Di sabato Louis Poutpourrá si svegliava tardi, s’affacciava alla finestra dello studió al tredicesimo piano del condominio senza ascensore di rue Tristesse 33, e contemplava il quartiere.
Poi faceva il bagno, si radeva, s’impomatava capelli e baffetti. Quindi beveva il caffè e leggeva il giornale. Da qualche tempo, però, dopo il bagno e prima del caffè, veniva colto da un inspiegabile desiderio di dolcezza.
Erano le 9.28am di un sabato indifferente quando M. Poutpourrá uscì per comprare un pain au chocolat e, già che c’era, pure un croissant al burro. Sarebbe andato da Coeur de Sucre, la boulangerie in rue Désespoir: la sua preferita. Non sapeva che alle 9.13am, proprio all’incrocio di rue Tristesse con rue Désespoir, la piccola Lulú era inciampata, rovesciando sulla strada pomodori, mazzi di basilico e tutto il contenuto della busta di plastica. Dopodiché, era scoppiata a piangere. Bell’aiuto che m’hai dato, la prossima volta rimani a casa!, aveva urlato Mme Fleuri, madre di Lulú, trascinando via la bimba in lacrime ma senza preoccuparsi della pozzanghera d’olio extra vergine d’oliva rimasta nel bel mezzo dell’incrocio.
Non sapeva neppure, il povero Poutpourrá, che quarantatré minuti prima, a sette chilometri di distanza, in rue Enchevêtrement, l’auto dell’ingegner Baptiste Orage era stata tamponata da quella della dottoressa Monique Bontemps, cosa che creò un ingorgo (arrivò pure l’ambulanza, chiamata per scrupolo di coscienza dai passanti!) nel quale erano rimasti imbottigliati i gemelli Jean-Paul e Jean-Pierre Leroux, direttori nonché unici impiegati della ditta di trasporti Gemini. Quel sabato mattina i gemelli avrebbero dovuto terminare un trasloco entro mezzogiorno e poi andare dall’altra parte della città per un altro carico, ma il maledetto ingorgo mandava in malora il loro programma. Per questo, non appena il traffico ricominciò a scorrere, il furgone azzurro dei Leroux si rimise in marcia a tutto gas.
Successe perciò che, alle 9.29am, M. Poutpourrá mise il piede nella pozzanghera d’olio extra vergine di oliva finendo col sedere per terra nel bel mezzo dell’incrocio di rue Tristesse con rue Désespoir. Nello stesso momento, il furgone azzurro della ditta Gemini percorreva lanciatissimo proprio rue Désespoir, nella traiettoria giusta per travolgere lo sfortunato Poutpourrá. I gemelli frenarono, ma visto che la tragedia sembrava ormai irrimediabile ricorsero a una manovra d’emergenza, sterzando a destra e finendo col muso del furgone contro uno degli alberi frondosi di rue Désespoir: gli affari sono affari, ma i gemelli Leroux, che erano due lavoratori per bene, un morto sulla coscienza non volevano avercelo.
Per il forte impatto, gli sportelli posteriori del furgone della ditta Gemini si spalancarono, facendo scivolare un enorme specchio che finì addosso a M. Poutpourrá, insinuandosi nella giuntura di rotula e tibia, recidendo i tendini e tranciando di netto la sua gamba destra.
Che dolore, oh-la-lá!, si lamentava Poutpourrá il quale, meschino, non s’era ancora reso conto dell’accaduto. Quando notò il sangue mischiato all’olio d’oliva e ai frammenti sbrilluccicanti di specchio, ma soprattutto quando vide la sua gamba destra sola, distante e senza vita, lo scalognato cominciò a singhiozzare e a contorcersi.
