
A eccezione della vista che, per paura, s’ostinava a dar retta allo schermo, tutti gli altri sensi erano rivolti, in tensione pornomistica, alla Tortelloni. Percepiva, sulla pelle pelosa, il suo respiro da colomba che nel sonno s’era fatto più simile a quello di un ippopotamo asmatico, mentre sotto la gonnellina plissettata, come il tossico la coca, cercava di sniffare il profumo inventato di quella robina là, la prova ateistica dell’esistenza del bene.
Quello era stato il momento più felice della sua vita, con il cinema davanti a sé, la Tortelloni che lo oggettificava padellandogli di bava inconscia la maglietta e l’odiato Sir Arthur Conan Doyle fuori, sconfitto e abbaiante alla luna.
Alle quattro del mattino lei si sarebbe svegliata e gli avrebbe chiesto, senza punto interrogativo finale, di accompagnarla a casa, perché non si sa mai chi può esserci in giro, e lui, lungo tutto il tragitto, avrebbe schivato acrobaticamente i morsi letali di Sir Arthur Conan Doyle, guadagnandosi così, come premio al miglior cane fedele del giorno, un politico doppio bacio asciutto sulle guance, quello che proprio non si nega a nessuno, amici, nemici e persino parenti.
A partire dal giorno dopo si sarebbero praticamente persi di vista, Abele Fogna avrebbe sbagliato tutto quello che poteva sbagliare, procrastinando l’iscrizione all’università e lanciandosi nel sogno non lucido del cinema, senza avere alcun talento artistico o sociale, e la Tortelloni, emancipata di fresco, finalmente proprietaria del suo futuro, si sarebbe laureata in magistrale in soli tre anni, avrebbe lasciato il borgo e si sarebbe fatta cittadina e irraggiungibile.

Eppure quella notte era esistita, pensava Abele Fogna, mentre il gelo gli toglieva persino il diritto liquido di farsela addosso e i carabinieri, nel consegnargli la multa di quattrocento euro, gli lasciavano, per deriderlo, la penna come ricordo. La notte d’agosto in cui Chiara Tortelloni, il suo sogno, gli aveva russato addosso era esistita e mai nessuno avrebbe potuto scipparla dalla sua mente, né con le botte né con le leggi speciali, ovvero di specie.
E anche solo come cartina neutra di quel lontano profumo di paradiso erotico, la sua vita, non di cane ma da cane, era forse, ancora per un po’, parzialmente giustificata.

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