Il desiderio elementare

Venuta meno la Chiesa, l’ultima vera istituzione del mondo occidentale è rimasta la Madre.

Certo, si dice del padre, del padre-padrone, del patriarcato imperante, ma la verità è che la madre, lo si voglia o meno, rimane l’ultima bussola – morale, civile, e qui casca l’asino, anche sessuale – della nostra generazione. Il padre è un’autorità muscolare, fattiva, e che quindi, proprio per questo, trova la sua applicazione pratica solo a un grado superficiale – epidermico – della realtà. Tutto ciò che sta sotto, tutto ciò che dimora nel torbido, e che in un qualche modo crediamo affondare le radici in un pensiero endogeno, spontaneo, è in realtà regolato da leggi materne. La madre è una divinità ctonia di cui ignoriamo lo statuto ma a cui votiamo ogni gesto; praticamente quello che la burocrazia era per Kafka, una ragnatela invisibile ma totalizzante. E noi di tutto questo siamo i figli; generati da una rapida unione tra un padre-padrone e una madre-burocrate.

Mi chiamo Elia Canetti – a volte, per sdrammatizzare, aggiungo «La “s” è muta», anche se la verità, come può vedere chiunque legga il nome, ma non chiunque lo senta pronunciare, è che la “s” non è muta, la “s” proprio non c’è, e questo fa di me non un omonimo, ma semplicemente uno con un nome monco, monco rispetto a un premio Nobel, quindi grazie mamma, grazie papà, che scelta incredibile avete fatto, davvero accurata, siete riusciti a condannarmi all’asimmetria onomastica, a una condizione di subalternità quasi ontologica – comunque, dicevo, mi chiamo Elia Canetti e ho 27 anni.

Da due mesi a questa parte la mia vita ha preso una piega che inizialmente non ho potuto che definire inquietante, che successivamente ho catalogato come strana, e a cui invece, oramai, mi sono praticamente abituato, tanto da ritenerla non dico giustificabile, ma quantomeno comprensibile. Ecco, non so se avete presente quella cosa del guys literally only want one thing and it’s fucking disgusting, frase che ultimamente gira un po’ dappertutto, in particolar modo sui social: è vera. È esattamente così. E anzi, nel mio caso, forse, è pure peggio.

Comunque, dicevo, tutto è iniziato due mesi fa quando su un’app di incontri ho conosciuto Hekla. La descrizione del profilo rimandava al suo account Instagram, che ho spulciato prima di provare a scriverle. Conoscere gli hobby, o le passioni, o gli interessi di una persona permette di orientare fin da subito la conversazione verso lidi 1) che non siano banali, 2) di cui si ha un minimo di conoscenza e 3) che possano interessare l’interlocutore e agevolare il botta-e-risposta. Ma insomma, nulla che già non si sappia.

La biografia del suo profilo dava pochi ma precisi elementi, utili a circoscrivere un’eventuale conversazione. Erano presenti l’età (26 anni), il simbolo zodiacale del Toro, e alcune emoticon – compresa quella di un libro. Dell’astrologia non me ne frega francamente un cazzo, ma in letteratura sono ferrato (6 anni di Lettere, 3 fuori corso, mai laureato).

Le cose sono filate via lisce. Entrambi eravamo interessati all’altro e dopo qualche giorno ci siamo dati appuntamento in centro ****, dove sapevo esserci un bar con dei vini piuttosto buoni. Lei è arrivata in anticipo. Questo, stupidamente, mi ha fatto pensare che fosse agitata, ansiosa di conoscermi e terrorizzata di arrivare in ritardo, rischiando di fare brutta figura. Il mio ego non ha nemmeno passato al vaglio la possibilità che fosse semplicemente una persona che odia – come me, tra l’altro – arrivare in ritardo, vincolando l’altra persona a quegli interminabili minuti in cui l’unica possibilità d’evasione, dentro la macchina, magari al caldo, sotto al sole, è quella di aggiornare e ri-aggiornare nervosamente la home di Facebook sul proprio smartphone. E infatti:

«Ah, sei anche tu in anticipo».
«Odio arrivare in ritardo».
«Anch’io».
«Comunque piacere, Hekla».
«Elia» dico allungando la mano «la “s” è m-».
«La “s” che?»
«No, niente, scusami».