Chiamate un’ambulanza!, urlava la gente, ma tutti urlavano e nessuno prendeva il telefono. Finalmente qualcuno fece la telefonata, ma il tempo passava, M. Poutpourrá perdeva sangue e l’ambulanza non si vedeva, perché era rimasta bloccata a rue Enchevêtrement, dove una rissa fra la famiglia Bontemps e la famiglia Orage aveva contribuito a bloccare nuovamente il traffico.
La mia gamba! La mia gamba!, gemeva M. Poutpourrá, mentre i gemelli Leroux provavano a consolarlo. Qualcuno pensò di chiamare i pompieri: non si trattava di un gatto sull’albero, certo, ma i pompieri non si sarebbero rifiutati di soccorrere il pover’uomo. E così fecero, i pompieri, prendendo fra le braccia l’estenuato Poutpourrá il quale, prima di svenire, disse: Non dimenticate la mia gamba! Non lasciatela in mezzo alla strada come una cosa inutile! Non voglio che creda di essere stata abbandonata! È sempre stata una gamba così buona, così brava!
Poi svenne, e mentre sveniva si chiedeva: come farò senza la mia gamba? Ho lavorato per quindici anni alle poste senza mai una promozione. Ora che promozione mi daranno? Per giunta mi metteranno nello scantinato, da solo, perché adesso sono uno storpio. Con chi parlerò nei momenti di pausa? I colleghi non vorranno più spettegolare con me. E quando tornerò a casa, come farò a salire le scale dei tredici piani del condominio di rue Tristesse 33? Come farò a sopravvivere, tutto solo?
Sulla soglia dell’abisso dello svenimento, Poutpourrá ebbe ancora tempo di formulare un ultimo pensiero e quel pensiero aveva la forma di un viso, quello di Claudette, la ragazza dietro il bancone della boulangerie Coeur du Sucre. Perché era proprio quella, la sua boulangerie preferita? Per le baguette, i pain au chocolat, le tarte au citron, o per Claudette e quei suoi occhi belli e malinconici? Di cosa aveva veramente voglia, Louis Poutpourrá, ogni sabato mattina? Di una colazione sfiziosa o della voce di Claudette? Quante volte era stato sul punto di chiederle il numero di telefono, ma era sempre stato troppo timido. Chi mai avrebbe voluto uscire con un impiegato delle poste di mezza età, con capelli e baffetti impomatati e pochi soldi in banca? Eppure Claudette gli sorrideva sempre, eppure forse una speranza c’era. O meglio: c’era stata. Se fosse stato più spavaldo, la sua vita vera sarebbe cominciata da parecchi anni. Ma Louis Poutpourrá era sempre stato timido e insicuro. Adesso che era anche storpio la sua vita, che non era mai cominciata davvero, era finita per sempre.
Vi prego, non dimenticate la mia gamba: così aveva implorato Louis Poutpourrá. Ma presi dal tourbillon degli eventi, nessuno badò alla sua gamba, che venne lasciata là dov’era, nel bel mezzo dell’incrocio di rue Tristesse e rue Désespoir. Alle 10.19am di quel sabato mattina spietato, chi aveva assistito all’incidente non si trovava più nei paraggi, anzi se n’era già dimenticato, mentre chi passava in quel momento, non avendo idea di cosa fosse successo, non prestava troppa attenzione al fatto che in mezzo alla strada ci fosse una gamba. Gli automobilisti la evitavano senza porsi troppi quesiti, mentre i pedoni la scambiavano per un nuovo ornamento avanguardistico pagato dal comune coi soldi dei contribuenti. Questi artisti di oggi non sanno più che inventarsi, pensava qualcuno con spirito critico. Molti neanche riuscivano a vederla: la gamba era talmente fuori luogo da non essere nemmeno percepibile.
L’unico che se ne interessò fu M. Daniel Soussur. Probabilmente perché lui, a differenza degli altri, aveva una gamba sola ed era quindi più propenso a notare tutto quello che di gambesco si offrisse alla sua vista. Ciò che quella gamba scompagnata esercitò su M. Soussur fu un richiamo irresistibile. Destreggiandosi sulle stampelle, arrivò al centro dell’incrocio, prese la gamba, se la mise sotto l’ascella e si precipitò a casa, al quattordicesimo piano del condominio con ascensore liberty di rue Tristesse 32.
