Le incredibili avventure di Pannkakor

«Mi chiamo Vlad, tutto intero Vladimiro, ma molto presto cambierò nome».

Caterina si guarda intorno. È pieno di gente. La borsa blu di plastica penzola mogia dalla spalla destra. Non ha comprato niente, non ancora; e comunque non è per lo shopping che è andata all’Ikea. È entrata così, per buttare un occhio, come fa quando la giornata le sembra troppo lunga per arrivare alla fine senza darle una spinta.

«Sono nato oggi. Il 22 dicembre di tanti anni fa».
Il ragazzo le si è avvicinato sulla scala mobile, all’ingresso, e sembra che non voglia mollarla. Caterina stringe la borsa contro il fianco, premendola col gomito ossuto. È dimagrita parecchio da quando ha iniziato coi farmaci. Ha perso peso, lucidità, voglia di scopare; ha cancellato tutto, soprattutto le parti molli, quelle di cui la gente normale si aspetta che tu ti vergogni, che nasconda sotto strati lipidici di buone norme e adeguamento alle aspettative sociali.
«Ci conosciamo…?»
«Mi chiamo Vlad, tutto intero Vladimiro, ma molto presto cambierò nome».
Da qualche anno, Caterina trova il tempo insopportabile. Le sembra di averne troppo, e che sia troppo lento, un esubero flemmatico di giorni, ore, minuti che non sa come impiegare in maniera produttiva. La dottoressa De Carli dice che è normale. Non per tutti, ovvio: è normale per lei, la paziente numero duecentocinquantaqualcosa anche detta Caterina Accorsi; ma Caterina non crede che sia così. Roberta De Carli è troppo codarda per dirle quello che pensa, pur essendo pagata per farlo – con le cause perse, come Caterina, i soldi non sono una leva sufficiente a guadagnarsi la verità.
«Levati, dai. Fammi passare».
Caterina tenta di superare il ragazzo, ma lui si appende alla borsa, impedendole di avanzare. Le persone scivolano intorno alla coppia premurandosi di non dividerla, come fossero novelli sposi in procinto di arredare casa. Quasi-bimbo e vecchia bacucca, si direbbe a guardarli da dietro. Che poi, Caterina non è vecchia: ha 30 anni portati male. 35. Per colpa dei farmaci. È questo che si ripete quando si guarda allo specchio e non si piace più.
«Il 22 dicembre, mi ha detto mia mamma, sono accadute una marea di cose».
Il ragazzo sembra convinto di quello che dice.
Caterina no.
Dubita perfino che si chiami Vladimiro, un nome che puzza di finto a dieci chilometri di distanza. Ma il fatto che sia un nome di merda non significa che sia falso: saltare alle conclusioni, pensare che tutti, costantemente, mentano, è un altro tratto della sua patologia. Il famoso “problema di Caterina”.
«La Costituzione italiana, Tommaso Marinetti, il disastro del calciomercato. Però: andiamo con calma. Andiamo per gradi».
«Ma mi spieghi che cazzo vuoi?»

Nel Soggetto X la convinzione di essere dileggiato, maltrattato dagli altri, è profondamente radicata, quasi del tutto inestirpabile; si potrebbe dire, anzi, che il Soggetto X senta di essere sottoposto a violenza continua da parte di Agenti Esterni – chiunque tenti di avvicinarlo. Ecco perché il sentimento di rabbia è tanto inevitabile quanto necessario, nel Soggetto X: è una reazione istintiva, ferale, percepita come giusta contromossa rispetto ai torti ingiustamente subiti.
«Oggi è la Giornata delle Forze armate del Vietnam. Oggi, è la festa dell’Unità nello Zimbabwe. Il 22 dicembre del 1807 il Congresso statunitense ha approvato l’Embargo Act, una carta che vietava di vendere cose al di là del confine, e che dichiarava in aggiunta la neutralità dell’America rispetto alle guerre napoleoniche».
«Diocristo».

Caterina s’infila in un soggiorno con il tappeto rosso. Il tappeto ha strisce più scure, bordeaux, e altre più chiare, di un rosa salmone slavato. Caterina si concentra sull’alternanza dei toni: chiaro, scuro, chiaro, scuro. La dottoressa De Carli dice che pensare ad altro, staccare la mente da quel senso radicato d’ingiustizia, può aiutarla a smontare la rabbia quando sente che sta montando. Come un mobile dell’Ikea, pensa sfiduciata Caterina.

