Figli di un dio minore

Con la vita che recalcitrava inesplosa nel loro petto e con la ritrosia che costringeva le mani nelle tasche passeggiavano lungo il Parco Est delle Cave, mentre la Martesana scorreva come sangue coagulato.

Lui aveva comprato delle calze per suo padre e suo nonno, come regalo di Natale, lei trovava oscena l’idea di regalare a qualcuno delle calze.
Prima di questo discorso sulle calze: una serie di parole di circostanza e qualche commento su Lontano dal pianeta silenzioso.
Dopo questo discorso sulle calze: chiacchiericcio su conoscenti e familiari attesi, ma non desiderati, per Natale.
Nel mezzo: non se lo dicevano, almeno non ad alta voce, ma volevano vedersi le loro vite salvate, nell’accezione più sincera del termine, quella che solo gli adolescenti sanno riempire di significato o che solo gli adolescenti protetti da brufoli e ormoni riescono a dire senza vergognarsi, senza averne paura della portata. Ma avere lo stesso desiderio non era ancora abbastanza, non era ancora abbastanza per farlo accadere e purtroppo neanche abbastanza per riuscire a dirselo. Non uscivano dalla gabbia dei loro denti le parole che avrebbero voluto, ne strisciavano fuori altre, di parole, fredde.

Lei tornò a casa e vide questa scritta contro il muro del parcheggio. Sembrava graffiata contro quel muro, come chi sottolinea così tanto una parola che gli risulta irrinunciabile e si ritrova a bucare il foglio: il tempo mangia i suoi figli, ma non è del tempo che siete figli. A quanto pare c’erano ancora dei writer in attività.
Lui tornò a casa e sui muri della zona non c’erano tag o messaggi paracristiani. Due giorni dopo le comprò un paio di calze e gliele spedì a casa. Si sforzò di ordinare le più brutte che ci fossero sull’e-shop. Tic toc fanno i giorni che passano e in fretta si scoprono essere così tanti da potere fare un mese, o anche due, e da lei nessuna notizia se calzano bene o se sono brutte come lui ha sperato.
Scrisse al servizio clienti.

Hi Jacopo,
Thank you for writing in!
I sincerely apologize for the delay in responding, due to the high volume of emails coming in during this season. A few days have passed since your last contact, have you received the order?
I just want to double-check if you still need assistance.
Lots of love from The Happy Crew. Thank you for your patience.
Kind Regards,
Chey
The Happy Crew
Customer Experience Representative

Hi Chey,
thanks for getting back to me!
So, here’s the deal: it’s supposed to be a present and I don’t want to spoil her asking if she received it. I guess you should have a way to track the parcel, just for knowing if it has already been delivered (but I don’t see how that’s possible, my friend would have said something to me) or not.
I don’t want to sound as if I am pretending “tracked shipping” when I didn’t pay for it. I mean, the whole point is that I’m trying to make a surprise.
Still, I have really appreciated your availability so far.

Hi there again Jacopo,
Thank you for coming back to me.
As mentioned in my previous email, we cannot provide a tracking number for standard shipping only the date that the order was shipped.
However, please keep in mind that your local post is the last leg of delivery.
Kind Regards,
Chey
The Happy Crew
Customer Experience Representative

Non si sentirono per mesi. Happy Socks aveva deciso di non voler dare una mano a cambiare lo stallo. A lui sarebbe bastato chiedere. Le calze erano arrivate e se ne stavano sotto la scrivania di lei. Se ne stavano lì perché lei non sapeva quando indossarle.

Si era abituata a fermarsi, la sera, con le spalle appesantite da una sudaticcia giornata di lavoro, a fumare una delle sue sigarette, a volte anche un paio dato che si era autoimposta (ma se ne pentiva) di non cedere al vizio all’interno delle mura domestiche. Si era abituata a fumare l’ultima sigaretta della giornata così, con gli occhi puntati al suo appartamento e le spalle protette da quella scritta sul muro. Così tante volte ci aveva palleggiato sopra lo sguardo che iniziò a pensare di averla messa lei stessa, quella scritta sul muro, ma di essersi dimenticata di aggiungere un pezzo.