Appena ci siamo seduti ha estratto dallo zaino un borsellino di cuoio dove teneva del tabacco. Ne ha sfilato via un ciuffo e l’ha posizionato sull’incavo della cartina. L’ha distribuito in modo omogeneo coi due indici e ha sigillato la sigaretta con la lingua. La velocità del gesto, la spontaneità della mano, ne rivelavano il grado di tabagismo. Era timida e nervosa.

Per rompere il ghiaccio mi sono riallacciato a una conversazione che avevamo avuto qualche giorno prima.

«Allora, com’è il libro della Moshfegh?»
«Devo dirti la verità, molto bello».
«E poi, che hai letto ultimamente?»
«D’Avenia».
«Veramente?»

Ha alzato lo sguardo. Mi ha fissato. Ha sorriso:

«No».

***

La seconda volta ci siamo visti di sera. Era qualcosa di più intimo forse, o quantomeno di più informale. Dopo diversi bicchieri di vino, una quantità che ora, con precisione, non ricordo, siamo stati costretti a uscire dal locale. Senza accorgercene eravamo rimasti gli unici due clienti, e a quanto pare il proprietario aveva deciso di chiudere in anticipo rispetto al solito. Ho controllato l’orario sul cellulare: mezzanotte e quaranta. Ci siamo detti di fare una passeggiata per le vie del centro. Dopo circa mezz’ora siamo arrivati nei pressi del piazzale dove aveva parcheggiato. Ci siamo appoggiati al cofano della sua Fiat Punto e abbiamo iniziato a chiacchierare. Dopo qualche minuto, in modo quasi automatico, quasi spontaneo, ci siamo baciati. A quel punto lei mi ha proposto di entrare in macchina per evitare di essere disturbati. Una volta entrati è cambiato tutto. L’attenzione che avevo prima, nel baciarla, era qualcosa di tenue, con un grado d’intensità piuttosto basso. Forse perché il primo bacio, nonostante l’iniziativa fosse nata da entrambi, mi aveva colto alla sprovvista. Quando si bacia una persona per la prima volta sembra sempre che stia accadendo a un altro, è come se tra te e la persona che effettivamente sta baciando – che poi sei sempre tu – ci sia un grado di separazione, perché la sensazione è quella di vederti da fuori, di vederti mentre baci, è come una sorta di leggero scollamento dalla realtà presente. Non saprei spiegarmi il motivo. Forse è perché si deve ancora prendere confidenza con una dimensione così intima dell’altra persona, come possono essere le sue labbra, la sua pelle, il suo odore. E il fatto di avere con quella persona ancora così poca confidenza, il fatto di esserle – in grado variabile – ancora estraneo, avvolge il tutto con un’aura di irrealtà. Forse è questo. A ogni modo, dicevo, non appena siamo entrati in macchina è cambiato tutto. Ormai avevo preso consapevolezza di quello che stavo facendo e di quello che stava accadendo. I sensi si erano acuiti e il margine di scollamento si era pressoché annullato. Ed è lì che sono stato travolto dal panico. Mentre la baciavo ho iniziato a sentire dentro la bocca un gusto familiare, un aroma che conoscevo ma che non riuscivo a identificare con precisione. Dopo qualche secondo è affiorata la risposta: tabacco Kentucky. Lo stesso tipo di tabacco che fumava mia madre. Ho staccato la bocca dalla sua, e come diversivo, per scacciare via quella sensazione, ho iniziato a baciarle la parte bassa del collo, vicino alla clavicola. Sembra strano dirlo, ma qui, oltre al danno, si è avverata anche la beffa. Ho iniziato a sentire un profumo che conoscevo bene, che sentivo quotidianamente, e che non ha necessitato di nemmeno un secondo per essere indovinato. I suoi capelli profumavano dello stesso shampoo che usava mia madre. Ho provato repulsione. E poi ho provato piacere. E poi repulsione del mio piacere. Con gli occhi chiusi, e nel buio della macchina, la sensazione era quella di un abbraccio materno, di un ritorno confortante verso il sangue del mio sangue, verso la carne che mi ha generato, dentro particelle che sono le mie, che sono io, che sono la cosa al mondo più simile a me. Lo ripeto: ho provato piacere. Un piacere puro e assoluto. Per un attimo, o forse anche meno, mi sono sentito completo. Poi è come se mi fossi risvegliato da un sogno.

