La tempesta

La prima notte a casa gli alberi hanno cominciato a cadere.

Mi sono svegliata alle dieci del mattino: un tronco capitolava con uno schiocco, un colpo di frusta: la gamba destra è scattata, lo stomaco è sobbalzato.
Ho aperto il comodino di Sean, il manganello era lì.
Ho respirato. Preso le medicine dal cassetto.
La parte di letto di Sean era fatta. In cucina aveva lasciato mezza caraffa di caffè e nessun biglietto.
Ho sentito un altro albero cadere. Un’altra frustata, l’eco di uno sparo.
Ho aperto la porta di casa e guardato fuori. Le foglie della betulla in giardino erano ghiacciate; le gocce d’acqua cristallizzate pendevano come ciliegie.
Il cielo bianco. La città in silenzio.

Il postino indossava pantaloncini corti nonostante il freddo, camminava a passo svelto verso la nostra cassetta della posta sotto la betulla. Un albero, lì, ha emesso una specie di gemito, come nei documentari sul surriscaldamento globale coi ghiacciai che si staccano, e il postino si è tenuto a distanza. Un pezzo di ramo della betulla si è schiantato a terra.
Quando mi ha visto ha fatto ciao con la mano con cui teneva le lettere.
“Pazzesco, eh?” ha detto, e ho risposto, “sì, pazzesco” come se fossimo amici. “Dammi pure”, ho detto, stringendomi nella vestaglia, e il postino mi ha passato le lettere.
“Grazie”, ha detto.
“Prego. Vuoi un po’ di caffè per scaldarti?”
Mi è uscito come se fossimo in un rifugio di montagna in mezzo a una tempesta, invece che in un quartiere residenziale di una cittadina dell’Oklahoma. Come se passassi la vita chiusa in casa a studiare una lingua morta; come se non parlassi con nessuno che non fosse Sean da mesi.
Il postino ha indicato la sua borsa a tracolla traboccante di lettere. “Grazie. La prossima volta”.
Un altro ramo ghiacciato della betulla è crollato a terra con uno scroscio. Ho immaginato il postino intento a ficcare le altre lettere nelle cassette dei vicini che rimaneva schiacciato sotto l’albero. Io che sentivo il suo urlo da dentro casa, correvo fuori e mi avvicinavo – il cadavere aveva i pantaloncini corti e la tracolla traboccante di lettere, ma nella pozza di sangue e ghiaccio sciolto vedevo il mio viso, un mazzo dei miei capelli biondi, e un pezzo di cranio aperto, il cuoio capelluto scorticato, la poltiglia che colava sull’asfalto.
Sono entrata di corsa e ho chiamato Sean. Mi ero ripromessa di non chiamarlo, non il mio primo giorno a casa, ma non ce l’ho fatta.

“Cosa sta succedendo?” gli ho chiesto.
Sono rimasta davanti alla porta col telefono in mano. Non volevo tornare a letto. La betulla avrebbe potuto cadere sul tetto, sfondare la casa, seppellirmi sotto cavi e mattoni e detriti.
“Sto lavorando”, ha detto Sean.
“Cadono gli alberi”.
“C’è stata una tempesta di ghiaccio stanotte. Ha piovuto. Ha ghiacciato. I rami leggeri non reggono il peso del ghiaccio. È normale”.
“Non trattarmi da ritardata”.
“Non fare domande da ritardata”.
“Ho paura”.
“Di cosa?”
“Degli alberi”.
Ha riso. “Non siamo nella Terra di Mezzo. Torna a letto”.
“Perché?”
Allora si è spazientito. Ha sbuffato senza sforzarsi di non farsi sentire.
“Ascolta. La dottoressa ha detto di riposarti. No?”
Quel “no?”, come se fossi scema. Ma non ho avuto tempo di rispondere perché un altro ramo è crollato. Le pareti dell’appartamento hanno cominciato a vibrare. Un’altra scarica di proiettili. I rami si sono spezzati sull’asfalto, il ghiaccio è esploso.
La comunicazione si è interrotta. È andata via la corrente.
Sembrava quasi che il cielo bianco volesse entrare in casa.

