La prima persona con cui ho parlato ha detto che le era sembrato un tronco che si abbandona alla cascata, di quelli un po’ scosciati per il lavorìo della corrente.
Ho provato a immaginare la scena, mentre le parole uscivano caute dalle labbra accese della ragazza, una coi piercing e i capelli sfumati verde-blu. Si era aggrappata con gli occhi ai miei, stava di certo provando a indovinare cosa mi avrebbe fatto meno male ‒ peccato che non ci sia riuscita. Mi è venuto da pensare alla volta in cui io e mio marito visitammo una foresta pluviale a nord di Vancouver, era fine luglio di tre anni fa. Sembrò di entrare in una cattedrale, era tutta una preghiera di fruscii per l’aria mossa a trastullo delle foglie, di fischi e richiami ripetuti nello spazio elastico. Lui indicò un cedro gigante, Secondo me non ne troveremo uno più grande di questo, disse, mentre lo guardava da sotto in su ‒ pareva uno scalatore ai piedi di un costone inattaccabile. Il gigante aveva il tronco cavo, uno spacco fondo a forma di goccia; mi ci rannicchiai all’interno per il tempo di uno scatto, guardando in alto preoccupata di sentirmi piovere addosso una colonia di pipistrelli. Ci sono i pipistrelli in Canada? Vivono riuniti in colonie? Non me lo domandai, allora; cosa importa, oramai. Ci addentrammo sui camminatoi sospesi, fatti con tavole di legno gonfie di umido; tra le fessure si intravedevano felci e arbusti puntare in alto senza disciplina, con la smania di riunirsi al resto del verde. Sembri una zanzara! Urlò mio marito, da più indietro, mentre controllava sullo schermo della macchina digitale la foto che mi aveva appena scattato. Anche tu!, gli urlai. Ci mettemmo a ridere: sembrò che un trillo prolungato, poco distante da noi, corrispondesse alla nostra gioia, e fu naturale sentire di appartenere alla totalità ‒ o, almeno, lo fu per me (ma, al tempo, ero convinta che io e lui sentissimo le stesse cose). Finché un fischio lamentoso dal fondo della foresta ci avvolse come uno spirito nero, e noi proseguimmo nel cammino in silenzio. Non so perché, ci perdemmo di vista. Feci il sentiero a ritroso, quasi correndo, verso l’auto parcheggiata in uno spiazzo con cartelli di warning a ogni passo. Quando tornò, stavo piangendo accartocciata sul sedile di dietro, esausta; lui sembrò distratto.
Signora? Signora, sta bene?, ha domandato la ragazza, ancora fissa sui miei occhi. Ho fatto cenno di sì; lei ha ripreso il racconto, io mi sono presto confusa nel pensiero di prima. Aveva avuto ragione mio marito: un cedro più grande di quello non lo abbiamo visto. Non ricordo neppure di averla salutata, la ragazza, a un tratto non me la sono più trovata davanti ‒ ho il dubbio di essermela addirittura inventata.
Con la seconda persona con cui ho parlato è stato tutto un rincorrersi: gli ho lasciato nella cassetta della posta diversi messaggi per appuntamenti, lui non si presentava mai. Ho compreso il perché vedendolo finalmente arrivare, un pomeriggio sul tardi: sulla camicia aveva i segni di una giornata faticosa; lo sguardo andava di fretta su ogni presenza intorno, a parte me. Al telefono mi era sembrato uno strano – lui deve aver pensato che lo fossi anch’io. Ha trascinato indietro la sedia in metallo e si è seduto in punta, pronto a scattare. L’interno della caffetteria è rimasto lo stesso di quando io e mio marito la frequentavamo, agli inizi della nostra storia – chissà, poi, perché abbiamo smesso di farlo, mi sono domandata, appena entrata. Il passaggio continuo ha scolorito il pavimento davanti al bancone, e il controsoffitto in un angolo è impiastrato di macchie marroni. Ho cercato con lo sguardo il titolare di allora, gli avrei voluto chiedere perché lo avesse lasciato invecchiare con così poca cura, ma al suo posto alla cassa c’era un ragazzo che salutava i clienti con un cenno distratto del capo.