Ho spalancato la portiera e sono uscito dalla macchina. Sono fuggito senza dire niente, senza dare spiegazioni, senza nemmeno fare un cenno di saluto. Il piazzale dove avevo parcheggiato era piuttosto distante, praticamente dall’altra parte della città, città che ho attraversato di fretta, quasi correndo, facendomi schifo per come mi ero comportato, per quello che avevo pensato e per come a quel pensiero avevo reagito. Quello che avevo provato era stato un desiderio antico. Più vicino al regno animale che a quello dei miti. Camminando mi dicevo che forse, un domani, e forse addirittura domani, tutto sarebbe passato, tutto sarebbe svanito, mi sarei svegliato e quel pensiero non ci sarebbe stato più, perché dileguato durante la notte, nel sonno, scivolato via da sotto le coperte e volato lontano, come un insetto. Camminando mi dicevo che quello era stato un inciampo, una sinestesia, un’associazione involontaria di immagini e quindi di idee. Un profumo e un gusto avevano creato un’immagine, l’immagine aveva suscitato un’idea, e l’idea aveva innescato un desiderio. Io non c’entravo niente. Anche se più camminavo e più quelle idee mi sembravano qualcosa di vivo, di attivo, qualcosa che potesse – da dentro – decidere al posto mio, muovendo in mia vece gli arti, la bocca, la lingua, gli occhi e il pensiero, le mani e il sesso. Mi sentivo spinto. Mi sentivo attratto. Arrivato alla macchina ricordo che mi sono cadute le chiavi. Mi sono chinato e le ho raccolte. Poi, mentre cercavo di infilarle nella portiera, ho sentito dietro di me una presenza. Mi sono girato ma non c’era nessuno. Erano le due di notte e il parcheggio era vuoto. Alle due di notte in giro per le strade di **** non c’è più nessuno, nemmeno i gatti, nemmeno i rospi, solo qualche ubriaco, qualche balordo, o gente che fugge, come me.

***

Col passare dei giorni, tuttavia, l’immagine che avevo visto, o meglio, la sensazione che avevo provato, non si era allontanata fino a svanire in un ricordo che, col tempo, avrebbe potuto anch’esso dissolversi. No, al contrario. Era sempre lì, sempre nitida. E anzi, di giorno in giorno, era sempre più grande, sempre più presente; premeva da dentro la calotta cranica, spingeva, voleva uscire, reclamava un’esistenza che fosse concreta, che fosse tangibile.

Per giorni ho cercato non dico di resistere, perché in effetti no, non si può parlare di resistenza, ma almeno di tenere a bada la cosa, di tenerla buona, a cuccia, come una bestia. Ho cercato di soffocare il fuoco con tutte le coperte che avevo a disposizione, ho cercato di svagarmi, di pensare ad altro, di tenere la mente occupata con problemi personali, con incombenze familiari, insomma con qualcosa che potesse farmi dimenticare quella sensazione, quel desiderio, seppellendolo magari sotto una coltre di fumo, di cenere, di cose irreali e quotidiane. Eppure non è servito a niente. Era sempre lì, sulla soglia, ad attendermi.

