«Leggi, ragazzino. Solo questo devi fare».
Santommaso stava in mezzo all’unica stanza della baracca, leggendo il nuovo libro procurato da Andromeda, Ventimila leghe sotto i mari, con la testa di riccioli scuri quasi infilata nelle pagine: era capace di restare immobile così per ore, non sentiva la scomodità del pavimento, non sentiva la fame né la sete. Le sue mani piccole agguantavano il libro, lo tenevano stretto, le nocche diventavano bianche, solo gli occhi si muovevano da una parola all’altra. Ogni tanto alzava lo sguardo e chiedeva ad Andromeda il significato di qualcosa: lei a volte lo sapeva, a volte no. E quando non lo sapeva gli diceva di cercarlo negli altri libri. Allora lui si alzava, andava verso la libreria e prendeva quello che faceva al caso: un dizionario.
La libreria era un buco nella parete, dietro il paravento che faceva da guardaroba. Scorreva i titoli e si fermava sempre su uno bello grosso: Somma teologica, S. Tommaso D’Aquino.
Non lo aveva mai preso, Andromeda glielo aveva vietato: «per ora» diceva «non è il caso, non capiresti». E quando lui le chiedeva del proprio nome, lei semplicemente rispondeva: «Non avevi un nome, te ne ho dato uno e questo è il primo che mi è venuto in mente. Non fare troppe domande. Cerca prima le risposte e le domande verranno da sole, ma lasciale nella tua testa, non dirle a nessuno».
Santommaso non capiva quasi nulla di quello che diceva Andromeda, non sapeva neppure come chiamarla, si limitava ad accettare la regola: doveva leggere, qualunque cosa; in cambio lei gli dava da mangiare, lo teneva al caldo e al sicuro. Non aveva mai visto nessuno, Santommaso. Aveva dieci anni e non aveva mai visto altri che lei. Ogni tanto Andromeda lo faceva affacciare alla finestra, cioè alla feritoia nella parete di legno e lamiera della baracca, da cui passavano un po’ di aria e di luce durante il giorno. Da quel buco Santommaso vedeva il Grande Faro, ormai spento, molto più alto delle baracche e fatto di muratura, grigio e ferroso, che separava la città dal Mare di polvere, una distesa che un tempo era stata di acqua e che ora era polvere accumulata nei decenni: materiali radioattivi e rifiuti di ogni tipo avevano assorbito l’acqua e si erano fusi con il sale in una nuova materia sconosciuta che aveva mantenuto il colore del mare al largo, una specie di verde blu luccicante. Vedeva gabbiani striati di fuliggine che volavano in cerchio sul Faro, ma solo a determinate ore.
A volte di notte scoppiavano incendi e bruciavano le baracche. Santommaso si svegliava a causa dell’odore forte e acre, di morte, che cancellava il tanfo sottile e onnipresente del mare di polvere. Sentiva grida acute e dopo un po’ il silenzio. Andromeda gli impediva sempre di guardare dalla feritoia, e anche solo di avvicinarsi alle pareti perché la lamiera era incandescente a causa degli incendi. Non pioveva da trent’anni, gli diceva. Lei ricordava l’ultima pioggia e da quel giorno era vissuta sempre con una sete costante. Gli incendi divampavano con facilità e le fiamme si mangiavano baracche e polvere, ma la polvere restava la stessa anche dopo il fuoco. Le baracche invece, e le persone che le abitavano, diventavano cenere che si mescolava alla polvere e ingrossava quel mare velenoso.
La mattina all’alba, di solito, gli incendi si esaurivano da soli. Andromeda pensava alle centinaia di uomini e donne che vivevano nelle baracche intorno, come un verminaio che non poteva uscire allo scoperto e restava inerte ad aspettare la combustione inevitabile. Pensava che avessero perso ogni speranza, ma lei ne aveva ancora un po’: il ragazzino era abbastanza scuro per farcela e sapeva molte cose che gli sarebbero tornate utili laggiù, oltre il mare di polvere.
Inoltre era sano, grazie all’impegno di Andromeda nel dargli del cibo decente: una volta al giorno però, di più non poteva permettersi. Aveva stabilito che si mangiava nel pomeriggio, in modo da tamponare la fame della sera, che mordeva lo stomaco e rendeva inquieti, impediva il sonno e irrigidiva i muscoli.
