Quando il mio amico Andrea mi ha inviato quel meme ho capito subito che aveva bisogno di parlare. Magari non necessariamente con me, sarebbe andato bene chiunque. In ogni caso non potevo ignorarlo.
Dopo uno scambio di battute gli ho chiesto come stesse. Non ci vedevamo dal compleanno di Lucia, quando era dovuto scappare via dopo la mezzanotte perché Paola si era sentita poco bene.
Giusto un po’ d’ansia, mi ha risposto. Le cose stanno cambiando così in fretta.
Ho riletto quelle parole quattro volte. Non aveva capito, Andrea, che le cose erano già cambiate.
Facciamoci un giro stasera, gli ho scritto. Così mi racconti.
Percepivo la sua esitazione attraverso la schermata di WhatsApp. Allora l’ho spronato. Non facciamo tardi. Fidati, è quello di cui hai bisogno.
Sono passato a prenderlo alle nove e mezza. Non mi capitava di uscire così presto da dopo il liceo. Mi è venuto incontro trafelato, continuando a guardare su, verso la luce al quinto piano.
Che occhiaie, gli ho detto.
Manuel ci tiene svegli tutte le notti, ha risposto.
Io pure dormo poco di recente, ho aggiunto, ma per altri motivi.
Mi sono pentito di quella cattiveria gratuita, soprattutto dopo aver scorto l’invidia nel suo sguardo.
Non ci pensare. Stasera non ci sono mogli, figli, lavoro, stasera non c’è niente. Ci siamo io e te che andiamo a bere qualcosa come ai vecchi tempi. Ok?
Andrea ha annuito. Ok. Dove andiamo?
Ho sorriso. Un posto tranquillo. Forse ci raggiungono un paio di amici.
Così, davanti a due boccali di birra, il mio amico Andrea mi ha riversato addosso mesi di paure. Il timore di essere inadeguato, di non saper gestire le cose, di dare a Manuel gli insegnamenti sbagliati, come suo padre aveva fatto con lui. Lo ascoltavo perché era giusto così, perché non si lascia un amico col culo a terra. Ogni due secondi guardava il telefono per controllare se Paola avesse scritto qualcosa. A una certa gliel’ho tolto di mano e me lo sono messo in tasca.
Miche’, ma che fai?, ha detto. Ti salvo la serata, ho risposto. Paola sa che sei qua, se serve ti chiama.
Mentre il locale si popolava, ho visto la tensione scivolargli via dalle ossa. Ho ordinato due shottini di Jäger. Alla nostra, ho detto. Abbiamo fatto tintinnare i bicchierini, poi ho fatto segno al barista di farne altri due. Andrea ha provato a dire di no. Gli ho messo una mano sulla spalla. Amico mio, gli ho detto guardandolo negli occhi. Chissà quando ci rivedremo. Te lo chiedo per favore. Goditi questa fottuta serata. Ok?
Ha inspirato, poi ha buttato fuori tanta di quell’aria che credevo mi si sarebbe sgonfiato davanti. Hai ragione, cazzo, fanculo tutto.
Daje Andre’. Daje. A che brindiamo adesso?
Si è guardato intorno, soffermandosi un istante su un tavolo pieno di fichette ubriache, poi è tornato a me. Alla vita!
Alla fica! l’ho corretto prima di buttare giù il secondo Jäger. Allora, dimmi la verità: come stai?
E alla fine Andrea è sbottato. Ce l’ha fatta a dirmi che da quando è nato Manuel Paola è sempre nervosa, che anche lui è sempre nervoso perché non dorme un cazzo, non ha più tempo di fare niente e quello stronzo del capo l’ha richiamato dopo appena due giorni di paternità perché pare che senza di lui la baracca non vada avanti e non può permettersi di farsi licenziare proprio adesso. Ha aggiunto che è l’assenza di alternative a mandarlo ai matti, che non c’è libero arbitrio che tenga: quando si diventa padre, bisogna comportarsi bene, il resto passa in secondo piano.
Lo capisci? ha chiesto. Continuava a dirmi Lo capisci? come se le sue fossero verità universali, come se fossi io lo stupido che era finito in una strada senza via d’uscita. Ha continuato dicendo che amava Paola, la amava alla follia, ma certe volte era così dura che rimpiangeva ogni scelta fatta, e poi si sentiva in colpa per aver partorito quei ragionamenti.
Durante quello sproloquio è arrivato il giro di Jägerbomb. Non ha neanche brindato, l’ha buttato giù come fosse acqua. Prima che potesse riprendere è suonato il telefono. L’ho visto scattare sulla sedia. È il mio, gli ho detto, rilassati.