Il manganello Sean l’ha preso illegalmente da un suo amico al lavoro perché non voleva una pistola in casa. Quando mi è venuto a prendere alla clinica ieri sera, mi ha detto di avere una sorpresa, e io pensavo che intendesse una torta o un nuovo gusto di milkshake, ma no. Siamo arrivati a casa e si è ficcato la mano nella tasca del giaccone, poi ha aperto bene il palmo per farmi vedere questo tubetto di metallo nero. Gli ho chiesto cosa fosse. Lui ha stretto il pugno, poi ha dato uno strattone, e il manganello si è aperto con un lampo secco. “Non è niente di che”, ha detto, “Avrei preferito una pistola, ma meglio di no nella nostra situazione. Se voglio, posso sfondare qualche menisco senza problemi”.
“A chi?” ho chiesto.
“Lo sai”, ha risposto, avviandosi in camera da letto. Ha chiuso il manganello e l’ha messo nel cassetto di fianco al comodino. Poi ho sentito: “non si sa mai”.

Ho preso altre medicine per calmarmi. Mi sono lavata il viso. Ogni volta che sentivo un albero cadere tornavo fuori a guardare. Mi sono seduta al computer per cercare su Google se gli alberi potessero sfondare i tetti di appartamenti come il nostro, con le mura di cartongesso e le tegole di acciaio arrugginito. Ma poi mi sono ricordata che era andata via la luce. La casa era illuminata solo dalla luce bianca del cielo. In cortile, la betulla gemeva. Il ghiaccio si rompeva in frammenti come terminazioni nervose.
Senza corrente non potevo riscaldare il caffè che Sean aveva avanzato. Ho aperto il frigorifero spento, cercato una tazza per i cereali. La mia tazza rosa con la foglia di elmo presa durante una vacanza in Colorado. Mi sono seduta sul divano. Sean aveva lasciato tutto com’era. Ho frugato ovunque, come se sentissi una nuova vibrazione, un nuovo odore, il profumo di una donna che era venuta a casa nostra mentre io ero alla clinica. Ho smantellato i cuscini alla ricerca di un orecchino di perla che brillava sulla pelle scura del divano. Lo avevo bene in mente, come se lo avessi visto in un sogno. Ho rovistato tra i cuscini, sotto il tappeto di pelle di mucca che Sean aveva preso a una fiera a Oklahoma City.
Mentre cercavo, ho sentito uno scricchiolio e il tuono di un altro ramo che cadeva, e poi un secondo lamento, basso, di un ramo che cedeva sotto il peso del ghiaccio, e mi sono lanciata sotto il tavolo coprendomi la testa.
Credo di aver pianto. Sono rimasta sotto il tavolo, col naso sul pavimento, l’odore di disinfettante che mi ha ricordato per un attimo il linoleum della clinica. Sono stata immobile per ore, ma i miei occhi hanno continuato a cercare l’orecchino di perla per tutta la cucina.

Ho chiamato Sean con il cellulare mentre stavo sulla soglia a guardare gli alberi cadere.
“Cosa? Sono in pausa pranzo”, ha detto, ed era vero. Aveva la bocca piena.
“Hai avuto una donna mentre ero via?”
L’ho sentito sospirare. “No. Ti ricordi cos’è successo prima dell’esaurimento, vero?”
Non ho detto niente.
“Sei tu quella rincorsa dai tipi nei bar. Non io. Sei tu che non hai detto a quel tizio di lasciarti in pace”.
Sono rimasta in silenzio pensando a cosa dire.
“È andata via la corrente”, ho detto.
“Il comune ha rilasciato una dichiarazione; la luce dovrebbe tornare entro fine serata. Parecchi alberi sono caduti su cavi e tralicci”.
“Sai se gli alberi possono cadere e sfondare un tetto?”
Sean ha sospirato. “No”.
“No, non lo sai, o no, non possono?”
“Entrambi”.
Lo so che mi tratta da scema. Eppure. “Ho paura di rimanere schiacciata”, dico.
“Non ci pensare. Guarda un film. Devi riposarti”.
Tornavamo sempre lì. Dovevo riposare. Calmarmi. Non pensare.
“Quando torni?”
“Presto”, ha detto. “Ti porto un milkshake. Burro di arachidi e gocce di cioccolato?”
Ho annuito senza dire niente, come se Sean fosse davanti a me.

