“C’è un cielo stupendo sembra fatto di vento”1, mi hai insegnato la luce che c’è prima che arrivi un terremoto, i marciapiedi hanno pietre di inciampo con due lettere: le iniziali di come ci chiamavamo, S di Sciocchezza, R di Responsabilità. Forse, avrei dovuto scegliere, per te, una A.
Cammino a testa bassa. Sempre. La luce del terremoto arriva anche in basso; se guardi in alto, non vedi le cose abbandonate. Le graffette verdi che le bambine piegano a cuore. Le viti abbandonate, le pietre di inciampo con iniziali sbagliate, date che sono sortilegi all’incontrario: numeri pari, solo due e multipli di due, un incantesimo e tu non ci sei più. Braccialetti di fili di cotone colorato. Tappi di birra. Fazzoletti di carta usati, tanti, troppi, terremoti arrivati. Libri di latta. Fanno rima con il cielo stupendo, la luce del terremoto, le case pastello. Cammino. Conto. Quello che ho messo dentro non supera ciò che ho buttato fuori, accogliendo cose abbandonate, cattivi presagi in arrivo. Cammino, contando. Conto, camminando. Muovo le labbra. Inciampare: quanto ha fatto scendere il bilancio? Non basta. Vado in un vicolo, porto la mente allo sguardo di quando mi hai vista nuda, per la prima volta, arriva il conato. Non basta. Tolgo dalla borsa in plastica il branzino.
Ricordo. Torno a casa.
La porta di ingresso è bianco burro, non ci sono serrature visibili dall’esterno, solo una cavità in acciaio, grande abbastanza per infilarci quattro dita, il pollice rimane fuori; il pavimento mostra la sua età con chiazze verde anguilla, ha già i segni di un’adolescenza vivace, graffi solchi tra una lamella e l’altra, poste in verticale.
Sulla destra, un mobile bianco ottico ha una prima anta a tutta altezza con una lunga maniglia in acciaio satinato; un vano centrale, chiuso da una serranda grigia, sormonta un cassettone a estrazione bianco; le guide della serranda, rotte, la bloccano storta, come me, a tre quarti, e si intravedono i ripiani a griglia che sostengono pirofile, memorizzo tutto. Credo che i cani, prima di morire, facciano così.
Nella parte inferiore un forno a microonde, uno spremiagrumi, una lampadina, rotta.
Una metafora vigliacca.
Il mobile termina con un’anta: aprendola si vedrebbero un servizio da tè, alcune tazzine senza manico, altre sole senza il loro piattino. C’è sempre un senza.
Un tavolo rotondo di cristallo, diametro novantanove centimetri – tra i più e il meno, sempre il meno – la struttura portante in acciaio, che accoglie il pianale come un ragno con la sua preda, riempie lo spazio rimanente.
Sono seduta per terra, ora. Le pietre di inciampo lontane; la luce del terremoto su una foto, l’ultima cosa che vedo. La schiena appoggiata al frigo, ho i piedi scalzi, la linea perfetta dell’unghia ha una sbeccatura millimetrica nello smalto, mi scavo la pelle dura del tallone, butto le scaglie sul pavimento a fianco.
Alla mia sinistra, sul piano cottura la moka è rovesciata, il caffè contrasta con il bancone bianco per fondersi armonicamente con il legno industriale del pavimento.
Mi asciugo un occhio con il polsino del pigiama grigio, è giugno.
Prendo il tagliere bianco, lo appoggio sul bancone. Prendo una fetta biscottata, la mastico lentamente, la sputo la menzogna non ha la storia di qualcosa che finisce in silenzio, la riduco in bolo liquido – lo faccio spesso: mastico a lungo, senza mai inghiottire, poi apro l’anta sotto il lavello, butto con violenza la poltiglia nell’umido.
Mi volto, prendo dal vano i guanti in lattice, apro la borsa in plastica, sento lo stomaco contrarsi, le labbra si informicolano, le dita delle mani perdono sensibilità; riesco ad appoggiarlo sul tagliere, lo scarto. Le pietre di inciampo? Perché ci siamo persi?
La bocca è aperta, il corpo grigio lucido viscido, leggermente incurvato, mi sembra di vedere l’ultimo spasmo prima della morte, penso che sarebbe bello avere una chiavetta USB, con un solo file, una sola immagine, quella che sarà l’ultima ad appoggiarsi alla nostra retina, penso che vorrei fare come i cani vecchi, che un giorno li vedi andare via, camminando zoppi, il pelo secco, irto, puzza di umido, annusano a terra, cercano un posto dove sdraiarsi, piegare le zampe sotto la testa e andarsene; gli occhi, neri, sono fissi verso il vuoto; l’odore mi fa girare la testa, si mischia a quello del caffè a terra, a quello della salvia bianca. L’ultimo incantesimo.
it|tio|fo|bì|a
pronuncia: /ittjofoˈbia/
sostantivo femminile
PSICOLOGIA paura morbosa per i pesci, dice il dizionario online.
Respiro, mi riavvicino al bancone, apro il cassetto, prendo un cucchiaio. Lo infilo nei bulbi oculari del pesce, li estraggo. Li metto in bocca.
R, di Responsabilità; S, di Scarto.
1 Tratto da Giorgio Poi (feat. Elisa), Bloody Mary, in Gommapiuma, 2021.