«Il 22 dicembre del 1876 è nato Filippo Tommaso Marinetti, un pazzo fulminato che, secondo mia madre, attraverso energia, iconografia, parole e schizzi di colore, ha elaborato la formula magica che ha generato tutta l’arte moderna».
Caterina si ferma.
Il ragazzo pure.

Il fatto è che lei è sempre stata un tipo contro.
Contro La Madre, prima di tutto – arcinemica per definizione; contro il concetto di famiglia, che le ha rovinato il fegato; contro i professori a scuola, che la ritenevano un po’ troppo peperina, un po’ troppo vivace (ma di una vivacità preoccupante, spiegavano torvi alla sua stupida Madre) per sottostare alle norme imposte da una congrega d’imbecilli patentati; contro la religione, le bollette, le tasse, le persone che saltano la fila alle Poste pensando di prenderti per il culo; contro ogni datore di lavoro che ha finto di offrirle una buona posizione per chiederle in cambio un pompino o banale schiavitù da contratto. Caterina non è un tipo assertivo. Caterina è indefessamente ribelle, così dice la dottoressa De Carli. È convinta di combattere battaglie perpetue contro perpetui mulini a vento, che si ergono panciuti a beffeggiarla. Perché non provi queste pillole, Caterina? Il mondo ti sembrerà un posto migliore.

«Sono stanca».
«Anch’io».
Caterina e il ragazzo si siedono sopra un divano ad angolo coperto di cuscini rossi. I cuscini fanno pendant con il tappeto e con le tende, che coprono due finestre finte. Caterina vorrebbe affacciarsi, spalancare quei vetri brillanti, ma oltre alla cornice quadrata non ci sarebbe niente. Nessun fuori, nessun proverbiale orizzonte su cui appoggiare lo sguardo. Solo un vecchio, anchilosato presente, che nell’attimo in cui lo pronunci è già bello che morto e sepolto.
«Il 22 dicembre del 1947 l’Assemblea Costituente ha dato i natali alla nostra Costituzione, anche alla mia, che pure se ho un nome straniero io sono italiano lo stesso».
Il ragazzo avrà sì e no diciott’anni e la fa una rabbia fottuta.
Non ci sarebbe nessun problema se si potesse riavvolgere il nastro, infilarsi in una porta laterale e mandare affanculo cucine e salotti. Il problema principale dell’Ikea, della conversazione con il ragazzo, è che non puoi cavartene fuori: non si torna indietro, non prima di aver terminato il giro panoramico. Puoi andare avanti, solo questo, cucina dopo salotto, salotto dopo bagno dopo sgabuzzino, un argomento strampalato dopo l’altro affastellati in un gran mucchio di disordine. Puoi sperare che finisca in fretta – ambienti fatti a stampo dell’Ikea, loquacità incontrollata della folla, tutte le cose che si possono comprare anche se non sono mai servite a niente; ma non sai quando. Non sai come. Com’è che si conclude la storia?, si domanda nervosa Caterina. Possibilmente, pensa, senza clamore e spargimenti di sangue.
«Senti, Vladimiro…»
Caterina ne ha abbastanza, del sangue.
Di prendersi la colpa al posto di chi se la merita.
«Mi chiamo Vlad, tutto intero Vladimiro, ma molto presto cambierò nome. Mamma è fissata con le cose strane, le cose speciali a ogni costo; io, mi ha detto, devo essere speciale a ogni costo. Ed è così che mi ha chiamato Vladimiro, come un pazzo scatenato che ammazzava la gente ficcandogli dei pali su per il culo».
«Ora basta. Chiamo la sicurezza».
«Ho una pistola e non ho paura di usarla».
Com’è che diceva il suo ex fidanzato, mandato a farsi fottere anche lui? Se vedi una pistola in un film, prima o poi dovrà sparare. Poco male, pensa Caterina. Semmai la vedrò, questa benedetta pistola, saprò per cosa devo iniziare a preoccuparmi.
«Tu sei cristiana?»
«No».
«Nemmeno cattolica?»
«È la stessa cosa».
Il ragazzo ha una protuberanza all’altezza del basso ventre.
Potrebbe essere una pistola, oppure un’altra delle sue stronzate.
«Mamma voleva battezzarmi».
«Ma non mi dire».
«Però non poteva farmi il battesimo se mi chiamavo solamente Vlad. Il battesimo si può fare solo se al nome scelto per il bambino corrisponde un santo del calendario cristiano. Gliel’ha spiegato un prete. Uno che io non ho mai conosciuto».
«Perché mi stai raccontando queste cose? Perché a me, perché proprio io?»
Caterina osserva il rigonfiamento sulla pancia, sotto alla felpa sgualcita da lavaggi maldestri. È una cosa piccola e spessa, a forma di L. La parte più lunga è rivolta verso l’alto, punta dritta al mento di Vladimiro; la parte più corta sembra stretta nel suo pugno destro. Sembra proprio quello, in effetti. Una pistola pronta a sparare.
«Mamma e il prete hanno fatto una ricerca su Google, e hanno scoperto che esiste un certo San Vladimiro (Basilio) di Kiev, che non so se compaia sul calendario cristiano, ma sul sito santiebeati.it c’è».
«Lasciami stare».
«San Vladimiro viene descritto così: di fondamentale importanza per lo Stato russo e per la civiltà dell’Europa orientale furono la conversione di Vladimiro al cristianesimo e le sue nozze con la principessa Anna: la Russia divenne una provincia ecclesiastica del patriarcato bizantino, e all’alba del Terzo Millennio papa Giovanni Paolo II fece includere il nome di San Vladimiro, già venerato dalla Chiesa Ortodossa Russa, nel Martirologio Romano».