Forse l’orecchino di perla l’avevo visto in un film. Era un’immagine così vivida che sembrava essere comparsa in una serie TV dei primi anni duemila ed era rimasta con me per anni, sepolta in fondo alle crepe della mia memoria: una moglie trova un orecchino di perla tra i cuscini del divano mentre il marito è a lavoro. Quando torna, lui dice: ma no, è mio. Si ficca l’orecchino nella pelle, ma non ha il buco. Un rivolo di sangue gli striscia sul lobo, i suoi occhi si arrossano nello sforzo di non urlare o piangere dal dolore, la telecamera si sposta sul viso sospettoso della moglie. Il marito cerca di sorridere, con l’orecchino che gli brilla sul lobo. Risate registrate.
Mi sono portata le dita alle orecchie, cercando di ricordarmi che orecchini stessi indossando, ma mi sono ricordata che non mi sono messa nessun paio di orecchini da prima della clinica, neanche quelle piccole campanelle argentate che mi aveva comprato Sean per Natale, prima della festa, prima della scenata in macchina, prima dell’esaurimento nervoso.
“No no no”, mi sono detta ad alta voce, perché le infermiere mi hanno detto di evitare pensieri che possano far tornare in mente scene e frasi dette la sera dell’esaurimento, e l’hanno detto anche a Sean, e lui continuava a ripetermelo: smettila di pensare.
Ma avevo gli alberi a distrarmi. Ne è caduto un altro. Sono andata in bagno, tremando, e ho cominciato a guardare nei cassetti, a aprire tutto, i miei trucchi, le boccette di lozioni e profumi e le conchiglie, ma niente orecchino di perla. Allora il posto più ovvio: il letto. Ho sfatto le lenzuola, sono volate in aria come foglie prima di planare a terra.
Poi ho visto il cassetto chiuso e ho immaginato il manganello tra le scatole di medicine e preservativi e accendini. Le mie dita tremavano mentre lo aprivo, ma prima di prendere il manganello ho sentito un altro ramo crollare. Le pareti di cartongesso hanno cominciato a vibrare, ho gridato.
Il manganello è rotolato in fondo al cassetto; sono corsa verso la porta, fuori, con le pareti che sembravano crollare intorno a me come in una cava in un film, con la luce bianca del cielo che mi indicava dove andare. Solo che fuori la betulla era immobile, seria, come le infermiere e i dottori e Sean che mi guardavano la sera in cui sono stata ricoverata, lo sguardo di tutti che diceva solo: anche stavolta hai esagerato.
Sono uscita e ho sentito il sapore dell’aria fredda, in bocca, come sangue. Non c’era neanche un vicino intorno. Mi sono chiesta dove fosse il postino, se avesse finito di fare il suo giro e fosse tornato a casa senza finire schiacciato da un ramo.