Poi, un giorno, ho deciso di provare ad affrontare la cosa in modo analitico. Era mattina, mi sono seduto sul tavolo in soggiorno, mi sono versato un bicchiere di succo d’arancia e ho aspettato che il caffè venisse su. Mi sono detto: qui, il problema, segue due binari paralleli. Il primo: in una società in cui la sfera sessuale inizia timidamente a essere vista come una sorta di tabula rasa, di zona franca, insomma qualcosa all’interno del quale tutto è concesso, a patto ovviamente che questo tutto sia regolato da limiti imposti dalla legge, ma solo dalla legge, e non anche dall’etica, dalla morale o dal costume, ecco, dicevo, in un luogo in cui tutto è concesso e in cui l’unico dogma, l’unico fine da seguire è quello del piacere proprio e altrui, una forma di incesto, se volontaria, se consenziente, può essere perseguita? deve essere perseguita? Oppure anche all’interno di un luogo in cui si pensa di aver estirpato tutti i tabù, alcuni permangono sottopelle, quasi a uno strato inconscio e primordiale del nostro pensare e quindi del nostro agire? Voglio dire: è possibile cancellare tutti i tabù, anche quelli che potremmo definire archetipici, quasi ontologicamente dati, oppure è possibile estirpare solo quelli che si sono sedimentati più in superficie? Secondo problema: se l’incesto non è reale ma percepito, voglio dire, se come nel mio caso l’incesto avviene per mediazione di una terza persona, persona che rende l’incesto possibile – almeno nella mia mente – e al contempo lo disinnesca, annullandone l’avverarsi pratico, concreto, in una situazione del genere, in cui l’incesto è – ma solo “dentro” di me – e non è – nella realtà effettiva – il primo problema viene meno? viene direttamente bypassato?

Quella mattina ho deciso che gliene avrei parlato. Avrei chiamato Hekla, le avrei chiesto scusa, e poi le avrei proposto un terzo appuntamento in cui avrei tentato di spiegarle la situazione.

***

«Scusa ancora per l’altra sera».
«Non importa».
«Grazie della comprensione».
«Ma puoi dirmi cos’è successo? Almeno così evitiamo che ricapiti».
«Ascolta, tu mi piaci».

Ricordo il suo sorriso. E la mano che sbuca da sotto al tavolo per afferrare la mia, in un gesto tenero.

«Anche tu».
«Ma tu mi piaci in un modo particolare».
«Anche tu mi piaci in un modo particolare, Elia».
«Non stiamo parlando dello stesso “modo”».
«Perché
«Fidati».
«Come fai a dirlo?»
«Diciamo che il mio è più particolare di altri».
«Be’, sentiamo allora».
«Non saprei proprio da dove iniziare».

***

Quella sera Hekla mi aveva lasciato parlare. Anche perché inizialmente pensava scherzassi. Quando invece ha capito che facevo sul serio è rimasta sbalordita. Una volta conclusa la spiegazione ha raccolto le sue cose e se n’è andata quasi sconvolta, mormorando qualcosa sottovoce.

In quelle settimane mi sentivo spinto verso una fantasia a cui non volevo e non potevo resistere. Sentivo di dover cedere a quella pulsione; ne percepivo l’autenticità, e la percepivo lungo i muscoli delle braccia, dentro i nervi e nelle ossa. Ogni fluido, ogni liquido, ogni molecola del mio corpo lavorava al fine di realizzare l’immagine immonda che mi si era rivelata nella mente.

