Area 99+

Un giorno avverrà la prossima grande migrazione,
in cui lasceremo questa esistenza per cercarne un’altra.
Il viaggio ricomincerà da capo.
Profezia dell’area cinque

I

Sono il laser sinestetico che si infrange sui virus in avvicinamento, causandone la deflagrazione in lapilli di codice alla deriva tra luci stroboscopiche. Sono lo sparo sempre a tempo con la techno per effetto della quantizzazione, e il feto astrale in grafica wireframe che percorre l’universo nella posizione bakasana. Galleggio sospinto da binari invisibili, puntando il mirino sui nemici per poi vederli scomparire. È facile: identifico i loro schemi di movimento e li abbatto prima che i loro missili possano raggiungermi. Ogni sparo contribuisce all’armonia del cosmo di cui sono il protagonista, colui che tutto ha acceso e intorno a cui tutto si muove.
In un tempo prima del tempo esisteva uno schermo, inerte e proteiforme come gli incubi più segreti, e al di là dello schermo texture dettagliatissime riprodotte sulle facce di miliardi di modelli poligonali. Affrontavo la partita con impegno e concentrazione, ma non avevo alcuna speranza di vittoria: il gioco era un ibrido disastroso tra walking simulator e gestionale, con elementi RPG e un’incomprensibile e frustrante meccanica permadeath.
Tutto risponde a un ordine semplice e prevedibile: sparo a tempo di musica techno, accumulo punti, mi evolvo. Nato fragile sfera pulsante, ora, centinaia di trasformazioni a seguire, migro verso l’illuminazione come feto astrale nella posizione bakasana.

Detona un firewall infetto. I suoi nodi luminosi bruciano, innescati dalle traiettorie arcobaleno dei miei laser. Fuggono stormi di rondini stilizzate: ci sono e non ci sono più, svanite nell’abisso che si estende oltre i confini del mio campo visivo. A seguirle, un drone monocolo vola tenendo tra gli artigli l’apertura di rete per uno strato più profondo dell’esistenza.
Prendo la mira.
Colpisco.
Drone abbattuto.
Prendo la mira.
Colpisco otto volte, come esige il rituale.
L’apertura implode in un prisma e tutto diventa bianco.
Dal bianco emerge la scenografia bicroma – cobalto e grigio acciaio – di una città sotto la neve. Una cupola a base quadrata si assottiglia in una lunga guglia che trafigge il cielo, plumbeo e pesante e invernale. Sparo a navicelle poliedriche e dopo che sono distrutte continuo a sparare, i colpi a vuoto come battiti di mani robotiche – a tempo, sempre a tempo con la musica.
Qui, nell’area 99+, dove lontana è l’illuminazione.

Sorvolo un fiume in cui nuotano nutrie al neon e androidi vogano su imbarcazioni da canottaggio. Mentre cancello i simulacri di roditori e di uomini, mi domando, in sottotraccia rispetto al gesto purificatore dell’annientamento, dove condurranno questa volta i binari invisibili. Tutto diventa chiaro quando il mondo si spegne. Per un istante mi inabisso nel vuoto, nero e amniotico e ospitale. Esisto solo perché la grancassa continua a battere in quattro quarti fuori di me, dentro di me, facendomi vibrare. Poi dal buio si materializza un testo sacro scritto in linguaggio di programmazione, divampa una supernova lisergica e l’universo riprende forma: come lanciati da un giavellottista cosmico, affiorano nello spazio scaffali infiniti, pieni di libri.
So dove sono.
So cosa dovrò affrontare.
La musica cambia. Percussioni incalzanti preparano la cavalcata di un synth oscuro e aggressivo.
Il boss di fine area accelera nella mia direzione spingendo una sedia a rotelle che lampeggia, lampeggia, lampeggia a ogni spinta, e quasi mi lascio colpire da un raggio uscito dalla sua bocca sdentata di automa male in arnese. Non posso permetterlo. Ciascun attacco subito equivarrebbe a un salto indietro nell’evoluzione: da feto astrale nella posizione bakasana a bosatsu compassionevole dalle mille mani giunte a sciamano beat irrorato di dimetiltriptammina e via discorrendo, un piolo alla volta giù per la scala evolutiva fino alla fragile sfera pulsante.
Ma nell’intreccio delle note, la voce di un profeta senza nome canta con timbro da basso: The rythm is the master. E ripete: The master. Rapido, devio il raggio percussivo con il mio laser, preservando la condizione di feto astrale. Sono nuovamente nel flow. Colpisco i punti deboli del boss: le maniglie luminose del suo trono da malato; il boss attraversa le quattro dimensioni nel tentativo di schermarsi e il ritmo dei suoi attacchi aumenta, ma: The rythm is the master: io sono il maestro e quindi il ritmo stesso. Continuo a sparare in perfetta armonia con il battere della grancassa finché la sedia si disintegra in uno scoppio di pixel e la barra della vita del boss, ben visibile all’orizzonte, scende a metà.
Nel tempo prima del tempo, la sedia ospitava il padrone della libreria in cui lavoravo. Allora esisteva uno schermo, e al di là dello schermo un tedioso gestionale/walking simulator/RPG. Il vecchio mi guardava male per tutto il giorno e mi guardava male quando lo spingevo fino a casa, dove continuava a guardarmi male mentre gli cucinavo la cena e lo pulivo e lo sollevavo di peso e lo mettevo a letto.
Ora la sedia si è disintegrata e il boss arranca faticosamente sugli avambracci. Intorno a noi gli scaffali crollano, sostituiti da macchinari incomprensibili che emettono onde di suono spigolose e folli. Il boss viene avvolto da un groviglio di cavi, volteggia e assume una posizione supina, le braccia lungo i fianchi. Non è a lui che devo prestare attenzione. I cavi, tentacoli di flebo e cateteri e respiratori affioranti dal suo corpo in rozza grafica 3D, si protendono verso di me, rapidissimi, ed è sempre più difficile sparare in armonia con l’universo.
Temo che tornerò fragile sfera pulsante.
Qui, nell’area 99+, dove lontana è l’illuminazione.
Ma la barra della vita si assottiglia, ancora e ancora. Flebo e cateteri e respiratori cadono uno dopo l’altro come teste cauterizzate di un’idra. Un ultimo assalto disperato, a cui rispondo utilizzando la mia arma più potente – il sovraccarico, che tutto estingue, esclusa la musica – e il vecchio emette un rantolo statico di sollievo, finalmente libero da respiratori e cateteri e flebo e sedie a rotelle con maniglie luminose.
Raccolgo il mio premio con un raggio traente.
Un esaedro blu entra nel feto astrale e lo cambia.