Sean è tornato a casa, ma la corrente no, e avrebbe fatto buio presto. Posa il milkshake sul tavolo. Non ne ha preso uno per sé.
“Dov’è il tuo?”
“L’ho bevuto sulla strada di casa”, ha detto, “Cosa cazzo è successo?”
Ho lasciato tutto aperto: i cassetti, gli sportelli, i cuscini del divano, le lenzuola del letto. “Niente”, ho risposto.
Sean si è portato le dita agli occhi e li ha strofinati così forte che ho sentito i bulbi oculari rotolargli dietro le palpebre come quelli di plastica di una vecchia bambola.
“Cristo”, ha detto, “Perché cazzo ti hanno fatto tornare a casa?”
Non mi ha neanche guardato mentre lo diceva. Ha continuato a strofinarsi la faccia, le dita che lasciavano impronte bianche sulle guance arrossate.
“Mi dispiace”, ho detto, e un po’ lo so che forse la perla me la sono sognata, forse l’avevamo davvero vista in una serie quando ancora eravamo innamorati e guardavamo la TV insieme sul vecchio divano di pelle, e ridevamo forte per coprire il silenzio, anche se le mura e il soffitto del nostro appartamento erano così sottili che sentivamo gli scarafaggi muoversi nelle tubature.
Si stava facendo buio. Sean aveva ancora gli occhi chiusi. “Bevi il tuo milkshake”, ha detto, come se fossi una bambina, e si è avviato verso il bagno.
Io sono rimasta in piedi in cucina, col bicchiere di milkshake e la condensa che colava sul tavolo.
“Perché hai preso quel manganello?” ho chiesto.
Sean si è fermato.
“Non riesco a stare tranquilla se so che abbiamo un’arma in casa”.
Lui si è voltato. Aveva i capelli neri sudati, lunghi e umidi sulla fronte.
“Te la ricordi la festa di Natale, vero?” ha detto lentamente. “Voglio che tu me lo dica. Che ti ricordi la festa. Tu ubriaca marcia. Il tipo che ti sbavava addosso”.
Sean si è avvicinato. Ho sentito il suo respiro, i bracciali che gli rotolavano lungo i polsi, l’odore di dopobarba e di sigaretta e dell’olio al limone che usava per pulire la macchina.
“E, Cristo, voglio che tu ti ricordi di cos’è successo in macchina”. Ha sputato nel lavandino e fatto per andarsene. “E metti a posto ‘sto casino”.
“Hai paura”, ho detto, e lui si è fermato di nuovo.
“Cosa?”
“Hai paura”.
“Di cosa?”
“Non lo so. Hai comprato un manganello”.
Sean si è avvicinato, è tornato a circuirmi con il suo odore di sigaretta, dopobarba, olio di limone. Ha posato le labbra contro il mio orecchio, e per un attimo ho pensato che mi stesse per abbracciare. Aveva le orecchie sporche. Ho pensato alla perla che non sono riuscita a trovare.
“Sei fuori di testa”, ha detto, piano, a mezza bocca, la sua voce un sussurro.
E forse era vero – forse aveva ragione, che ero fuori di testa. Lo aveva ripetuto più volte: sulla strada di casa; dopo l’esaurimento; la sera prima di trascinarmi alla clinica con la scusa di andare a prendere un milkshake. Me lo ricordavo della festa. Sean che sputa in faccia al tipo, gli grida di levarsi dalle palle, a questo ubriaco disperato come tanti, come noi. Non ero riuscita a dirgli di lasciarmi stare.
Me lo ricordavo Sean, ubriaco, che per tutto il viaggio di ritorno in macchina aveva sbattuto il pugno contro il tetto della macchina, così forte che avevo visto la plastica incrinarsi e avevo immaginato la mia faccia nella traiettoria del suo pugno – i miei zigomi che esplodevano, gli occhi che mi rotolavano in fondo al cranio. Me lo ricordavo, il rivolo di sangue sceso tra le sue dita, lui che si era messo a piangere al volante, aveva posato la testa contro il cruscotto, e detto: non è questa la vita che volevo.
Poi gli avevo tirato un cazzotto in pieno viso per farlo stare zitto. Per farlo smettere di farmi sentire come un fardello, un peso.
Lui era rimasto senza fiato e la macchina aveva sbandato, fino a prendere in pieno un ramo in mezzo alla strada.
Ricordavo il silenzio totale di quando l’auto era finita sul prato di fianco alla strada. Eravamo rimasti per un attimo così, a riprendere fiato, con le nocche della mano destra che mi pulsavano, proprio io che non avevo mai tirato un cazzotto a nessuno, neanche uno schiaffo, neanche al tipo che mi aveva seguito in giro per tutto il bar.
E anche ora eravamo in silenzio, con gli alberi che gemevano e il ghiaccio che si spaccava intorno alla casa, in attesa che un ramo crollasse e schiacciasse il tetto, con noi sotto, in piedi, ancora incapaci di dire qualcosa.
Lui è tornato in camera da letto, ha preso il manganello, e ho capito subito che non aveva paura degli ubriachi che mi venivano dietro alle feste, o della gente che poteva entrare in casa mentre io ero sola a “riposare”. Ho capito che il manganello era per me. L’avevo saputo dal primo istante, da quando aveva detto che non voleva mettersi una pistola in casa, che non voleva fare del male a nessuno, ma che se voleva poteva sfondare qualche menisco.
Sean ha aperto il manganello con uno schiocco. Sono rimasta in piedi davanti a lui, impassibile, circondata dal caos della stanza, il mondo fuori che tremava. Sean ha sputato nel lavandino e poi ha tirato il manganello contro il muro. L’intonaco è venuto giù come sabbia.
Il bello è che non ho gridato neanche una volta. Tra una frustata e l’altra, c’era questo silenzio totale, metafisico, come se fossi tornata in clinica per un attimo, la mia visione sfocata, l’odore di disinfettante che mi chiudeva le narici, il cervello che fluttuava da qualche parte al sicuro, ovunque le medicine mi volessero portare. Mi sembrava di sentire gli scarafaggi che correvano via dai tuoni del manganello contro il muro, i passetti veloci al di là delle pareti. Sean ha continuato a martellare, gridando, le lacrime e il sudore che gli colavano sulle guance. Non mi guardava neanche. Forse pensava a una donna diversa, una donna con un orecchino di perla perso durante un bacio e poi sepolto tra le crepe del divano.
O forse no. Pensava a una vita con me, senza le mie ossessioni e i miei cazzotti.
Sean non accennava a smettere. Ha continuato a spaccare la casa da dentro finché non sono uscita per prendere fiato. Ho pensato che mi seguisse, ma non l’ha fatto.
Si stava facendo buio. Gli alberi fuori erano finalmente fermi.
I pezzi di intonaco della casa ci crollavano intorno come meteoriti.

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