Caterina pensa che le persone sole non dovrebbero avere paura di morire; eppure lei ne ha, e tanta. Sente la nausea, la rabbia che cresce; sente l’impotenza, anche, il suo corpo che si arrende a un fuoco in continua espansione. La dottoressa De Carli dice che è un meccanismo di difesa, il suo; se s’impara a riconoscerne i sintomi, si può lavorare per controllarlo. I sintomi della rabbia sono: tachicardia, ipersudorazione, tremori diffusi, somatizzazioni gastriche, senso marcato di agitazione, ansia, secchezza della bocca, respirazione accelerata. Bisogna prestare attenzione ai sintomi in fase di diagnosi e valutare con ponderazione questa specifica patologia, che non è poi così infrequente rilevare a un primo approccio anamnestico.

«Perfetto!, ha esclamato il prete. Battezziamolo Vladimiro, ha fatto eco la mamma, e dopo, in privato, chiamiamolo Vlad. Ed ecco perché mi chiamo così: Vladimiro detto Vlad Mancini».
«Dimmi che cazzo vuoi oppure levati dalle palle».
Il ragazzo la guarda come si guarda un cane, un piccione, una busta di plastica abbandonata per strada. Caterina si chiede se sia quello lo sguardo dei pazzi, se gli occhi del ragazzo somiglino ai suoi, se sia per questo che l’ha seguita sulla scala mobile ostinandosi a parlare con lei come se lei potesse capirlo, come se avessero qualcosa in comune, qualcosa che gli altri non hanno.
«Soldi non ne ho. Ti è andata male. Perché non riprovi con quella cicciona lì? Mi sembra abbastanza pasciuta da potersi definire medio-borghese. A giudicare dal doppio mento, potrebbe essere addirittura ricca».

Ricchi: un’altra categoria che a Caterina non è mai andata a genio. Gente che pontifica, personcine che s’ingegnano a insegnarti la vita dalla torre d’avorio del potere economico. Perché non puoi startene un po’ tranquilla?, le dice sempre sua madre. Perché non riesci goderti le piccole cose, gli affetti, la bellezza del mondo che ti circonda? Sei fortunata, Caterina: l’unica nemica di te stessa sei tu. Secondo Caterina, il mondo non è affatto bello. Ed è anche pieno zeppo di nemici. È una polpetta di acqua e terra ed esseri umani, chiassose formiche del tutto inadatte a rapportarsi in una società civile, che però sono costrette a farlo perché la limitatezza dello spazio impone loro la convivenza forzata, il pudore, il rispetto reciproco, il sentimento. Tutte cose che a Caterina non vanno giù, bugie ripetute a ciclo continuo affinché si trasformino in stentoree verità.