Il suo cuore impazziva. E se qualcuno mi ha visto? E se mi accusano di furto? E se dovrò restituirla? E se dovrò pagare una multa? M. Soussur chiuse la porta dello studió con due violenti colpi di chiave e decise di calmarsi.
Sin da piccolo, Daniel Soussur non aveva desiderato altro che avere una gamba destra. Da bambino pregava il Buon Gesù di fargliela avere. Se avessi una gamba destra potrei inginocchiarmi per pregarti meglio, diceva il piccolo Daniel, usando tutte le sue armi per persuadere il Buon Gesù a compiere il miracolo. Ma il Buon Gesù non si lasciava corrompere. Crescendo, il giovane Daniel Soussur cominciò a leggere riviste mediche e di scienze naturali, a informarsi sugli sviluppi delle nuove tecnologie, a guardare documentari e cercare notizie su internet. Sapeva che le protesi erano diventate sempre più sofisticate, poi sempre più verosimili e infine, superando sé stesse e i propri scopi, sempre più incredibili. Erano state prodotte protesi talmente portentose che certuni sceglievano volontariamente di farsi amputare i propri arti pur di godere dei vantaggi di quelli bio-supersonici. Questi ritrovati di tecnologia di lusso erano carissimi e lui non avrebbe potuto permetterseli neanche se avesse risparmiato per quarant’anni. Ma non si trattava solo di un impedimento di natura economica, era anche una questione di principio. Una protesi formidabile non avrebbe reso M. Soussur uguale agli altri: lo avrebbe reso diversamente diverso. Lui voleva solo avere una gamba destra, nient’altro che una gamba destra. Quella gamba in mezzo alla strada, non era forse un miracolo? Non era stata la realizzazione del suo più grande desiderio?
Daniel Soussur cominciava a sentirsi un po’ più in pace con sé stesso: non era un ladro e non aveva fatto niente di male. Raccogliendo la gamba abbandonata aveva accolto il miracolo che il Buon Gesù, dopo svariati decenni, aveva finalmente deciso di compiere. Certo, nelle sue preghiere di bambino chiedeva una gamba destra, sì, ma attaccata al resto. Uno però mica può fare lo schifiltoso coi miracoli. Al massimo impara a pregare meglio.
Immerso nella celestiale schiuma del bagno caldo, M. Soussur guardava la gamba con tenerezza. Preso da una smania amorosa uscì dalla vasca, tolse dalla gamba il pantalone, il calzino e il mocassino, poi la immerse con sé nell’acqua schiumeggiante. La massaggiò piano, grattando via i rivoletti di sangue. Si sdraiò facendo combaciare l’estremità della gamba col suo ginocchio destro. Spostò la schiuma con le mani e per la prima volta in vita sua si vide completo.
Si domandò come sarebbe stata tutta la sua vita se solo la gamba fosse stata con lui sin dall’inizio. Da piccolo avrebbe giocato a palla con gli altri bambini e sarebbe cresciuto pieno di amici. Da giovane avrebbe viaggiato: quante avventure avrebbero vissuto, lui e la sua gamba! In seguito avrebbe conosciuto Isabelle e lui non sarebbe stato solo un amico per lei, non sarebbe stato uno degli invitati al suo matrimonio. E se con Isabelle non avesse funzionato, ne avrebbe incontrate tante altre e le avrebbe amate tutte. Se solo avesse avuto una gamba destra tutta per sé, anche gli altri organi e arti avrebbero funzionato a dovere. Persino il suo cuore. Ma M. Soussur aveva vissuto senza la gamba destra e quindi senza il resto.