Dopo il pasto di metà giornata, Andromeda si sedeva sull’unica poltrona della baracca, una poltrona verde, recuperata alla discarica, con la seduta convessa. I braccioli erano pieni di graffi, la spalliera era lisa. Molto comoda. Odorava di tutto: era rimasta nella discarica per chissà quanto e alla fine aveva incamerato molecole di frutti marci, cartoni, residui elettrici, che si erano fuse in una specie di profumo.
Seduta in poltrona, chiudeva gli occhi e dormiva. Era una donna piccola e magra: ci entrava tutta, se si rannicchiava. Mentre riposava teneva le braccia esili appoggiate ai braccioli e faceva sogni che non raccontava.
Santommaso la guardava dormire, notava le palpebre muoversi rapide a tratti. Non sapeva chi fosse davvero quella donna, sapeva solo che era cresciuto con lei. Ogni tanto la vedeva usare uno strano oggetto che faceva tic-tic pausa tic-tic-tic pausa. Sentiva le sue frasi e non le capiva, ma ormai gli erano diventate familiari: «non vogliono i biondi laggiù, ci hanno sempre respinti e siamo rimasti qui, persi nel tanfo» oppure «un giorno tu ci arriverai ragazzino».
Ma laggiù dove? Si chiedeva Santommaso, senza mai osare chiedere.
Continuava a sbirciare dalla feritoia nella lamiera e, quando non contava i gabbiani, fissava lontano, oltre la distesa ondulata di polvere color blu mare: sembrava che qualcosa da dentro la spostasse, con movimenti lenti. A ogni spostamento, l’aria si riempiva di polvere avvelenata e dovevano tappare la feritoia con gli stracci e coprirsi il viso per non respirarla.
Santommaso allora immaginava quel punto lontano, si concentrava su quell’oltre nel quale qualcosa doveva esistere: lo aveva capito, anche se Andromeda non glielo aveva mai detto. Non sapeva come potesse essere: nella sua mente le visioni fantastiche di Ventimila leghe sotto i mari si alternavano alle immagini di grattacieli, palazzi, automobili, fiumi e giardini, che aveva visto su vecchi libri di fotografie.
«Anche la nostra baracca potrebbe bruciare, e sarà all’improvviso, senza darci il tempo di capire» disse Andromeda al ragazzino che le si era attaccato addosso «e allora dovrai andare nel Faro, giù, ben dentro la terra: c’è un uomo che sa chi sei e che può portarti via. Se la baracca brucerà, è da lui che dovrai andare, dovrai correre, anche senza di me».
«Come senza di te? E chi è quest’uomo?»
«Un amico. E sì, anche senza di me, che ormai non corro più».
Passarono due settimane senza fuochi. Alla terza, una notte, Santommaso si svegliò nel mezzo della baracca senza respirare per il fumo: con gli occhi spalancati e il terrore nelle gambe, vide Andromeda sciogliersi senza un grido, in fiamme, ferma sulla sua poltrona a fissarlo.
Si alzò di scatto, si mise una pezza sulla bocca e sul naso e, prima di scappare, andò alla libreria dietro il paravento e prese la Somma, l’unico libro che non aveva ancora letto.
L’odore di Andromeda in fiamme era diverso da quello di chiunque altro in fiamme. Continuò a restargli nel naso mentre correva giù e poi nel vicolo, fino al Faro. Gli incendi della baracca avevano liquefatto la lamiera e surriscaldato la strada, il cui lembo più esterno si fondeva nella polvere provocando fumi fosforescenti. Il ragazzino entrò nel Faro, sentì freddo finalmente e respirò di nuovo. Devi scendere giù, gli aveva detto Andromeda. Scese allora, senza correre. E continuò a scendere per molto tempo. Pensò che stava andando nel centro della terra, lasciandosi sopra la città di fuoco. Capì che la discesa era finita perché il suolo si appiattì e vide una luce verde. Veniva da una lampada retta da un vecchio dalla pelle color petrolio, il vecchio sedeva su una barca chiusa come un sottomarino, con oblò saldati e quattro grosse ruote.
«Ciao ragazzino, ti aspettavo».
«Sei Nemo?»
«Puoi chiamarmi così, se vuoi. Sono quello che deve portarti oltre la polvere».