Sono il mandala che si dissolve a intervalli di 3.3 secondi, assumendo a ogni ciclo una differente combinazione di colori.

II

Cinque aree, ogni area composta da dieci strati. Tale era l’ordine intessuto nella trama della realtà. Uno strato dopo l’altro, da un’area alla successiva, abbattevo virus e firewall e boss per liberare Eden, divinità profetica in codice binario, dalla sua prigionia autoimposta. Tale era il mio destino, l’unico contemplato dal cosmo, e dopo averlo compiuto non restava che l’eterna ripetizione dell’uguale. Cinque aree, ogni area dieci strati. Abbattere virus e firewall e boss uno strato dopo l’altro, da un’area alla successiva. Per liberare Eden, divinità in codice binario.
Ma in un’ora sacra della notte, nel tempo prima del tempo in cui esisteva uno schermo, e al di là dello schermo una partita perdente, e al di qua dello schermo una realtà chiamata Rez, anno di pubblicazione 2001, sviluppatore United Game Artists, risolsi l’equazione zeta – Zx = ∞ – e si spalancò davanti a me l’area sei, e dopo l’area sei l’area sette, e la otto e la nove e la dieci e la undici, fino alla 99.
Poi il conteggio si fermò. Superata l’area 99, c’erano e ci sono una, due, mille aree 99+, numero inerte che racchiude mondi proteiformi. Io sparo a tempo di musica techno, accumulo punti, mi evolvo. Sette le forme evolutive previste dal destino, centinaia quelle che ho sperimentato: da fragile sfera pulsante fino a mandala che si dissolve a intervalli di 3.3 secondi.
E ora che il mio io si è elevato dalle vestigia del corpo, facendosi diagramma mistico inscritto in un cerchio, l’area 99+ ha abbandonato architetture riconoscibili sostituendole con geometrie non euclidee fosforescenti nel buio. Affondano in un passato ingenuo monumenti e barche sul fiume; affondano il concetto di “città”, il concetto di “lavoro”, il concetto di “inverno” e quello di “responsabilità”. Nel disintegrare virus e firewall sempre più astratti cullato dal suono dei miei spari, e nel dissolvermi e riformarmi in cicli di 3.3 secondi, inizio a percepirmi come puro atto ripetitivo e senza scopo.
Qui, nell’area 99+, dove l’illuminazione è vicina.

???
??erenZA.
Un’i ︎erenza.
Un’interferenzA.

