Vibrisse

Lui se n’è andato. Ho sempre un rapido sgomento – il mio cuore, lievemente tremola – quando gli uomini se ne vanno. Dura poco; torno calma.

Recupero un fazzoletto sul comodino, levo i residui perlacei che sono scivolati nella cavità dell’inguine. Sfilo una sigaretta dal pacchetto caduto per terra, la accendo; fumo riversa sulle lenzuola ancora tiepide. C’è un odore che è mio, e un odore estraneo. Mezz’ora fa non lo era: adesso sì. Tra poco mi alzerò dal letto, camminerò fino al bagno – sono completamente nuda – entrerò nei vapori della doccia. Con grande cura detergerò il corpo. L’odore estraneo cadrà, un poco umiliato, ai miei piedi, e poi nello scarico vertiginoso. Il mio odore no – il mio odore non si estingue mai. Devo preservarlo per il prossimo appuntamento.

Non sono più una bambina, eppure non ho mai smesso di dormire con la luce accesa. Il buio è invasivo, così egocentrico – toglie la vista di me a me stessa. Io voglio vedermi e sapere che esisto. Anche nel sonno, il mio corpo vive e pulsa. E tuttavia. Tuttavia ho scoperto, da qualche settimana, la vera natura del buio. Che è un amante come un qualsiasi altro amante. È successo una sera in cui la lampadina si è bruciata. Il velluto della notte mi ha lentamente coperto. Con le sue lingue gelide e felpate ha baciato il contorno dell’ombelico, le ossa in rilievo sotto lo sterno, le mucose del seno. Lasciavo che facesse, per studiarne il comportamento. Ho avuto un’intuizione. Dev’essere così che la morte bacia, quando viene a prenderci – ho pensato.

Anche stasera incontrerò il buio. Ogni sera saluto un compagno e subito mi accingo a riceverne un altro – molto più esigente. Qualche volta mi pare persino di tornare indietro negli anni, mi trovo costretta a dichiararmi goffa e inesperta, come una ragazzina alle prove iniziali di erotismo. Con umiltà lo accetto: unendomi al buio, sto imparando a sedurre la morte. Quando arriverà saprò cosa fare: che lusso. Spero che la morte sia un’amante adeguata: lei non lo sa, ma anch’io sono pretenziosa. È bene che non mi lasci troppo in fretta. Tutti i miei uomini devono avere due requisiti: un certo tipo di passione – rude, anche rozza – e una buona, latente dose di attitudine filiale. Perché appena gli uomini finiscono di possedermi, voglio che abbandonino il capo sul mio ventre, e che riposino, mentre io riposo, e ne sfioro i capelli, appena sopra la nuca. Per qualche momento ho bisogno di sentire che l’affanno dei loro respiri mi appartiene. Che le bocche, sfiorando l’addome, ricordino dove sono state prima di venire al mondo, di cosa e grazie a chi si sono nutrite. Sono grata a loro per quel momento, e per quell’altro – anteriore, infinito – che non è un momento, ma un istante. L’istante in cui il membro si accinge a entrare, proprio quando è lì, sulla soglia, e la punta boccheggiante inizia a penetrare il cuore umido delle mie mucose. Quello è un istante di assoluto non-tempo. È la quarta dimensione.

Il mio piacere è blu. Una vasta, liquefatta distesa blu. L’ho capito grazie al buio. Eppure, ora che ci penso, è sempre stato così. La prima volta che ho varcato la quarta dimensione ero distesa in un prato, nel silenzio della notte. Le cicale frinivano, mentre l’uomo mi invitava a spogliarmi. Come sarebbe? Nuda sopra l’umidità dell’erba? Non volevo. “Sì, lo vuoi”, aveva sussurrato l’uomo. E con l’indice aveva strofinato la punta del mio naso. “Sei proprio un gatto. Senti, questi nei che hai, in rilievo intorno alle narici. Come se dovessero spuntare le vibrisse”.
“Senti”, aveva detto ancora, scivolando tra le mie gambe.
Avevo sentito una fitta di lacerazione. Una seconda, una terza. Non importava. Prima del dolore c’era stata la conquista di una nuova terra. Ondeggiavo, tra la volta notturna e il prato, entrambi scintillanti di luce blu. In coro le cicale cantavano il rito della mia rivelazione.

Sfilo un’altra sigaretta dal pacchetto mentre indugio ad alzarmi. Tanto il buio viene quando lo decido io. Anche ieri ho indugiato. Sono non so come confusa. Ho sempre creduto di amare la quarta dimensione per l’esuberante pienezza di vita, per la sua funzione di preludio alla vita – la sua perfezione. Non è per questo che ho bisogno di accogliere gli uomini con la pelle morbida del mio ventre? Eppure. Non sono più una bambina, ma una volta lo sono stata. E tutti i bambini hanno lo stesso, identico sogno. Che è poi il segreto sogno degli adulti. Sì, questa sera, mi domando se per caso non ne ho voglia anch’io. Di un po’ di grembo. Che per tutti è il ritorno alla nascita, oppure un’altra cosa. Ma certo, che sciocca, sotto le spoglie del buio la morte è venuta a chiamarmi. Vuole che io la raggiunga. Ah, riesco già a sentire il gradevole dissolvimento del pensiero nella sua culla immacolata. Come una quarta dimensione permanente. Sto avendo un’intuizione. Tra il ritorno alla nascita e il richiamo della morte non c’è nessuna differenza. Nessuna. È così, per tutti quanti noi. E tuttavia, è chiaro che non posso più assecondare il buio nemmeno per un istante. Sto diventando brava, con lui: la morte, lusingata, potrebbe avere il desiderio di raggiungermi prima del previsto. Io non posso. Ho un grande impegno da portare avanti, e numerosi uomini da nutrire con i miei gustosi succhi, che sono la linfa della vita. E io, più feconda della madre terra. Quando la morte infine mi avrà, bacerò anche lei – bacerò la cenere in caduta dal suo fiato pestilente, sopra al mio viso, fino a farne materia fertile, polline dorato, che felicemente ingoierò, come una bambina sorridendo.

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