Sottobosco

“C’è del genio in chi riesce a realizzare gli ossimori,
a convivere perfettamente con gli altri mammiferi”.
Dutch Nazari, Genio Dentro.

Certe persone sono come stazioni – come ciliegie – contengono a fatica i margini di una sosta, i contorni di una deriva. Strabordano, esondano. Di queste stazioni in città c’è un sottobosco, di queste ciliegie un’impronta di cipria.

“Vuoi un po’?”
“Tienile tu, visto che quando fa caldo mangi solo quelle”.
“Hai mai notato la fisionomia di una ciliegia?”
“Non so cosa ci fai tu, ma io il cibo lo mangio e basta”.
“Sono come un grumo di sangue rappreso e compresso”.

Un colpo di frusta sul palato, la lingua che si stende per avvolgere un altro frutto mentre una mano scivola sulla coscia accarezzandone qualche pelo febbricitante. Il suo sguardo che vagola e poi si sottrae: ogni atto una messinscena, così da quando la conosceva.
“E da sola sei al sesto piano?”
“Tu fai troppe domande, caro”.
“Ecco, vedi che sono caro!”
“Diminutivo di carogna”.
“Dai Michael, lasciala stare, che ti conosce e si trasferisce altrove”.
“Un giorno ti racconto perché questa cosa”.
“Quale cosa?”
“Perché sto salendo ora in ascensore con te. Un altro giorno. È che sono proprio così come mi vedi: sono uno scemo, io”.

Michael, l’inquilino dell’ottavo piano, bracca con dei segreti chi si avvicina all’ingresso dell’ascensore: tocca a Martina e Thomas, coinquilini da poco. Marco e Elena, al sesto, galleggiano sospesi nella canicola mentre le blattine si aggirano per il lavandino.
In periferia, tutto quanto ha la forma di un’attesa. L’unico movimento violento è quello del cemento che boccheggia sotto al sole: la fluttuazione allucinatoria sfrigola avida intrappolata dagli sguardi dei passanti, la viscosità si spande.

“Ti ricordi cosa mi hai urlato il giorno in cui ci siamo conosciuti?”
“Era sul balcone, vero? Che mi avevano costretta a diventare una donna contro la mia volontà, delle creature mitologiche con delle piante carnivore al posto della vulva”.
“Tutto per dire che avevi avuto per la prima volta le mestruazioni”.
“…e poi la lucidità. Non ti pare che se prendessi un ago e lo infilzassi dentro ne uscirebbe un intero mondo in rivoli e stracci violacei?”

Altro schiocco, altra ciliegia. Anche lei sembrava un frutto succoso, pensava Marco. Quel contrasto tra la pelle bianca, i capelli di un rame acceso e le unghie che si dipingeva sempre di nero o blu elettrico. Lui, al massimo, doveva sembrare una bustina di tè, gli suggeriva impietosa una parte del suo cervello. Un filtro poroso e malleabile, in balia degli specchi.

“Comunque, sul balcone, te lo dissi sfacciata ma ne avevo un segreto terrore”.
“Nessuno meglio dei preadolescenti ha quell’intuizione… tu poi, sei particolarmente elettrica”.
“Come i peli delle cosce?”
“Come loro”.
“Anche voi maschi vibrate, a quell’età?”
“Sì. In modo differente… più cieco, rabbioso”.

In periferia, è più facile trovare delle ciliegie. Lì non è necessario stritolare la malinconia o l’euforia all’altezza del collo e affogarle nel latte di mandorla, o nel bicarbonato di sodio. Non bisogna per forza nettarle, dividerle, adeguarle; trovare un corrispettivo annacquato per evitare lo schianto nella manovra. Perché qui non ci sono manovre, soltanto atmosfere, ferrose e lunari. Bolle cristallizzate in movimento dolce.

“Cosa stai studiando?”
“Niente, sto leggendo un romanzo”.
“E la licenza media ce l’hai, te?”
“Può darsi. Tu? Lo preferisci sempre alla pesca il tè?”

Maritza, la ragazzina gipsi del quartiere, in estate gira con una bottiglietta di tè alla pesca Lipton sotto braccio. Nell’altra mano a volte ha un neonato che qualche parente le affida, altre il suo iPhone. Come Salmo, il barista del Niu Dejavù, è abituata alle attese: perlopiù attende se stessa, mentre la sua ironia serpeggiante sferra attacchi a chi le capita sotto tiro; in banchina, alla fermata del tram o all’uscita del supermercato.

“Qui a casa tua si respira male e poco”.
“In che senso?”
“C’è affanno, un’aria viziata”.
“Ci sono trentadue gradi, non credi sia per quello?”
“Il caos degli oggetti per terra, delle stampe accatastate una sopra l’altra e anche qualcos’altro”.
“Qualcos’altro cosa?”
“Le crepe sui muri, la muffa, forse”.
“Benvenuto nelle case popolari”.
“Non solo questo, comunque”.