Un giorno allora l’ho chiamata e le ho proposto un pagamento. Un pagamento che lei – com’era logico aspettarsi – ha rifiutato. «Non sono una troia». E aveva ragione. Ho cercato allora di spiegarle che quel gesto aveva una matrice – diciamo così – protestante. Il pagamento serviva a me per sottrarmi a un peccato che nell’intimo sentivo di star commettendo; e come i protestanti si assicuravano il paradiso attraverso il denaro, io cercavo di evitare l’inferno per mezzo di una transizione economica. La mia era una macchia che andava lavata, e per lavarla l’unica soluzione che mi era venuta in mente era quella – letteralmente – di un pegno da pagare. A quel punto le ho detto che data la situazione l’unica persona che potevo pagare era lei. Mi ha dato del bugiardo. E dello stronzo. «Le tue sono solo cazzate che inventi per nobilitare le tue perversioni sessuali. E poi che cazzo sei? Edipo?!» Infine ha aggiunto che se mi fossi fatto ancora vivo mi avrebbe denunciato. Subito dopo ha riattaccato.

***

Questo è successo un venerdì. Lo ricordo bene perché sabato, il giorno dopo, era stata organizzata una cena tra amici. Ed è stato a quella cena che Paola, un’amica comune, mi ha riferito che l’azienda in cui lavorava Hekla aveva avuto un tracollo finanziario. Me l’ha detto così, senza pensarci, senza darci troppo peso.

***

A ogni modo, Hekla aveva ragione. Il mio era un desiderio tanto stupido e infantile quanto elementare. Me ne ero accorto solo dopo la telefonata. Quello che volevo era di possedere una donna, che questa donna mi ricordasse mia madre, e di poterlo fare per mezzo dei soldi. Insomma: un risparmio di energia affettiva in cambio di un dispendio di denaro. Ecco tutto. Ecco a cosa mi ero – o meglio, mi sono – ridotto. A un desiderio vivo, attivo, a una pulsione che si sublimi nel nocciolo irriducibile dell’esistenza e che riesca ad appagarmi in modo completo. In quei giorni mi chiedevo costantemente se fossi alle soglie del più basso grado di miseria umana o a un passo dalla più alta forma di realizzazione terrena. Ovviamente non avevo il coraggio di darmi una risposta.

***

«E quanto sarebbe?»
«Sarebbe che?»
«In termini economici, dico».
«Un euro».
«Un euro?!»
«Simbolico».
«Mi prendi pure per il culo?!»
«Ho toccato un nervo scoperto?»
«Ho un padre operaio e una madre bidella. E io, ora, sono disoccupata. Quindi, se permetti, ai soldi do una certa importanza».
«Comunque scherzavo. Sono disposto a pagare bene».

***

Mentre ripenso a tutto questo, guardo Hekla negli occhi. Hekla, in Islanda, è il nome di un vulcano. Il che ha senso, date le sue origini. Sua madre infatti è di lì. Penso a come l’avrebbero potuta chiamare a fattori invertiti, in un universo parallelo in cui i suoi genitori, invece di rimanere in Italia, si trasferiscono in Islanda, un universo parallelo in cui è il padre a scegliere il nome, e il nome che viene scelto è sempre il nome di un vulcano, ma di un vulcano italiano. Come l’avrebbero chiamata? Etna? L’assonanza mi riporta alla realtà; sento la sua carne dolce, morbida, nonostante la schiena tesa, flessa ad arco verso di me, la stessa posizione con cui Hekla, come sempre, si concede. È stato così fin dalla prima volta. Credo sia il suo personale modo di godere di questi piaceri, una forma totale e onnipervasiva di abbandono, e quindi di fiducia, di fiducia nell’altro da sé e di fiducia nel proprio corpo, nel proprio spazio, uno spazio condiviso, ibrido e mutevole. Quando si inarca in questo modo, l’istinto è quello di portare le mie mani dietro la sua schiena, come per sostenere la volta creata dalla spina dorsale. Faccio poi passare le mani sotto il dorso, fino a raggiungere la zona lombare, dove premo leggermente in alto all’altezza dei fianchi. Gli addominali tirano quel tanto che basta da rendersi visibili sotto cute, l’ombelico si schiude, quasi volesse inghiottire l’aria. Mi afferra la mano e la riporta al seno, che stringo fino a vedermi le nocche diventare bianche. Sono arrivato alle colonne d’Ercole del desiderio. Oltre questa soglia non c’è più nulla.

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