Un paio di giorni prima di un giorno in cui un certo spessore dell’aria l’avrebbe infelicitata, la sua bff si era sposata. Non riusciva a digerire la sfacciataggine con cui si muoveva tra saluti, amici e parenti, chiusa nel bianco immacolato del suo vestito senza spalline, inorgoglita dal suo destino precoce di sposa e madre. E per non farsi mancare niente si sarebbe pure trasferita all’estero. Tanto nessuna delle due considerava veramente l’altra best friend forever ma a entrambe piaceva chiamarsi con quell’acronimo, e questo era abbastanza. Il matrimonio, purtroppo, non era stato male. Il sole era un eccentrico sole di primavera: gonfio e invadente, anche se marzo era appena agli inizi e annottava ancora presto. Dalle sei in poi c’era pure un leggero alito di vento che asciugava le ascelle prima che l’azzurro del vestito si colorasse di blu. Avrebbe dovuto seguire i consigli che la invitavano a indossarne uno rosso, come il rossetto MAC, ancora sigillato, che aveva intravisto nella borsetta che la sua bff le aveva affidato all’inizio del ricevimento. Forse lo conservava per l’after party. La borsetta gliela aveva allungata così, con nonchalance, dicendole:
«Ehi ff, non è che me la tieni al tuo tavolo? Poi me la riprendo prima di andare, non saprei dove metterla ora. Ah, già, alla fine abbiamo deciso, partiamo».
A volte accorciavano anche l’acronimo, chiamandosi solo con quella doppia effe. Un po’ per farle un dispetto, di cui si sentiva giustificata e come autorizzata dal mancato preavviso di quel trasferimento, un po’ perché un dispetto non lo faceva almeno da quando non indossava più il grembiule bianco delle elementari, forse anche perché dispetto rima con rossetto, in ogni caso un dispetto glielo fece, e sfilò dalla sua borsetta il rossetto MAC e lo fece scivolare silenzioso nella sua tasca.
Ma poi il matrimonio era stato bello. La sposa, quando fece il suo ingresso alla villa del ricevimento, venne accolta dalle urla del cantante cacciate dentro il microfono e mitragliate un po’ ovunque: Well, it’s one for the money, two for the show, three to get laid, now go, cat, go. Lo sposo, mentre erano in coda per andare in bagno e si erano trovati allineati, entrambi a riposare una spalla contro il muro, le aveva detto: «Avevo delle incertezze, insomma sai, ma poi quando l’ho vista entrare è cambiato tutto». Lei non sapeva dire perché quella frase le suonasse aumentata, ma sperava di poter arrivare a dirla, prima o poi. Solo che quel poi sembrava non arrivare mai.
Tic toc fanno i giorni che passano e in fretta si scoprono essere così tanti da poter fare un mese, o anche due, e lei sempre lì lì a essere felice, quasi a farcela a essere felice, ma sempre con quel quasi che rovinava tutto. Tutte quelle preghierine bisbigliate nel letto al suo angelo custode le avevano guadagnato una vita guidata o protetta da un dio, sì, ma un dio minore, uno di quelli con cui ci si congratula perché non si può comunque dire che non ce l’abbia messa tutta.

Un giorno in cui un certo spessore dell’aria la sfiancava perché per buttarla giù le sembrava che dovesse masticarla almeno un po’, in un giorno in cui respirare era anche un lavoro di mascelle ricevette un messaggio («Ciao, ho visto il tuo profilo») su Facebook Messenger, doppiato poco dopo da un secondo («sono disposto a pagare per un video dei tuoi piedi, vorrei aprire una pagina su wikifeet»). Chiese quanto l’avrebbe pagata e l’utente rispose, con qualche acca di troppo e qualche geminata di meno, una cifra che per la sua scarsa conoscenza del mercato non sembrava fuori luogo. La sceneggiatura era abbastanza facile da recitare: doveva inquadrare solo i piedi, ancora protetti dalle calze, sfilarsele entrambe, prima uno poi l’altra. Le caviglie dovevano essere visibili, ma non erano state avanzate richieste specifiche sulle calze.
Mentre resuscitava dall’armadio quelle bruttissime calze della Happy Socks che non pensava avrebbero mai conosciuto la forma del suo piede, si chiese perché stesse facendo quello che stava facendo. Una volta, un grazie al cielo ex ragazzo le aveva detto che l’aveva capita, che sapeva com’era fatta. Si era sentita intrappolata, strappata di quel mistero che sono le persone, come se le avesse mappato tutte le viscere e lei non fosse altro che quello.
«Me li mandi su PayPal?»
«Sì».
Nella gola una supplica di nicotina le impose di cercare la protezione del muretto e il sollievo di una delle sue sigarette.

Scese con le calze a proteggerle i piedi dalla durezza cementificata dell’asfalto. La scritta, graffiata su quel muro, l’aspettava, ancora là, pronta a essere terminata. Il tempo mangia i suoi figli, ma non è del tempo che siete figli. Un Uni Posca ormai secco che aveva trovato nascosto in un cassetto non riuscì a sortire effetto, allora, con una leggera smorfia del viso, si affidò al tubetto del rossetto MAC che non aveva ancora usato da quel giorno in cui l’aria l’aveva sfiancata, ma che si portava dietro presagendo che le sarebbe tornato sicuramente utile. Scrisse: e va bene così, in fondo si continua a vivere anche se poi ci si pensa su e ci si chiede come si è riusciti ad abitare qui protetti soltanto da un dio minore. Il rossetto era quasi finito. Figli di un dio minore, sì, l’ultimo, ma uno che rimarrà sempre fedele a noi.

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