L’ascia si abbatteva sul ciocco con un rumore sordo, preceduta dal sibilo dell’aria spezzata dalla lama, molte volte. Tante quante Ares riteneva necessarie a produrre la legna per l’inverno.«Ares, è agosto» disse Lina, affacciata alla porta della casa.
«Mi porto avanti».
Lina guardò il marito più a lungo del solito, chiedendosi se fosse il caldo a far nascere dalle viscere della terra l’inquietudine che trasudava dal bosco, dall’acqua del fiume, dalle rocce, dalla Panda 4×4 che stava immobile nell’aia. E ora anche da Ares, dalla sua canottiera verde e dai suoi pantaloni di lino grezzo, che si muovevano insieme alle sue braccia a un ritmo fisso e spietato, senza pausa, fino al tramonto. A quel punto, nel momento preciso in cui il cielo smetteva di abbagliare e il caldo di asfissiare, Ares si fermava: di colpo, appoggiava l’ascia, lasciava cadere le braccia lungo il corpo, guardava verso la collina e sputava a terra. Poi andava verso la casa, apriva la zanzariera, la richiudeva con precisione per lasciare fuori le zanzare più grosse che la regione avesse mai visto in cinquant’anni, e si dirigeva verso il bagno. Si lavava per bene, metteva nel cesto gli abiti sporchi e si sedeva in cucina, zitto come una statua, davanti al piatto vuoto che dopo poco sarebbe stato riempito dalla frittata del campo, come la chiamava Lina: qualunque cosa commestibile fosse spuntata dal quadrato coltivato, mescolata con sei uova.
Ares mangiava, continuava a fissare la collina, ormai viola di buio, fuori dalla finestra.
Dopo una sequenza ripetuta di cene silenziose, quella sera, bevuto un bicchiere di vino in più, parlò: «Arriveranno. Prima dell’inverno. E arriveranno da lassù», indicando la collina solo con gli occhi.
Lina iniziò a sparecchiare, aprire bocca sarebbe stato inutile, è impazzito come suo zio, i geni prima o poi ti fregano. Ripensò a quello zio, Amos, che a un certo punto aveva preso a fissare la collina oltre il bosco, aveva smesso di parlare, si era messo un cappello bianco da cowboy, «Era di Elvis» diceva, nessuno a contraddirlo. Amos, diagnosticata sindrome paranoide acuta, che un giorno entrò nel bosco deciso ad arrivarci su quella collina, e non tornò più, lasciando tutti a chiedersi se fosse morto o vivo.
«Vado a vedere la tv».
Il grugnito in risposta le fece capire che la tv l’avrebbe guardata da sola. Ares si spostò sulla vecchia poltrona vicino al camino, con vista finestra, la poltrona verde di suo padre Athos, che mostrava l’età dall’impronta sul cuscino: una depressione caspica prodotta dal culo di Athos in anni e anni di fumate di sigaro ad ascoltare i rumori per sorprendere le volpi nel pollaio. Su quella poltrona anche Ares accendeva il suo sigaro ogni sera e ascoltava la notte, ma non i polli.
Nel mese successivo, dopo aver stipato legna nel camino, Ares si occupò del campo, raccolse provviste, le accumulò nel sottoscala con ordine.
Lina lo scrutava di nascosto, ma la sua preoccupazione si era attenuata: Ares aveva smesso di fissare la collina ogni sera e di tanto in tanto parlava. La sera chiacchieravano e lui prendeva le mani di Lina tra le sue. Lina si stupiva, saranno anni che non lo fa. Ares tratteneva le mani della moglie.
«Ho bisogno che domani tu vada in paese a comprare delle cose, io ho da fare qui», le dette una lista. Lina lesse i nomi di attrezzi che non conosceva, e poi “trasformatore di corrente, torcia, filo elettrico”. Vuole finalmente rifare il recinto del pollaio, pensò. Andò a dormire tranquilla.
Mentre Lina era via, Ares iniziò l’ultima fase della sua preparazione: attraversò l’aia e andò nel capanno, prese tutto ciò che gli occorreva e iniziò a rinforzare ogni finestra, abbaino e porta; attaccò il filo elettrico agli infissi. Settembre stava fuori, in un cosmo diverso da quello di Ares, che sentiva l’aria sempre ferma, guardava la collina, ma ora lo faceva quando Lina non c’era: il bosco sembrava paralizzato, Ares fiutava un odore nuovo, avvertiva un movimento impercettibile scuotere le zolle, i muschi, i tronchi. Le zanzare giganti erano sparite. Ci siamo, disse tra sé. Al suo ritorno Lina gli chiese se aveva paura dei ladri. Mia moglie pensa ai ladri. Quando Lina entrò in casa vide un piede di porco, due punteruoli, svariati pali di ferro e di legno, ammassati alla parete dell’ingresso. «Ares, ma fai il pollaio o cosa?» Cosa, avrebbe voluto risponderle. Il sentore di marcio era sempre più vicino, Ares lo sentiva come lo aveva sentito suo zio e nessun altro. Sembrava che qualcuno avesse sciolto delle muffe in giro. Finito il lavoro, entrò in casa e come sempre andò a lavarsi. Le bretelle della tuta di jeans gli avevano segato le spalle, sempre troppo grosse rispetto al resto del tronco, ci mise sopra la pomata di arnica. Andò a mangiare profumato come una sauna norvegese, Lina pensò che finalmente suo marito si stava rilassando, e pace se aveva imbullettato porte e finestre, messo il filo spinato intorno alla casa e trasformato il sottoscala in un bunker. Avrà certamente i suoi buoni motivi, e guardava fuori dalla finestra, verso la collina a cui Ares sembrava non essere più interessato. Fu allora che vide quella lunga, interminabile fila di “cose”: sembravano denti marci sul punto di cadere, dondolavano. Spalancò gli occhi per vedere meglio, e sì, dondolavano, caracollavano, avanzavano piano. Vide un cappello bianco da cowboy sulla testa di uno di quei “cosi”. Ares era dietro di lei, le si avvicinò, l’abbracciò, sentì che Lina tremava. Non c’era nulla da fare, solo aspettare. La fece sedere sulla vecchia poltrona e le prese le mani «Te lo dicevo che sarebbero arrivati prima dell’inverno».
Il mistero della natura, ancestrale, profondo e terrificante, si fa largo nel finale e si manifesta fuori dalle nebbie dei sogni e delle visioni del crepuscolo ai margini del bosco incantato. Una versione tutta di Giovanna che ricorda la penna inquieta e vibrante di senzazioni metafisiche del grande scrittore del Deserto dei Tartari. Il racconto mi ha ricordato più precisamente un altro libro dello scrittore del novecento: Barnabó delle montagne. Ma Giovanna non lascia che il mistero resti tale e da donna coraggiosa pennella i contorni del pericolo. Ecco cosa ci attende; ecco perchè mi sono preparato. Ma la preparazione non ci svela se il male sarà sconfitto dal bene. Non ci è dato sapere chi prevarrà l’uno sull’altro o come le due facce della vita si accorderanno per convivere. Da una parte il fortino addediato; nel campo opposto il cappello da cow boy e denti guasti dell’abbandono. Avrei preferito un finale alla via col vento, ma Giovanna ci inchioda alla realtà di un futuro incerto, dove la salvezza sta dietro il filo spinato.