«Il 22 dicembre del 1989 veniva rovesciato il regime di Nicolae Ceaușescu, un nome impronunciabile che a mia madre sarebbe piaciuto un sacco».
«Vuoi scopare? Vuoi un pompino? Sei uno di quei pervertiti che… ma no, no, vuoi solo ricattarmi. Vuoi prendermi in ostaggio e minacciare la mia famiglia. Ma io non ho una famiglia. Io sono sola. E le persone sole, beh… non hanno paura di niente».
Caterina mente e il ragazzo lo sa.
Punta la protuberanza verso di lei, ruotandola quel tanto che basta per tenerla sotto tiro. La invita a uscire dal soggiorno rosso e andare avanti, in un altro ambiente.
Caterina obbedisce.
Le stanze dell’Ikea sono tutte uguali, cambiano solo i nomi dei pezzi in esposizione.
Libreria Billy.
Tappeto Stockholm.
Divano Ektorp.
Tavolo Docksta.
«All’anagrafe hanno detto a mamma che non si possono chiamare i bambini con i nomi di dittatori o presunti tali. Ma tu guarda un po’ se un onesto cittadino non può chiamare suo figlio come cavolo gli pare!, ha strillato mia madre, e questo era prima d’incontrarsi col prete. Il prete non ci parla più, per inciso, perché ha detto che mia madre è pazza».
«Ti somiglia? È bionda anche lei?»
Caterina ha letto da qualche parte che entrare in empatia coi serial killer può essere un buon modo per non farsi ammazzare. Altri dicono che i serial killer non ne hanno, di empatia, perciò è inutile tentare, è meglio sgolarsi chiedendo aiuto, ma comunque non è detto che ci sia qualcuno proteso all’ascolto, ben disposto a intervenire per fregiarsi del titolo di eroe; perciò Caterina non ha carte da giocarsi, non dentro a una qualche stanza targata Ikea, un nido per famiglie collaudate, a prova di crash test. Le brave famiglie non vogliono farsi ammazzare in un ridente pomeriggio prenatalizio, non vogliono rischiare l’osso del collo per una donna ostaggio di un biondo impazzito: il sole splende alto nel cielo, il cielo è azzurro più dell’acqua del mare, gli uccellini cinguettano, i bambini ridono, tutto grida, insieme, vita. Se a Caterina è toccata la morte, peggio per lei: non è una cosa che riguarda gli altri. Le sue cose riguardano gli altri solo quando c’è da darle la colpa. Il ragazzo cammina; Caterina gli va dietro in silenzio. Prendono posto in una camera da letto che sembra fatta a misura di sposi. Bianco ovunque, a perdita d’occhio; una luce ecumenica e ottusa che ferisce lo sguardo. Caterina siede accanto al ragazzo, sopra un materasso ad acqua che più mollo non si può. Preferisce i materassi duri, quelli flaccidi le danno il mal di schiena. Mentre il ragazzo ricomincia a parlare, Caterina si sorprende della facilità con cui le cose normali trovino il modo d’insinuarsi nell’assurdo. Sono ostaggio di un ragazzo armato, pensa, e tutto quello che riesco a elaborare è che detesto i materassi ad acqua.
«Parliamo di tua madre. Ti va? Raccontami qualcosa, e non quelle storie sull’anagrafe e i litigi col prete. Quelle storie riguardano te. A me interessa sapere di lei».

Quante volte le hanno fatto questa domanda.
Caterina non sa mai come rispondere.
Perché sua madre non è di quei soggetti che gli psichiatri fanno i salti di gioia a sentirne parlare: è buona, altruista, paziente. Non è morta. Non alza la voce, ha fatto un sacco di sacrifici per crescerla e garantirle un’istruzione seria; ma Caterina si è rifiutata di collaborare, ha osteggiato la figura genitoriale rinunciando a fare la sua parte nel microcontesto chiamato famiglia – nucleo fondante della società, collante relazionale grazie a cui la specie umana convive e prospera da milioni di anni. È sempre colpa di questa sua rabbia, di quest’insoddisfazione cronica, che esplode a giorni alterni riversandosi ora su questa, ora su quella vittima innocente. Tipo sua madre. Tipo la scema della parrucchiera che sbagliandole la tinta le ha bruciato i capelli. Che poi, vittime Vittime un corno! I dottori non hanno mai chiesto a Caterina se qualcuno l’abbia (volutamente) provocata, se sua madre, in fondo, non se lo sia meritato di farsi spaccare la faccia, e la parrucchiera pure, e i professori anche, e i ragazzini al liceo, i preti, i vecchi in fila alle Poste, tutta la gente cui Caterina è ancora, caparbiamente, contro, una schiera compatta già pronta a farle del male prima che lei progettasse il contrattacco.