Non tutto era perduto: la sua vera vita era appena cominciata. Non ti lascerò mai, disse M. Soussur prima di addormentarsi fra i fumi e i profumi della vasca da bagno. Al suo risveglio, asciugò la gamba dolcemente e la sistemò al centro del tavolo rotondo. Mai, le disse.
Nei giorni successivi M. Soussur sembrava rinato. I colleghi della banca si accorsero del suo buon umore: lavorare con lui era una festa. Il direttore notò la sua produttività: nel giro di poco era diventato il miglior impiegato e ben presto quell’uomo meritevole si sarebbe trovato un bell’aumento in busta paga. E Juliette, la vice-segretaria del direttore, forse aveva notato qualcos’altro visto che intorcinava le ciocche biondo cenere ogni volta che incrociava gli occhi ardenti di Daniel Soussur.
Se prima i suoi pomeriggi e le sue serate trascorrevano nella noia più insensata, dopo il miracolo della gamba M. Soussur aveva riscoperto tutta la creatività che aveva a lungo soffocato. Comprò fogli, matite, chine, tele, pennelli e ricominciò a dipingere. Dipingeva, soprattutto, la gamba. La gamba maestosa e fiera, eretta al centro del tavolo rotondo. La gamba avvolta dai bagliori argentini dell’aurora, o accarezzata dalle ombre seducenti del crepuscolo. La gamba di fronte, di lato, in prospettiva. Particolari della gamba. Era eclettico nello stile: la gamba barocca, la gamba fiamminga, la gamba rinascimentale, la gamba impressionista, la gamba espressionista, la gamba puntinista, la gamba macchiaiola, la gamba collage e la gamba pop art. Per non parlare delle fotografie. La vecchia macchina fotografica era stata rispolverata e le foto a colori e in bianco-e-nero della gamba non si potevano più contare. Non avendo mai vissuto pienamente a senza una gamba destra, ora che ne aveva trovata una viveva esclusivamente per lei.
La gamba era la sua musa e lui se ne prendeva cura con impareggiabile zelo. La massaggiava con creme emollienti e oli essenziali. Per proteggerla dalla calura della stagione, le spruzzava l’acqua fino a ricoprirla di una pellicola di goccioline vellutate. Grazie alle sue cure amorevoli, la gamba era diventata bellissima: bianca, liscia e lucida come la cera, come una colonnina di marmo levigato. E profumata, anche. Era, senza ombra di dubbio, la gamba più curata al mondo.
La sera, prima di andare a letto, M. Soussur spalancava i vecchi album di fotografie, mostrando alla gamba come era stato da piccolo, da ragazzo, da adulto. Se solo ci fossi stata tu, quante cose avremmo fatto insieme! Poi le dava la buonanotte ricoprendola di piccoli baci. La mattina dopo si svegliava di buon umore, perché sapeva che la gamba lo aspettava, maestosamente eretta al centro del tavolo rotondo.
Una notte, però, venne svegliato da urla terribili che straziavano il quartiere. Si trattava del povero M. Poutpourrá, dimesso dall’ospedale e tornato nello studiò al tredicesimo piano di rue Tristesse 33.
La mia gamba! La mia povera gamba! Dove sarà finita? Dal quattordicesimo piano di rue Tristesse 32, M. Soussur poteva vedere Louis Poutpourrá affacciato alla finestra, tremante, i capelli spettinati, la saliva sulla bocca fremente di brividi, il pigiama sbottonato sul petto. Ululava la sua disperazione al buio, l’inconsolabile Poutpourrá, maledicendo la gente che non si era presa cura della sua gamba, le ditte di trasporto, il traffico urbano, le pozzanghere d’olio d’oliva, le voglie di pain au chocolat e la sua timidezza.
