Piccole imperfezioni di fabbrica

Quella mattina si svegliò più tardi. Il sole formava piccoli rettangoli d’ombra sul muro. Dovevano essere già le otto e aveva mal di testa e una sensazione di fastidio all’orecchio destro, quello poggiato sul cuscino. Lo toccava e lo sentiva come un oggetto estraneo: era duro, liscio, del tutto privo di sensibilità.

Si mise seduto sul bordo del letto, chiuse gli occhi e cercò di concentrarsi. Il corpo forse ancora non era del tutto conscio di essersi svegliato, o forse non lo era la testa. Avvicinò di nuovo la mano all’orecchio, lentamente, fino a sfiorarlo: era come di plastica.
Andò in bagno coprendolo, non voleva che il coinquilino lo vedesse. Chiuse a chiave la porta e accese la luce. Si avvicinò allo specchio: l’orecchio era perfetto, perfettamente umano. Eppure toccandolo lo sentiva sempre estraneo, con qualche striatura ruvida: pareva il risultato di un’imperfezione di fabbricazione.
Fece colazione, salutò il coinquilino che si era appena svegliato e andò in ufficio. Quando incontrò il collega, chiese: “Hai mai provato la sensazione come se una parte del tuo corpo fosse finta?”
No, cioè se intendi come quando ci si addormenta il braccio perché l’hai tenuto sotto la testa a letto sì. Lo senti estraneo all’inizio. Ma finto no. Non credo”.
Non ci pensò per tutta la durata del turno, continuò a rispondere alle richieste dei clienti tramite e-mail, telefono o chat.
Quando tornò a casa il coinquilino gli chiese se andasse tutto bene, avendo notato che si teneva stretto l’orecchio con la mano. Gli rispose di sì e senza togliersi le scarpe né il cappotto si chiuse in camera. Rimase lì seduto alla scrivania a passare le dita da quello che doveva essere il lobo fin verso il centro del padiglione auricolare. Tutto sembrava dello stesso materiale sintetico. Si mise le cuffie per ascoltare un po’ di musica e per non pensare, ma si accorse che quella di destra non funzionava. Se le tolse, le girò e controllò con l’orecchio sinistro se dalla cuffia di destra provenisse qualche suono. Funzionava. La vista si annebbiò e dei puntini grigi cominciarono a invadere il campo visivo. Si distese a letto e alzò le gambe sul muro per cercare di ristabilire la pressione normale.
Non mangiò nulla quella sera, rimase a letto cercando di continuare a leggere un romanzo che aveva iniziato qualche mese prima. Alla fine dormì.

