Candianula

Alle pendici delle montagne c’è una valle stretta e profonda, Candianula. Il luogo è ombroso, per via del bosco e degli spiriti. La prima casa di pietra lungo il pendio che guarda il fiume non ha finestre, ed è bene. Le altre sono ruderi, non hanno più nemmeno il tetto.

Sono rimasti solo i muri di sassi e pietre, mausolei del tempo corrotto. Il resto se l’è ripreso la natura.
Lo straniero cammina. Si avvicina al ponte che conduce al pendio. La via stretta e impervia è tutta in salita. Dimentico del peso che si porta addosso, avanza. L’occhio è già abituato alla presa del verde. Le orecchie hanno dimenticato il suono delle voci e accolgono il borboglio prepotente delle cascate disperse lungo il cammino. Lo straniero si sporge sul precipizio, il respiro si bagna di dolce. Il bosco si muove, è vivo e morto; un ronzio gonfia, vicino, già sottomesso al tumulto dell’acqua.
La prima casa che incontra soffia vento freddo dai buchi. Un serpente di fumo risale dal comignolo. C’è un’ombra sul muro interno di quella che un tempo fu la cucina. Lo straniero entra: la casa è abitata da arbusti. Occupano il pavimento di terra e i muri di pietra nuda ospitano erbe. Qualcuno è passato e ha lasciato una coppa di frutta su cui un ragno ha costruito la tela. C’è qualcosa di piccolo e nero che prova ancora a scappare. Lo straniero attacca lo sguardo su tutto, come volesse portarselo dentro. Gli anfratti delle finestre affacciano sul precipizio. L’acqua del torrente corre, anche quando lo straniero non la guarda corre il tempo che non esiste per l’acqua. Un lieve scatto della testa ed esce dalla casa, ritorna e prosegue sulla strada. Cammina, sale gradini di pietre e di tronchi, l’aria è più rarefatta. La via si allarga tra le fronde, è terra e sassi e passi che hanno lasciato il ricordo. Ogni tanto s’intravedono piastrelle e mattoni sotto rami di alberi spezzati dal vento dove il muschio ha trovato spazio e gli insetti hanno costruito metropoli.
Va ancora avanti non si sa quanto: lo straniero ha sete. Molta acqua irraggiungibile, la borraccia è vuota. Si ferma e si siede su un tronco che taglia la via. Le radici all’aria come le gambe di un ragno gigante. Nel silenzio dei passi immobili la natura risponde a se stessa: ronzii, scrosci continui. Nella bolla di verde d’un tratto si ridesta: è un déjà-vu, mai passato da queste parti eppure sembra di esserci nato. Possibile che tutta la vita, la mia vita di ieri, di oggi e di domani sia qui, in questo esatto momento? Lo straniero senza risposte si alza e riprende il cammino.
La sete ritorna, così come la stanchezza quando si ricorda di essere stanco. Ma qualcosa adesso è diversa. La strada sempre la stessa, le fronde e gli alberi e i tronchi, gli spicchi di cielo sconnessi. Dietro la salita c’è una grande casa in pietra. Le persiane sono verde bottiglia, aperte come le finestre. Il tetto è rosso e il comignolo fuma bianco.
Lo straniero osserva la faccia della grande casa, i fiori sul davanzale muovono i petali vellutati. Un gelsomino dal profumo inebriante sale dal terreno al tetto, arroccato alle pietre del muro. L’aria è dolce, il sole illumina la corte col pozzo. Lo straniero deve proseguire il cammino, ma scorge un riflesso sul vetro di una finestra.

Anche tu qua? sente dire.
Mi hanno consigliato questa escursione, risponde, sforzandosi di scorgere un volto.
Non siamo rimasti in molti, dice la voce. Ma chi arriva da queste parti non se ne va più.

Lo straniero sente tutta insieme la stanchezza attanagliargli i polpacci e le spalle.

Da quanto è in viaggio? Venga dentro.

Lo straniero sa che fermarsi è più faticoso che continuare. Ma non è riuscito a vedere il volto della voce. La porta di legno si spalanca, c’è una fanciulla, o forse è un fanciullo. I capelli sono lunghi fino alle spalle, i lineamenti delicati sul viso ovale. Porta una lunga veste bianca, le braccia sono nude.

E tu? chiede lo straniero.
Lui non parla, dice la voce. A volte capita.

Lo straniero guarda oltre la porta, c’è una brocca d’acqua sopra al tavolo di legno chiaro. La sete gli secca la gola.

Venga dentro, ripete la voce.

Lo straniero guarda il fanciullo, ha gli occhi tristi dei bambini soli. Sorride senza denti.

Si perde l’età da queste parti.

Senza accorgersene lo straniero ha varcato la soglia. Un raggio di sole balugina sul tavolo.

Si serva pure, dice la voce, l’acqua è di tutti.

Lo straniero si volta verso la voce. È un uomo seduto in un angolo. È fatto d’ombra ma ne riconosce i contorni. Ha gli occhi brillanti sotto le rughe.
Lo straniero raccoglie il bicchiere di vetro e lo riempie fino all’orlo. Una goccia lambisce il bordo e inizia a cadere. Beve con avidità, ha ancora sete.

Non c’è cosa più bella dell’acqua, dice l’uomo ridendo.
Grazie, dice lo straniero. Ha camminato molto nel tempo e nel tempo ha capito quanto conti un grazie, e un bicchiere d’acqua.
Lei non ha che da ringraziare se stesso, dice l’uomo. Lo slancio nel seguire il consiglio, i suoi piedi che l’hanno portata, gli occhi che hanno visto, quello che si è lasciato alle spalle.

Lo straniero si riempie un altro bicchiere.
Di cosa parla? pensa senza chiedere.

È difficile la prima volta. Lei vorrà proseguire, adesso che è dissetato. Forse dimenticare, d’altronde non è venuto qua per questo?

Lo straniero cerca di ricordare. In quanti sono partiti? O ha iniziato il cammino da solo? Fissa le pareti del rudere. C’è una brocca su un masso sopra il terreno dissestato di sassi e erbacce. Il tumulto ormai conosciuto dell’acqua che scorre sotto al precipizio. Un rumore lo fa sobbalzare, si volta di scatto verso l’angolo ombroso. Un merlo spicca il volo da un cespuglio dentro il rudere di pietra.
È ora di riprendere il cammino. Di lasciare Candianula, così stretta e profonda, che si corre il rischio di perdersi.

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