Da dietro la tenda della sua finestra, Daniel Soussur osservava quella scena lacerante con un misto di commozione e paura. Non può urlare in questo modo! Spaventerà la gamba!, pensava. In effetti la gamba si era svegliata con un sussulto e aveva cominciato a emettere strane vibrazioni. E se avesse riconosciuto la voce del vecchio padrone? E se le fosse venuta voglia di tornare da lui? La prese in braccio, per consolarla. Quell’uomo ti ha abbandonato in mezzo alla strada, ma io non lo farò mai. Mi prenderò cura di te per sempre, perché ti amo. Così dicendo fece rasserenare la gamba, che si addormentò mansueta fra le sue braccia.
Ma l’apprensione di M. Soussur non si placava. Aveva cominciato ad avere paura di tutto: che la gamba fuggisse per tornare da M. Poutpourrá, che M. Poutpourrá scoprisse tutto, che tutti scoprissero il suo segreto. Era nel panico. Di punto in bianco, smise di andare a lavoro: non poteva lasciare la gamba da sola, con tutti i rischi che ciò avrebbe potuto comportare. Non rispose mai alle telefonate del direttore e quando i colleghi, preoccupati, bussarono alla sua porta, lui fece finta di non esserci tutt’e quindici le volte. Teneva le finestre chiuse e le tende tirate: non poteva rischiare che qualcuno vedesse la gamba!
Ben presto, l’aria del suo studiò divenne irrespirabile. La gamba aveva perduto la sua carnagione porcellanosa acquisendo un colore verde-licheno. Era anche più gonfia del solito. Forse aveva bisogno di prendere aria. Forse, Dio non voglia!, era malata.
Per farla guarire, Daniel Soussur la massaggiava con una pozione di vino rosso riscaldato con cannella, zenzero e miele. Nel giro di due o tre giorni, la gamba era diventata più candida e splendente che mai e il cuore di M. Soussur si riempì di una gioia indescrivibile. Subito riprese coi quadri e i servizi fotografici: il suo unico scopo, l’unica cosa che contava nella sua vita, era la contemplazione, la venerazione e la reiterata rappresentazione della divina gamba.
Una sera spense le luci e scostò un poco la tenda della finestra, per osservare dalla sua posizione strategica come andavano le cose nello studió al tredicesimo piano di rue Tristesse 33. Con sua grande meraviglia, vide che c’era una festa: gli impiegati della posta mangiavano, bevevano e ridevano alle battute del loro collega, M. Louis Poutpourrá, il quale parlava, agitava le braccia e sfoderava un sorriso contagioso. Perplesso, Daniel Soussur tornò ai suoi schizzi e ai suoi bozzetti.
Dopo non molto, la gamba tornò a gonfiarsi e a emettere odori ripugnanti. A nulla servirono il vino, il miele, lo zenzero e la cannella, ma neppure le ninna-nanne, le serenate e i poemetti. Daniel Soussur era sull’orlo della follia, specie perché la pelle della sua amata gamba, fino a poco tempo prima così lucida, tesa e compatta, aveva cominciato a screpolarsi e a raggrinzirsi. Le grinze divennero spaccature profonde, dalle quali un giorno cominciò a sgorgare un liquido bavoso e oscuro che aveva l’odore della morte. È finita, pensava rassegnato M. Soussur. Stavolta è davvero finita: la mia povera gamba sta morendo.
Ma il liquido pestilenziale si asciugò e la pelle spaccata della gamba si indurì fino a diventare corteccia di albero. Dalla corteccia sbocciarono fiori bellissimi dai colori accecanti, che riempirono lo studió del profumo del sole. Strabiliato, M. Soussur decise di realizzare il suo progetto artistico più ambizioso: dipingere sulle pareti e sul soffitto dello studió un ciclo allegorico dedicato alla storia epica dell’Eroica Gamba, trasformando la propria dimora nella cattedrale votata al culto dell’arto miracoloso.
