Di quell’azzurro

La stanza è un buco pulito arredato con un letto, un armadio e una scrivania. La donna è bionda, minuta, occhiali bifocali, seduta sull’unica sedia, lo sguardo fisso su un taccuino.

L’indirizzo l’ho trovato su Google, viale Gran Sasso 1. Mi guarda appena quando siedo sul letto, mi libero dalla borsa, mi sfilo il cappotto. Si sieda, dice forse non avendo messo a fuoco che l’ho già fatto. Mi dica perché è qui, continua senza far caso al fatto che io abbia tirato fuori dalla borsa il pacchetto e mi sia accesa la prima. Anoressia, bulimia, entrambe? Va avanti col suo protocollo.

In effetti c’era scritto sulla targa che era specializzata in disturbi alimentari. Il primo tiro lo do lungo, questa è scema, penso, ora mi alzo e me ne vado, anzi, glielo dico, mi alzo e me ne vado, almeno finisco la sigaretta. Mi avevano detto che era adleriana, all’inizio non avevo dato troppo peso alla cosa, poi era stato quel dettaglio a convincermi. Sempre ammirato quelli che sanno staccarsi, imboccare una strada che non sia la maestra, sempre stimato le vere femministe. Nessuna invidia del pene. Sposta gli occhiali sul naso: una piccola inesattezza a metà strada è forse l’unica cosa interessante di questa donna. Butto fuori il fumo, le do una possibilità per via del naso deviato. Amo uno, le dico. Lei si toglie gli occhiali e mi guarda con quello stupore rassegnato che devono avere le adleriane a un’affermazione di una tale banalità. È come guarderà il marito stasera quando le dirà, Che fame, o le figlie, se ha figlie, quando le mostreranno sul telefonino un paio di scarpe improbabili. Senza nessuna compassione. Che non ne provi per loro poco mi frega, ma la mia frase, per me, la meriterebbe, non è che si ama così, la faccenda genera turbamenti, tribolazioni, conseguenze di ogni sorta. E poi, per Dio, la sto pagando. Scrive qualcosa per un tempo che non corrisponde alla brevità della mia affermazione, do un altro tiro.

Nella mia testa ho già deciso che non ci sono chance tra noi due, in parte per quegli occhiali bifocali – Cristo, non ha mica cent’anni! dovrebbe essere sulla cinquantina – in parte per quello sguardo vuoto che hanno alcuni occhi azzurri quando non sono pieni di senso, non so se avete presente la differenza – occhi azzurri vacui versus occhi azzurri che ti trapassano l’anima – in parte per l’assenza di una reazione empatica al mio dolore.

La cenere la lascio cadere sul suo divanetto in ciniglia, la donna non fa un plissé, so che sta scrivendo anche questo desumendone cose sulla mia personalità che, poveretta, con la mia personalità hanno poco a che fare. E dunque, riprende, è venuta qui solo perché ama uno? È proprio una stronza, si vede che le è costato fatica separarsi dal padre, da Freud, e da tutti gli altri uomini della sua vita. Rassegnarsi al marito. Abbasso lo sguardo sui suoi mocassini, un centimetro massimo due di tacco, in gomma, risalgo sui pantaloni a sigaretta blu in lycra, Zara, no Zara è troppo, H&M o qualcosa di peggio. Accavallo le gambe, fingo interesse per i miei jeans da boh, qualcosa che vale il doppio, forse il triplo di questa seduta. Lei continua a scrivere, ostinata. Come mai è adleriana? mi scappa. Lei risponde sempre a una domanda con un’altra domanda? chiede senza sollevare lo sguardo dal taccuino. Ora glielo prendo e lo butto dalla finestra. Mi rendo conto solo adesso che non ce ne sono, siamo in un seminterrato. Mi sono infilata in un buco senza finestre, questa ha meno cervello di me e la pago anche, avrei potuto comprarmi una maglietta aderente, una piega da un tizio che sa cosa deve fare coi capelli di una donna o un sushi per due, forse. No, rispondo, mi viene da farlo solo quando dall’altra parte c’è una che non sembra reagire adeguatamente agli stimoli, lei è per caso già morta? Non dovevo bere prima di entrare, è colpa di quel bar all’angolo che fa ancora asporto, chissà quando chiude.

