Intrusioni

“Andrée, io non volevo venire ad abitare nel suo appartamento di via Suipacha.
Non tanto per i coniglietti, piuttosto perché mi addolora entrare in un ordine chiuso”
Lettera ad una signorina di Parigi, Julio Cortázar.

Ho paura che qualcuno in metro se ne possa accorgere.

Per questo infilo una mano spesso nella tasca destra della giacca: mi assicuro che sia tutto apposto e la tiro via in modo naturale. Ho la sensazione che abbiano capito, che l’abbiano visto e che si stiano facendo delle domande.

Quando metto le dita in tasca per controllare che sia ancora lì, acquattato sotto le chiavi e le sigarette, tocco il suo naso. Lo muove frenetico, mi annusa, sente il puzzo delle sigarette e il timido odore del sapone per le mani. Però è lì e ne ho conferma una volta fuori dalla metropolitana: corro verso il parco Sigillari, un piccolo quadrato di terra poco dopo l’uscita della metro, dove le persone portano i cani a pisciare. Alle otto e trenta del mattino è solo un quadrilatero verde. Mi siedo alla panchina, accendo una sigaretta per risultare il più naturale possibile, quindi infilo la mano in tasca, ancora. Faccio piano, non voglio mica ammazzarlo. Di nuovo il muso che si muove frenetico, le orecchie lunghe e il pelo morbido. Stringo allora docilmente le dita attorno a quel corpo tondo e soffice e lo tiro fuori. Sul mio palmo, sotto un sole freddo, un coniglio dal pelo bianco, di dimensioni decisamente minute, mi guarda con occhi neri. Il musetto vibra e annusa l’aria, le lunghe orecchie si alzano in modo buffo.

Lo guardo e ripercorro i momenti precedenti: mi sono alzato e mi sono lavato e fin lì nessun coniglio; ho indossato i jeans e una camicia, poi ho versato del caffè, l’ho bevuto piano, e sino a quel momento assolutamente nessun coniglio; ho chiuso la porta e sono andato verso la metropolitana. Ecco. Forse il tragitto, mi dico, può essere stata una buona occasione per un coniglio così piccolo. Non credo si tratti di un cucciolo, penso sia proprio un coniglio piùchenano. Ma l’altezza da terra, vista la sua statura, non sarebbe stata eccessiva? La scienza, poi, da quando ha appurato l’esistenza di conigli così minuti? E se l’avesse fatto, è possibile che questa specie nasca e si riproduca in città?

Le domande mi soverchiano, come è plausibile in una situazione del genere, ma guardo l’orologio sul polso opposto e mi accorgo che sono in netto ritardo. Spengo la sigaretta sulla panchina e rimetto il coniglio in tasca. Quando apro la porta dell’ufficio, ha già divorato buona parte del pacchetto e due sigarette nel taschino destro. Mi siedo alla scrivania, accendo il pc e non tolgo la giacca, come se questa fosse la prova tangibile del mio segreto. Lo è, mi dico, lo è eccome.

Buongiorno Potenza. La voce di Mario mi arriva forte da dietro. Le sue grosse mani sudate si poggiano sulle mie spalle.

Andiamo, ti offro un caffè, dice.

Di scatto mi alzo, poi mi ricordo dello scricciolo bianco in tasca e allora chiedo a Mario di avviarsi. Arrivo subito, il tempo di levare la giacca, faccio. Così aspetto che quel rettangolo dai fianchi tondeggianti volti l’angolo in direzione della sala caffè. Levo la giacca, docilmente prendo il coniglio dalla tasca coprendolo con l’altra mano e, guardatomi intorno, lo adagio nel cassetto che lascio socchiuso, affinché entri dell’aria fresca. Mario è già con i due bicchierini di caffè in mano che mi aspetta sul tavolino di metallo.

Sei pronto per il colloquio con l’INPGI? Fa.

Certo.

Passandomi il bicchiere inizia a sciorinare teorie su come l’indagine del fondo pensionistico dei giornalisti potrebbe evolvere. Mi confessa che è dubbioso, potrebbero licenziarci un paio di mesi dopo aver costretto l’azienda a metterci in regola. Poi si contraddice e si ricorda di quanto la sua figura professionale, esperta di mercati e fondi di investimento, sia preziosa per la redazione. Quindi, non capisco se con malizia o con ingenuità, punta il dito: mi sembri tu alla fine dei conti quello più a rischio specialmente per quellastorialì. Lo dice tutto d’un fiato, marcando un po’ le consonanti.

Ho tutti i documenti che provano il contrario, faccio io mandando giù l’ultimo sorso di caffè annacquato. Per quellastorialì, Mario, l’economista dalla barba rossa, intende l’accusa da parte dell’INPGI di un mancato pagamento contributivo lungo sei mesi.

Meno male, fa, vedrai che si risolve. Falso, penso.

E con la stessa esattezza degli anatemi, mentre parliamo di loro, gli ispettori sono all’ingresso.

Buongiorno, fa il più giovane con un tono così grave e impostato da sembrare finto. Il più anziano, con dei ciuffi di capelli candidi ad incoronargli la pelata, osserva l’ufficio in modo circospetto.

Dove possiamo accomodarci? Mario con aria serafica li accompagna in sala riunioni, poi mi raggiunge alla scrivania. Vogliono iniziare con te, fa, e nella sua geometria sudata va via.

Respiro un attimo. Non ho niente da nascondere eppure le questioni tributarie mi provocano una certa angoscia. Ho solitamente un modo di fare raffazzonato e disordinato quando si tratta di tasse, ma in buona fede. Per questo, quando mi imbatto in situazioni simili inizio a soffrire di ipersudorazione: alzo l’ascella e un lago scuro si allarga sulla camicia.