L’affresco lo impegnò per svariati mesi, durante i quali mangiò poco e dormì meno. Ultimata la sua Cappella Sistina, andò in bagno per rinfrescarsi la faccia. Guardandosi allo specchio non poté trattenere un urlo: magro, coi segni del travaglio artistico sul volto e gli occhi spiritati, Daniel Soussur stentava a riconoscersi. Esausto e malandato, rimase a letto per tre giorni.
Il quarto giorno si alzò e, per la prima volta dopo tanto tempo (mesi? anni?), si concesse un cambio di soggetto: avrebbe dipinto il suo autoritratto. Sarebbe stata l’icona dell’artista devoto alla musa, corroso dall’arte e sacrificato alla bellezza del miracolo. Un autoritratto semplice e duro, spietato ed emotivo, colmo di brutale romanticismo. Preparò la tela, il cavalletto e uno specchio, continuò a spennellare anche dopo il tramonto, quando fu costretto ad accendere le candele. La gamba fiorita lo osservava curiosa dall’alto del tavolo.
Ma il rumore di rue Tristesse lo distraeva. Di nuovo scostò la tenda della finestra per vedere non visto. Di nuovo il rumore proveniva dall’appartamento al tredicesimo piano del condominio di fronte. Che avevano da far festa i colleghi di M. Poutpourrá? Ecco, se ne andavano. Se n’erano andati, finalmente. Perché la luce era ancora accesa? Una persona era rimasta: non era forse la panettiera della boulangerie in rue Désespoir? E come mai adesso era Louis Poutpourrá a tirare la tenda per non essere visto?
Confuso, M. Soussur tornò al suo autoritratto. Appena avvicinò la candela alla tela, i brividi gli divorarono le viscere. Poteva osservare il risultato del proprio lavoro: su uno sfondo fiammingo aveva dipinto con precisione e dovizia di particolari le sue spalle sconfitte e la sua camicia lisa, ma quello che nell’autoritratto doveva essere il suo collo si allungava esageratamente fino a prendere le fattezze di una gamba capovolta e, al posto della sua faccia da martire, attaccato a quel collo gambiforme si delineava l’immagine in chiaroscuro di un piede beffardo. Eppure era convinto di aver passato ore a disegnare sé stesso! Un suono soffocato lo distrasse dallo shock momentaneo. Nella penombra dello studió riusciva a vedere la gamba in preda a piccoli spasmi soffocati: stava ridendo di lui.
Da quella volta, M. Soussur cominciò a nutrire sentimenti conflittuali. Non capiva se amava la gamba o se ne aveva paura, oppure se l’amava proprio perché ne aveva paura. La mattina si svegliava e notava particolari strani. I fiori e le piccole piantine profumate sulla corteccia della gamba cambiavano spesso forme e colori. Anche la gamba stessa sembrava assumere ogni giorno posizioni leggermente diverse. Era evidente che non se ne stesse buona buona al centro del tavolo rotondo. Era un po’ più vicina al bordo, ma quando e come si era mossa? Dal letto alla parete opposta dello studió, lui la osservava: la gamba sempre più vicina al bordo del tavolo. Quindi, in un certo senso, sempre più vicina al suo letto.
Per la prima volta dopo moltissimo tempo (quanti anni erano trascorsi? o erano state solo settimane?), M. Soussur uscì per andare a comprare qualcosa da mangiare. Si perse, perché non riconosceva più le strade e gli edifici. Intanto osservava i passanti con sospetto. Guardava le loro gambe e si chiedeva: dove sono i fiori e le piantine, sulla corteccia di quelle gambe? E perché sono così nude, così barbaramente scorticate? Le gambe non dovrebbero essere così. O forse sì: le gambe dovevano essere così e semmai era la sua gamba destra a essere contro natura. O forse no: la sua gamba destra viveva in uno stato naturale, sarebbero state come lei anche tutte le altre gambe se solo si fossero liberate dalla schiavitù dei beceri corpi umani.