Nulla sembra mutato: sparo a tempo di musica techno, accumulo punti, colpisco le aperture di rete – otto volte, come impone il rituale – per addentrarmi negli strati più profondi dell’area 99+.
Eppure un’interferenza scuote i binari invisibili, strappandomi dall’incontaminata ripetizione senza scopo.
Sparo ed è già troppo tardi: il missile di un virus centra il bersaglio. Il ciclo si interrompe a 3.1 secondi e torno feto astrale nella posizione bakasana.
È come se ai tre sensi che definiscono la realtà si fossero aggiunti due intrusi. Le coordinate perfette di luce, suono e vibrazione vengono offuscate da informazioni caotiche che si insinuano tra me e il ritmo del cosmo. I missili scompaiono nel nulla e ricompaiono troppo rapidi e troppo vicini perché possa annientarli, e così regredisco a bosatsu compassionevole dalle mille mani giunte.
Sparo e sparo ancora e continuo a sparare e non sono più a tempo, ogni colpo è l’applauso ritardatario di un sordo; i virus hanno perso aspetto e luce e suono ma hanno un odore, ecco il primo dei sensi di troppo: un odore acre, non posso deviarlo con i laser e l’odore si espande nell’involucro difettoso, sempre più difettoso – sono lo sciamano beat irrorato di dimetiltriptammina – che alberga il mio io, manifestando il secondo senso di troppo: il gusto chimico e amaro di una droga non digerita.
Il gusto dell’equazione zeta.
Per la prima volta la musica s’interrompe, e nel silenzio neonato stride dentro di me un coro acutissimo e spettrale. I binari, ora visibili, corrono a rotta di collo verso uno schianto di natura ignota ma certa, e nel frattempo la realtà si condensa in un tunnel e texture dettagliatissime ricoprono le pareti del tunnel – stampe giapponesi e foto di famiglia e torri di vecchie riviste – e io scendo la scala evolutiva un piolo alla volta fino alla fragile sfera pulsante.
La battaglia con il boss finale incombe, preludio alla resurrezione di un gioco maligno, nativo di un tempo più antico del tempo.
Mi dirigo a velocità siderale verso l’uscita della galleria, su cui è proiettato un testo sacro in linguaggio di programmazione. I caratteri luminosi precipitano contro di me e la realtà si infrange, percossa da un martello divino.

III

L’atmosfera avariata di una mansarda.
Un abbaino opaco.
Oltre il vetro il cielo: plumbeo e pesante e invernale.
I binari corrono sopra un divano amaranto, superano un tavolino in fòrmica e una sedia da regista accostata a un televisore acceso. Sul lembo di moquette che separa il televisore dalla sedia ci sono una coperta attorcigliata e un controller dualshock e il boss, privo di sensi in posizione fetale. La barra della vita già segna metà.
Io sono la fragile sfera pulsante al di là dello schermo e allora pulso, pulso fronteggiando il nemico, in attesa per illimitati secondi di un attacco che non arriva.
Prendo la mira.
Sparo.
A ricompensare la mia vittoria sarà un esaedro blu, l’esaedro entrerà nella sfera pulsante, cambiandola, e un piolo alla volta, trasformazione dopo trasformazione, salirò la scala evolutiva fino al mandala che si dissolve a intervalli di 3.3 secondi. Il mandala muterà in una forma ancora più elevata – la forma eletta – e, libero dall’ insostenibile giogo dell’io, raggiungerò l’illuminazione.
Qui, al di là dello schermo.
Ma mentre i binari si avvicinano in spire concentriche al profilo coricato del boss, i miei laser si disperdono nella polvere. Sparo e continuo a sparare e a mancare il bersaglio, sempre più lento nella mia corsa vana e silenziosa, che gradualmente, senza strappi, si ferma sul limitare di un precipizio.
Davanti a me, un prodigio di grafica 3D.
Posso distinguere ogni singolo capello non lavato, e la cispa degli occhi è di una palpabilità tale che riesco a sopportarla solo perché distratto dalle macchie repellenti sul colletto e sulle ascelle di un pigiama scompagnato. Sento la pressione ruvida della lana, un odore acre di stanza chiusa, di sudore e di uomo solo scuote il mio involucro difettoso pulsante a vuoto. All’odore si aggiunge una nota chimica, proveniente dal rivolo che tracima dalle labbra screpolate del boss, formando una pozza di bava acida. Ne assaporo il gusto ed è il gusto dell’equazione zeta.
In un’ora sacra della notte, nel tempo prima del tempo in cui esisteva uno schermo, e dentro lo schermo una realtà chiamata Rez, risolsi l’equazione zeta: Zx = ∞, accedendo alle aree segrete dalla sei alla 99+. La soluzione era: Z8 = ∞, dove Z sta per zolpidem tartrato, il farmaco grazie a cui interrompevo la mia partita perdente al di là dello schermo, e 8 indica l’esatto iperdosaggio di compresse sublinguali da 5mg; abbastanza per sparare in eterno a tempo di techno, diventando gesto monotono e puro, ma non tante da evocare la schermata di Game Over del gestionale/walking simulator/RPG con un’incomprensibile meccanica permadeath.

Il boss apre un occhio e subito lo richiude, le palpebre contratte da blefarospasmi violenti. Sono la fragile sfera pulsante incapace di andare a segno e la grafica wireframe del mio involucro mi imbarazza al cospetto dei miliardi di poligoni del boss, che faticosamente si issa sugli avambracci, striscia in avanti raccogliendo le ginocchia, siede a gambe incrociate sulla moquette e chiude un’immensa, divina, orrenda mano su di me.

Osserva il palmo aperto alla luce del sole.
Non trova nulla.
Per un attimo, potrebbe giurarci, ha visto una fragile sfera pulsante.

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