Mi affaccio timidamente in sala riunioni, aprendo appena la porta.

Il giovane ticchetta con la penna, il vecchio leva al volo le dita dal naso al suono della mia voce.

Si accomodi, fa il primo. Venga, venga, prosegue il secondo.

Avete bisogno che io prenda determinati documenti? Faccio una domanda stupidamente retorica.

Certo, risponde il giovane. Avremmo bisogno delle testimonianze della sua contribuzione, più i movimenti a favore dell’Ordine dei giornalisti e tutti gli articoli degli ultimi due anni.

Li recupero subito, faccio.

Mentre mi allontano, grida: si porti una biro blu.

Alla scrivania invece trovo solamente penne nere. Al diavolo, penso. Raccolgo in una cartella verde gli articoli stampati, poi apro il cassetto per recuperare quelli relativi ai pagamenti di contribuzione. Sbianco.

Dal basso il coniglio nano mi guarda con le orecchie oblunghe tirate dietro e gli occhi larghi, anneriti da chissà quale pensiero o sentimento. Sotto il muso ha ancora un pezzo di carta umida. Tutt’intorno e sul pelo lucente giacciono frammenti minuti dei miei documenti.

La vista si appanna, il gorgoglio del boccione dell’acqua esaspera la mia ansia.

Non riesco a elaborare un piano, una scusa. Intanto guardo quel batuffolo continuare a ruminare. Credo di averlo sorpreso a mangiare il pagamento dei contributi di maggio.

Da lontano, in un’ansiogena acuizione dei sensi, percepisco l’impazienza del giovane che tamburella la penna sul tavolo. Tant’è che un secondo dopo mi arriva la sua voce dalla sala: ha fatto?
Sicuramente avrò dei backup, penso. Apro il pc, che si illumina con una lentezza disarmante. Sono sul mio conto. Cerco i pagamenti inviati, ma non li trovo. Quindi ricordo la decisione funesta della banca di eliminare dal proprio internet banking le fatture più vecchie di un anno. Per questione di sicurezza, dicevano.

Dalla sala riunioni arrivano altri rumori sospetti, sedie graffiano il pavimento. Si muovono anche loro, sono accerchiato. Come ne esco senza una multa tanto alta da essere impagabile? Le truppe nemiche avanzano: le prime marciando prepotentemente lungo la prateria, le seconde furtive oltre i monti a est. A valle, io e il coniglio nano siamo fottuti.

Quando il giovane arriva, scambia uno sguardo d’intesa con Mario. Incredulità nervosa. Poi gli occhi tornano su di me, che con un sorriso largo stringo la cartella verde nella mano destra e nascondo, vago, la sinistra dietro la schiena.

Non li trovavo, faccio. Nessuno dice niente. Mario bofonchia qualcosa e torna a percorrere il sentiero lungo le distese verdi. Il giovane gira i tacchi in un movimento granitico. Lo seguo. In sala riunioni sorprendiamo il vecchio con il cellulare in mano e Instagram ad alto volume. Prontamente lo spegne, ma quello per un po’ riverbera la canzone stupida che stava riproducendo un attimo prima.

Ci siamo, dico.

Mi siedo. I due non perdono tempo e cominciano a chiedermi i primi documenti contrattuali, poi gli articoli degli ultimi due anni – gli unici integri, conservati nella cartella verde. Glieli porgo un po’ goffamente con la mano destra. Mormorano cose incomprensibili, poi mi passano un foglio da compilare.

Il verbale, fanno quasi all’unisono.

Lo compili, dice il giovane.

Dichiarando i dati contrattuali che ci ha appena fornito, completa il secondo.

Inizio a scrivere. Alla seconda voce della domanda esito appena.

A voi piacciono gli animali? Chiedo improvvisamente, senza staccare gli occhi dal foglio.

Il giovane è perplesso. Il vecchio è entusiasta: ho due cani a casa, e lei?

Preferisco i gatti.

Poco affettuosi, ribatte.

Lo so, ma adoro la loro indipendenza. Quanti anni hanno i suoi?

Due e quattro, risponde tutto compiaciuto. Il più piccolo, pensi, l’ho trovato in autostrada.

Il giovane comincia a battere con la penna sul tavolo. È impaziente, devo arrivare al punto.

Povero, faccio. Le hanno mai portato qualche animale? Poi invento: a mio zio succedeva in continuazione. Una volta un fagiano, quello più grande. Il piccolo è abbastanza mansueto.

Sarà stato contento di avere un fagiano in casa.

Il giovane è stizzito: e allora?

Allora guardi, faccio, e dalla mano sinistra tiro fuori il batuffolo bastardo.

Lentamente, come se avessi ipnotizzato due bestie feroci, abbasso il braccio verso il tavolo. La palla bianca prima annusa un po’ l’aria, poi zampetta oltre le mie falangi. Ora è comodamente appollaiato tra le loro scartoffie firmate. C’è anche la lista dei redattori con il mio nome.

Dove l’ha trovato? Fa il vecchio.

Il giovane sta per sbraitare, rosso in viso, ma non fa in tempo a dire nulla che la bestiolina ha già addentato il primo foglio. Prova a levarglielo dai denti, ma quella, ostinata, si dirige a morderne un altro e un altro ancora e così via. Presi dal delirio delle cartacce masticate perdono di vista l’obiettivo, che invece a passi lenti si defila dalla porta. La chiudo piano alle mie spalle.

Dalla scrivania li vedo inseguire la bestiola verso l’uscita. Tra i denti stringe ancora i miei contributi.

Torneranno, ma ho guadagnato tempo.

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