Si toglie i bifocali, li appoggia con una lentezza che dovrebbe comunicare pazienza e invece trasuda tutta l’esasperazione e lo sfinimento di una che ha ascoltato troppe ore i problemi di altri quando a casa ha delle grane peggiori. Il marito la tradisce, sicuro, ha iniziato presto – lei troppo cervello anche se per me non abbastanza, troppo lavoro, poche tette, nessuna voglia di scopare la sera e men che meno di fingere di averne – le figlie non studiano quanto vorrebbe, non si impegnano, si vestono come troie, come me, si fanno i selfie anziché leggere oppure, peggio, si fanno i selfie fingendo di leggere. Mi dica di questo uno, dice. Spengo il mozzicone nel bicchiere di plastica vuoto con cui sono entrata. Le mani, dico, non riesco a dimenticarle, anzi, preciso, non le mani, le vene sulle mani, e nemmeno gli occhi, azzurri, ma non quell’azzurro vacuo, privo di senso, quell’altro azzurro. Quale altro? fa lei riprendendo il taccuino. Quell’azzurro degli azzurri che hanno la profondità degli occhi neri, ha presente? Quell’azzurro che forse non è corretto definire azzurro, forse grigio è più esatto, o addirittura, delle volte, giallo, come di giada. Di giada, ripete mentre scrive e io sento che non mi sta capendo, che quegli occhi lì non li ha mai visti, quindi è inutile stare a parlarne, sto perdendo tempo, buttando via soldi, sul taccuino starà scrivendo la lista della spesa: yogurt magro e cereali per le ragazze, che stanno ingrassando, il vino che è finito e anche a lei la sera un bicchiere serve, ingredienti per una carbonara da fare al marito che ai carboidrati non rinuncia anche se ha messo su qualche chilo di troppo. Più di qualche, troppi, ecco perché non le fa più voglia. Forse anche lei ha degli occhi e delle mani piene di vene a cui pensare, è la prima volta da che sono entrata che l’idea mi sfiora. Sorrido e me ne accendo un’altra. Lei non lo ama, vero? Lo ha amato, anzi ha creduto di amarlo, all’inizio, perché era belloccio e simpatico, la faceva sorridere – alle donne è una cosa che piace – poi pian piano si è infilata nelle menti degli altri, capito troppo della vita mentre lui ancora lì con la carbonara e il Tavernello, ha iniziato a scrivere liste della spesa sul taccuino e dopo di me, l’ultimo appuntamento, vedrà quello che ama davvero per pochi minuti prima di entrare di corsa alla Coop. Mi dica che è così, faccio mentre butto fuori il fumo. Non è così, risponde, ma se vuole, se la cosa la rassicura o la diverte, posso mentire per lei. Davvero può farlo? Non viola nessun giuramento? No, mi dice, gli occhi azzurri né vacui né acuti fermi nei miei. Peccato, ci rivedremo? Lei stacca una pagina dal taccuino con una rapidità che non sembrava appartenerle, e me l’allunga. È un mio ritratto piuttosto ben fatto – sono seduta sghemba sul suo divano letto in ciniglia, le gambe sottili strette nei jeans, in mano la sigaretta e il bicchiere di plastica – con delle frecce che portano a parole scritte in stampatello: mani, vene, giada, tradimento. Non ho nessun amante, puntualizza, solo la Coop. Prendo il foglio, lo piego in quattro e lo infilo nella tasca dei jeans, mi rimetto il cappotto, recupero la borsa. Cosa le devo? Lei fa un cenno breve con la mano come a dire che non ne vale la pena, o forse che non si faceva una risata da tempo, o che stanotte scoperà col marito. Chissà.

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