Indugiando nelle sue cogitazioni, M. Soussur aveva ripreso la via di casa quando s’imbatté in Jean-Paul e Jean-Pierre Leroux, della ditta Gemini, impegnati a caricare sul furgone azzurro i mobili prelevati da uno degli appartamenti di rue Tristesse 33. Erano i mobili di M. Poutpourrá, che osservava dal marciapiede tutto contento. Era cambiato: non aveva più i baffetti, i suoi capelli erano scompigliati, da quando aveva avuto l’incidente aveva sviluppato dimestichezza nel maneggiare le stampelle e nel porgere il braccio a Mlle Claudette, che entro qualche settimana sarebbe diventata Mme Poutpourrá.
È tutto molto strano, pensò M. Soussur.
Rientrato nello studió, lo trovò sottosopra. Era stata sicuramente la gamba che, completamente fuori di sé, aveva disfatto il letto, frantumato piatti e bicchieri, strappato tutti i ritratti, le acqueforti, le fotografie, spezzato il cavalletto. Aveva distrutto, persino, i vecchi album con le fotografie del piccolo Daniel. Poi se n’era tornata sul tavolo rotondo, come se nulla fosse. Forse si era arrabbiata per essere stata lasciata da sola tutto quel tempo, chissà.
Non appena Daniel Soussur farfugliò qualche parola di scusa, la gamba cominciò ad agitarsi, le crepe sulla sua corteccia si spalancarono, si ruppero e divennero piccole bocche che divorarono tutti i fiorellini e le piantine, masticandole senza pietà per poi sputarle via con una smorfia di disgusto. Angosciato, monsieur Soussur si avvicinò per calmarla. Tese una mano per accarezzarla con amore, come aveva sempre fatto. Una delle bocche della gamba, però, lo morse.
Quella notte, M. Soussur faticò a prendere sonno. Si domandava: cosa desideravo veramente, quando da bambino desideravo una gamba destra? Pensieri malsani si affollavano nella sua testa. E se la gamba fosse diventata pericolosa? Avrebbe potuto abbandonarla da qualche parte, o chiuderla a chiave nel canterano, o addirittura affogarla nella vasca da bagno. Erano tutti pensieri orribili.
La mattina successiva riaprì gli occhi e si accorse che la gamba non era più sul tavolo rotondo. Quando li abbassò, vide che era lì, ai bordi del letto: la gamba si era avvicinata, silenziosamente, mentre lui dormiva. Spaventato, M. Soussur afferrò una stampella e la colpì, per allontanarla. La gamba oscillò e cadde all’indietro.
M. Soussur era terrorizzato: doveva assolutamente andare a chiedere aiuto. Si fece leva sulla stampella e si diresse verso l’uscio. Ma la gamba, lunga distesa com’era, gli fece lo sgambetto. Lui cadde bocconi, sbattendo il muso sul parquet scricchiolante. La gamba allora gli saltò addosso: Daniel Soussur sentiva quelle mille bocche voraci mordergli le cosce, le spalle, il collo, le guance. E ogni bocca intonava il canto dell’orrore: l’orrore indescrivibile delle preghiere dimenticate, di quelle sbagliate, di quelle esaudite quando era troppo tardi.
Daniel Soussur non riuscì nemmeno a urlare. Il dolore gli esplodeva nel petto, ma senza far rumore. Fino all’ultimo, quello che doveva essere il suo grido sembrò giusto uno sbadiglio strozzato.
Quando i vicini, infastiditi dagli odori corrotti provenienti da quello studió in rue Tristesse 32, prima bussarono alla porta e poi la sfondarono, non trovarono solo fogli sparsi, tele sbrindellate, foto strappate. In quel caos indescrivibile, infatti, non si poteva non notare un immotivato mucchio di fiori ai piedi del letto. L’eccentrica composizione floreale aveva la forma di un uomo dalle proporzioni che, bene o male, ricordavano la corporatura di M. Daniel Soussur. Un uomo fatto di fiori, con una testa, due braccia, due gambe.