Il mattino dopo la situazione era cambiata. Appena sveglio non si ricordò subito del problema dell’orecchio, il suo primo gesto fu quello di grattarsi il naso. Sentiva uno strano formicolio, del tutto identico a quello di solito facilmente ovviabile con una semplice grattatina dell’unghia. Quando il dito toccò la narice ricordò tutti i pensieri che l’avevano afflitto il giorno precedente. Ora anche le narici sembravano fredde e dure, insensibili. Le percorse con l’indice e poté sentire delle sottile striature, come delle piccole imperfezioni di fabbrica.
Prese il telefono e attivò la fotocamera anteriore. Anche il naso, così come l’orecchio destro, appariva umano, delle fattezze che ricordava. Chiuse la fotocamera e senza riflettere scrisse a lei due parole: “sto impazzendo”; non aspettò risposta. Sforzandosi di non pensare, cercò di comportarsi come sempre. Andò in ufficio e fu capace di confondersi tra gli altri impiegati.
In pausa pranzo vide che il collega slovacco aveva portato il solito pasto leggero, crauti bagnati nell’aceto e fette di carne non identificata, rivoltante a guardarsi. Quando il microonde con squilli regolari ricordò che il cibo era caldo, ebbe l’istinto di arricciare il naso aspettandosi il solito fetore nauseabondo. Ma alla vista della brodaglia fumante non fece seguito nessun odore pungente e dolciastro di pollo scaldato e aceto. Non poté non constatare a quel punto che il suo olfatto aveva qualche problema, proprio come l’udito.
Si mise in malattia per il resto della giornata e prenotò una visita presso la clinica convenzionata con l’azienda. Sorprendentemente riuscì a ottenerla per il giorno dopo. Al medico spiegò che il naso e l’orecchio gli davano problemi: “Li sento come estranei, come non appartenessero al mio corpo, non sento gli odori e i suoni”. Il dottore lo visitò, controllò l’interno delle cavità nasali e del canale uditivo con strumenti precisi e dall’aspetto affidabili. Gli disse che tutto sembrava normale. Non c’erano segni di malfunzionamento e per essere sicuro lo mandò da altri specialisti della clinica che confermarono la sua diagnosi. Il problema era lo stress forse e consigliarono riposo. Lui non fu d’accordo, il lavoro lo teneva occupato, lo aiutava a non pensare. Il dottore gli prescrisse dei calmanti.
Quella notte non ebbe difficoltà a prendere sonno. Quando si svegliò si accorse di non riuscire a sollevare il braccio destro. Usò l’altra mano: aprì la porta, prese il latte e i biscotti, afferrò la doccetta, si asciugò i capelli, si afferrò ai sostegni del bus, cliccò il pulsante dell’ascensore del palazzo dove lavorava e accese il computer. Quando però si sedette alla tastiera si accorse che non stava scrivendo solo con la sinistra, anche la destra batteva i tasti. Non sentiva le pressioni delle dita sui pulsanti, non sapeva coscientemente quali parole sarebbero andate a comporre, eppure seguivano una logica e le frasi che vedeva sul monitor avevano senso ed erano anche adatte al lavoro che stava svolgendo. Si abbandonò quindi al ritmo automatico delle dita, a come la mano destra muoveva il mouse, a come gestiva per lui il suo mestiere. A fine turno spense il computer, cliccò il tasto dell’ascensore, premette il pulsante del semaforo, afferrò il sostegno dell’autobus, aprì la porta di casa, aprì il forno e afferrò la forchetta, tutto con la mano destra.

Le mattine successive stessa sorte toccò prima all’altra mano e poi a entrambe le gambe. Ormai si sentiva passeggero in un mezzo pilotato da altri. Solo l’orecchio sinistro, gli occhi e la bocca sembravano ancora appartenergli.

Durante una riunione di lavoro udì una voce familiare. Quando vide che gli altri lo guardavano, che gli sguardi erano tutti concentrati su di lui, capì che era la sua stessa voce che stava ascoltando. Non era più padrone della bocca e della lingua. A pranzo il piatto che le sue mani avevano preparato non sapeva di nulla. O almeno a lui non arrivò il sapore e nemmeno si sarebbe accorto di masticare se il rumore delle mascelle non fosse risuonato nel suo unico orecchio sensibile. Non se ne preoccupò più di tanto. Avrebbe potuto mangiare qualunque cosa, qualunque piatto pronto o qualsiasi schifezza senza preoccuparsi del gusto.
Gli restavano i pensieri però. E a volte, mentre ascoltava il rumore dei suoi passi e vedeva cambiare il paesaggio, si sorprendeva ancora a pensare a lei, al suo volto, ai suoi capelli scuri, a quel sorriso. Una vena di malinconia riusciva ancora a raggiungerlo, lì rinchiuso mentre osservava, fuori, la vita degli altri continuare a scorrere. Non si accorse neppure del momento in cui tutto tacque.

Un giorno si svegliò, o almeno così credeva. E allora perché non appariva il soffitto della stanza? Perché non vedeva la luce del mattino filtrare dalle tapparelle delle finestre? Non era morto, da qualche parte la sua coscienza era ancora. Ciò che continuava a vivere, per quanto possa vivere un complesso di polimeri artificiali, era il suo corpo che però, ora, pareva non appartenergli. Provò a chiudere gli occhi per scacciare questi pensieri, ad aprirli poi, ma anche gli occhi non erano più i suoi. Nel buio gli sembrò di scorgere il ricordo di un sorriso, ormai distante, quasi sconosciuto, e quando anche quella parvenza di luce si spense decise di aspettare che il ruscello dei pensieri terminasse di fluire lieve, fino a sfociare placido fuori dalla sua coscienza, divenuta un tutt’uno con quel corpo ormai di plastica che era tutto quello che rimaneva.

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