Come mi ha rintracciato?, ha domandato l’uomo; dal tono alterato credo abbia dovuto ripetermi la frase. La polizia, ho detto. Lui ha annuito, ed è sembrato più tranquillo, finché gli ho rivolto la stessa domanda della ragazza verde-blu. Prima che a parole ha risposto con un tic che si è accentuato via via, finché il suo volto è diventato un terremoto e lui è scappato, un attimo dopo avermi detto che gli era sembrato uno scroscio ‒ tipo quando si rompe un tratto di grondaia e insieme all’acqua scolano a terra grovigli di aghi di pino, fango rappreso, nidi disfatti e uova abbandonate chiuse. Lui, veramente, ha detto solo uno scroscio, in un balbettio seguito da un sospiro di resa; il resto lo ha aggiunto il ricordo di mio marito quando a primavera saliva sul tetto di casa per pulire la gronda riempita di cattiva stagione. Io non volevo mai che lo facesse, Hai paura che mi butti giù?, urlava, col tono a presa in giro. Sei uno scemo, rispondevo, ridendo, eppure rimanevo lì, appesa alle sue gambe secche e lunghe, ferme sull’ultimo piolo della scala arrugginita, ereditata dal padre. Non mi domandavo perché dicesse che mi butti, e non invece che cada. Mio marito me lo ha sempre rimproverato, di non esserci mai del tutto dentro al momento che sto vivendo. Allora lo percepivo come la segnalazione in rosso di un mio limite per lui insopportabile; oggi posso dire che aveva ragione, così come per il cedro gigante. Dieci anni insieme e non ho trovato il tempo di dirgli che non mi sono mai persa niente: il resto di quel che accade lo recupero nel suo ricordo. Lì la mente aggiunge punti luce nell’atto di lasciare andare il trascurabile, restituendo limpidezza al momento quando è passato.
L’incontro con l’uomo dei tic mi ha fatto sentire vuota, non so per quanto tempo sono rimasta seduta con le mani strette alla borsa appoggiata sulle gambe, solo per riprendere contatto col tangibile. Se non consuma si deve alzare, mi dispiace, ha detto un cameriere smilzo che si muoveva a scatti nei pantaloni troppo larghi. Mi sono allontanata svelta, scusandomi. Mia madre abita a due isolati da lì, ho deciso di andare a piedi. Nonostante si fosse alzata una tramontana che faceva mulinare i capelli e indurire i muscoli, ho fatto il giro lungo pur di non passare davanti a casa mia.
L’ultima persona con cui ho parlato è stata la vicina della bifamiliare gemella, di cui io e mio marito abbiamo sempre notato un’unica finestra illuminarsi. Non mi aspettavo che la signora facesse un’eccezione alla sua ritrosia ‒ nel quartiere dicono che, per una somma impensabile di disgrazie capitate in famiglia, non esca più da anni; infatti, quando le ho telefonato ha chiesto di andare io da lei. La stanza da pranzo sembrava un buco per via dell’accumulo di oggetti dozzinali che riempivano lo spazio senza grazia. La signora ha domandato se gradissi qualcosa di caldo, ho accettato. Si è diretta in cucina camminando a tentoni e toccando ogni cosa incontrasse sul percorso. La conferma che ci vedesse poco l’ho avuta nel modo cauto con cui mi ha messo tra le mani la tazza di tè fumante al bergamotto.
Chieda pure, ha detto, quando io già stavo rinunciando a rivolgerle la domanda che mi aveva portato lì. A quel punto gliel’ho fatta, di malavoglia e meno diretta.
Mi è sembrato una porta chiusa da un colpo di vento, ha risposto. E dopo qualche secondo di silenzio, ritmato dall’andare del pendolo, ha chiesto Le è servito saperlo?
È che non ero lì, ho risposto.
La signora ha annuito, Capisco, di solito si vuol sapere il perché.
Non c’è, un perché. Non penso ci sia, mi sono affrettata a dire.
Lei crede?, ha detto la signora, senza attendersi veramente una risposta. Si è alzata e si è portata alla finestra dove io e mio marito la vedevamo trascorrere i pomeriggi. Mi sono messa accanto a lei, a fissare casa mia. Vista da lì, ho notato delle crepe sulla facciata che non avevo idea la percorressero così diffuse e profonde. Sovrappensiero devo aver detto qualcosa del tipo Che strazio, quei muri, o forse Cade a pezzi. Lei, immobile, ha ribattuto Tutte le case ce l’hanno. Ho finito l’ultimo sorso del tè che si era fatto freddo, e mi sono accorta di non voler più sapere dagli altri come un corpo cada. L’ho salutata dandole la mano, lei mi ha abbracciata. Fin dall’inizio avevo in mente di allontanarmi da lì senza alzare lo sguardo dal grigliato del marciapiede. E così ho fatto, per qualche metro, finché ho invertito il passo e mi sono fermata a lungo davanti a casa nostra. Qualcuno aveva strappato in un punto il nastro bianco-rosso, l’ho riannodato senza mai oltrepassarlo e ho proseguito oltre.