Per ogni stazione ci sono degli spezzoni assordanti a sferzare l’aria, degli intervalli di pubblicità che scorrono sul cartellone di fronte alla banchina. In quei momenti non puoi starci troppo: corri il rischio di diventare sordo, di impazzire. Puoi restare per un attimo ancora, il tempo di sentirti vivo. Poi ti devi sottrarre, tornare al mondo emerso.
Per questo Marco stava relativamente poco accanto a Elena. Come tutte le stazioni, anche lei, dopo un po’, emetteva degli spezzoni assordanti che rischiavano di squarciare la bolla.

“Sul balcone pur’io ho trovato che tu fossi un bel tipo. Anche se spesso scivoli dentro di te ed è difficile ripescarti”.
“Per questo dovresti smetterla di gettare l’amo”.
“Ecco, è proprio quello che intendevo”.
“Forse… è che le incrostazioni del muro, in qualche modo, ti somigliano?”
“Sarà. Visto che l’aria è viziata usciamo”.

Fuori da loro non c’è che passaggio, movimento e gesto: una fila di volti immersi nell’azione e lontani dalla contrazione, dallo spasmo, dal ribollio interno alle ciliegie. Un automatismo della materia che impedisce la sosta e occlude ogni riflesso: l’isteria del vivere.
Per questo faceva in modo che il poco fosse relativo, tra il pizzo ocra delle tende in salotto, i balconi adiacenti su cui camminavano scalzi e le canottiere sopra la pelle umidiccia o sotto la seconda, di lana, del maglione. Come se fosse sempre stata una questione di temperatura, di caldo o freddo.

“Non hai risposto, a scuola ci vai?”
“Ogni tanto. Se non ho altro da fare”.
“Ragazze! Quand’è che venite a trovarmi voi?”
“Quando Michael la smette di fare baccano con il pianoforte, il mio cervello non riesce a bere se viene deprivato del sonno”.
“Se Elena mi prende del tè”.

Salmo è il barista di periferia più gentile nella storia delle periferie. Appena ti vede corre dall’altro lato del locale per raggiungere la porta e venire a offrirti una sigaretta, sul braccio ha tatuato il nome di un quartiere con una brutta nomea dov’è nato e cresciuto, e un cuoricino.

“Un’altra volta, sempre sul balcone, mi hai raccontato un aneddoto sulla tua infanzia… era su un’insegnante di italiano delle elementari”.
“Ah, sì. Perché?”
“Ci pensavo. Correggere occhi acquosi in un tema è un primo atto di disciplinamento. Quasi simbolico”.
“Sono d’accordo. Noia eretta a sistema. E ti viene in mente così, dal nulla?”
“Dal nulla”.
“Per esempio quelli di Maritza: acquosi”.

I palazzi e i bar sono complici della stasi: con le loro insegne fatiscenti strizzano l’occhio ai passanti. Contengono tutto, in sé lo rinnegano. Illudono, avviano il processo di marcescenza: lo arrestano appena in tempo, su un margine.

“Al colloquio sapete che mi hanno chiesto?”
“Vai!”
“Se so picchiare. Ho detto: cos? e mi sono ricordato del mio tatuaggio. Per ora non è successo niente, sono diventato fin troppo bravo”.
“Guarda, arriva anche Tonio… la fermata oggi si fa affollata”.
“Ho appena finito di lavorare, ho attaccato alle sei stamattina”.
“Dove lavori, Tonio?”
“Faccio le pulizie alle scale al momento. Lo chiamiamo il passaggio, devi solo passare la scopa. Forse nel pomeriggio ne ho altre due. Allora quando vieni da me? Te l’ho detto sali e bussi, altrimenti ti vengo a bussare io!”
“Tonio, non lo so… ma accolgo l’invito. Smettila allora con il pianoforte la notte”.
“Per te smetto, se sali. Te l’ho detto, quando vuoi prendi e mi bussi”.
“Ma Tonio fa sempre così, con tutte le ragazze?”
“Non hai ancora visto niente, Salmo”.
“Eccolo! Marco. Mancavi tu, mancavi”.

Ogni tanto, però, la violenza dell’asfalto pungola la superficie della bolla, preme per sventrare l’attesa. Allora la ciliegia allenta la resistenza: può arrivare a esplodere, tutto a un tratto. A squarciare l’atmosfera.

“Parto”.
“Ma che dici?”
“Parto”.
“Ma se non hai nemmeno i soldi per fare la spesa, dove vuoi andare?”
“Perché qui se ci fai la spesa sei felice? Sei un cane uguale a prima”.
“E dove vai?”
“Non lo so ancora”.
“Per una volta che siamo tutti qui, non capita mai, te ne vuoi andare”.
“Forse proprio per quello. Siamo ancora qui, sempre qui”.
“E Maritza? Lo sappiamo tutti che sei uno dei pochi che può sopportare. Ed Elena? Elena, la lasci così?”
“Fa troppo caldo”.
“Senti, Elè, questo qua dice che ti sta lasciando e sta partendo perché fa caldo, parla sempre così?”
“Spesso. Fai quello che vuoi, comunque”.
“Pensavo fossi stufa”.
“Di cosa esattamente?”
“Aspettare… me l’hai insegnato tu”.
“Guardate che ci sono i bambini, cose troppo intime davanti a tutti non le potete dire”.

Ogni tanto, una stazione dondola e dondola staccandosi dall’asfalto. In un suono assordante scompare.

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