Dieci secondi dopo sono comparse Ludo e la sua amica e si sono sedute insieme a noi. Ludo ci ha presentato Anna, che ha stretto la mano prima a me e poi ad Andrea, d’improvviso diventato tutto serio. Mentre loro erano in bagno, lui mi ha detto Che cazzo stai facendo? Gli ho chiesto che intendesse.
Avevi detto un paio di amici. Al maschile.
L’ho guardato sardonico. La prossima volta uso le schwa, così non rompi.
Io sono sposato. Te lo ricordi, sì?
Mi sono avvicinato. Non vedo pistole puntate alle tempie.
Si è sbracato sullo schienale, proprio mentre le ragazze tornavano. Ludo ha ordinato un giro di tequila limone e sale, Anna ha preso a parlare dei due esami che le mancavano per laurearsi. Quando le ho chiesto cosa studiasse ha risposto filosofia e allora Andrea si è acceso, ha detto Io pure ho fatto filosofia, conosci D’Antuono? Lei ha risposto Certo, ho seguito il corso su Adorno con lui. Mentre parlavano di estetica e altre cazzate, io toccavo la coscia di Ludo e le chiedevo se si ricordava della scommessa. Lei ha sollevato appena la gonna per farmi vedere le autoreggenti. Ho sentito l’arsura serrarmi la gola. Ho ordinato un altro giro. A Tinder! ho urlato ignorando lo sguardo stranito di Andrea.
Poi ho messo la mano in tasca. C’erano due chiamate perse sul telefono del mio amico. Le ho ignorate e ho preso la bustina di coca. Volete? ho chiesto. Anna ha risposto subito di no, Andrea l’ha seguita a ruota. Mentre loro ordinavano un giro di Disaronno e si facevano sempre più vicini per sovrastare la musica, io e Ludo siamo andati in bagno. Ho steso due belle strisce davanti allo specchio e le abbiamo tirate lì. Il cuore ha preso a pompare adrenalina e nei suoi occhi ho letto il desiderio. Ci siamo chiusi nel cesso: lei mi ha fatto un pompino rapido in ginocchio accanto alla tazza, io l’ho fatta venire con le dita.
Quando siamo tornati di là, Andrea e Anna si stavano baciando. All’orecchio di Ludo ho sussurrato Hai perso. Senza scomporsi si è guardata intorno, poi si è tolta il tanga e me l’ha infilato in tasca.
Ho fatto partire l’applauso. Andrea si è staccato da Anna e mi ha fissato con una smorfia di orrore. Lei, imbarazzatissima, guardava Ludo in cerca di approvazione. Ho ordinato un altro giro di shot misti. Andrea però non ha bevuto. Mi ha chiesto il telefono. Gli ho detto di calmarsi, ché la serata era ancora lunga. Ha insistito. Stai facendo una cazzata, gli ho detto, sbattendoglielo in mano. Un lampo di terrore gli ha fatto tremare le labbra quando ha visto l’ora e le chiamate perse. È scappato fuori. Attraverso i vetri lo vedevo sbracciarsi, portarsi la mano alla fronte. Nel frastuono, sentivo Anna dire a Ludo quanto le piacesse il mio amico.
È sposato, ho detto senza guardarla. E ha pure un figlio. Non farti illusione, Annare’.
Quando è rientrato, lei stava a braccia conserte. Lui mi ha guardato, ha guardato lei, poi Ludovica, che si è limitata ad alzare le spalle.
Devo rientrare, ha detto. Nessuno ha replicato.
Le abbiamo salutate e siamo saliti in auto. Nessuno dei due parlava. In sottofondo la radio mandava una canzone di Calcutta.
Sotto casa sua, Andrea è rimasto qualche secondo a fissare la luce al quinto piano, la mano sulla maniglia. Miche’, ha detto poi, sei proprio uno stronzo.
Dimmi un po’, ho risposto, ce l’ho ficcata io la lingua nella gola di Anna?
L’ho visto sobbalzare, come colpito da una fucilata. Senza aggiungere altro, è uscito sbattendo la portiera.
Ho guidato piano verso casa, controllando le notifiche sul telefono a ogni semaforo.
Dopo aver parcheggiato, ho steso una striscia sul cruscotto, poi sono sceso e mi sono acceso una sigaretta. Espirando ho guardato verso l’alto, verso il mio appartamento che, da lì, era identico a tutti gli altri. Ho ripreso il telefono, ho cercato l’app di Alexa e le ho ordinato di accendere la luce sul balcone. Non mi sono sentito meglio.
Nel mettere la mano in tasca ho percepito qualcosa di morbido. Il tanga di Ludo odorava del suo orgasmo.
L’ho lanciato lontano.