«All’anagrafe hanno detto a mamma che per chiamare i bambini ci sono un sacco di regole da rispettare: niente nomi offensivi, ridicoli o vergognosi; niente nome della madre, del padre o dei fratelli in vita (neanche se preceduti da “Junior”, e mia madre ha detto: “Ma in America si può fare”, e il tizio dell’anagrafe ha risposto: “Ma qui ci troviamo in Italia”); niente nomi con caratteri speciali, ad esempio -, #, @; niente personaggi storici che non godono di buona fama (come Benito Mussolini, Adolf Hitler e Nicolae Ceaușescu); niente nomi di personaggi dei fumetti o dei cartoni animati; niente nomi femminili ai maschi e maschili alle femmine (ad eccezione di Andrea); e se avesse ancora dei dubbi, mia cara signora, ecco qui un elenco esemplificativo di nomi assolutamente vietati che la invito a consultare prima di marchiare suo figlio d’infamia».
«Vladimiro è un bel nome. Tua madre ha scelto bene».
«Mia madre ha preso il foglio e si è messa a declamare: Doraemon; Goku; Hannah Montana; Belzebù; Iosif Vissarionovich Stalin; Superman; Batman; Conte Dracula; Culettorosa; CiucciaTampaxPerColazione; Dana Scully; Loretta Goggi; Pollon-Pollon Combinaguai; Calimero Dance; Homer Simpson; Fata dei Boschi; Satana. Ci è rimasta male, ha detto, perché avrebbe voluto chiamarmi in un modo speciale, come il giorno in cui sono nato e tutte le cose che quel giorno sono successe».

La rabbia è una reazione a uno stimolo esterno: un evento di vita quotidiana, un atteggiamento sbagliato, una parola fuori posto. Reazione, pensa Caterina: perché nessuno vuole arrivarci? Perché non prendiamo in considerazione il fatto che all’origine del fuoco c’è sempre un innesco? Esistono quattro tipi di rabbia, le ha spiegato la De Carli la prima volta che si sono incontrate. Non era stato dopo sua madre, perché sua madre (la martire innocente) aveva rifiutato di sporgere denuncia. Era stato dopo la parrucchiera, fiondatasi alla stazione di polizia per sciorinanre bugie sul conto di Caterina, bugie che sono diventate assolute verità grazie all’occhio nero che “l’aggressore” aveva lasciato in dono alla chiacchierona. La prima tipologia, aveva proseguito la De Carli, è una rabbia generalizzata, in cui il soggetto percepisce ciò che lo circonda con una sensazione martellante di fastidio; la seconda è una mera tendenza alla rabbia, di sovente accompagnata da frustrazione e senso di offesa; la terza è una rabbia che si ripercuote all’esterno, trovando sfogo su persone o oggetti; la quarta è una rabbia che viene trattenuta attraverso meccanismi di controllo, troppo spesso disfunzionali (quindi, nocivi). La presenza costante di rabbia in una di queste quattro forme può creare problemi dal punto vista relazionale, lavorativo e familiare. Il Soggetto X (tu, Caterina) presenta tutti e quattro i tipi di rabbia, con una forte tendenza al terzo quando si sente sotto pressione. Per pressione, intendo: qualsiasi tentativo di approccio da parte di un Agente Esterno; più in generale, qualsiasi alterazione del normale corso delle cose, ossia della routine quotidiana alla quale il Soggetto X (tu, Caterina, e guardami negli occhi quando ti parlo) persistentemente si aggrappa. Suggerisco interventi farmacologici mirati a evitare altri incidenti di percorso. Che ne dici, Caterina? Può andare, per te?

«Attraverso un decreto del Presidente del Consiglio del Fronte di Salvezza Nazionale, fu istituito un Tribunale che condannò il signor Ceaușescu alla pena capitale (praticamente Ceaușescu è schiattato) (il 22 dicembre del 1989)».

Caterina aveva risposto di sì.
Non per dare ragione alla De Carli, a sua madre o a quella stupida della parrucchiera. Solo per farsi passare i farmaci dalla mutua, mandando il cervello in vacanza a spese di qualcun altro. Ma le cose non erano migliorate. Non nel senso che credeva la De Carli.

«Per non parlare del 22 dicembre del 1885, quando Ito Hirobumi, vero e proprio samurai, è diventato primo ministro del Giappone».

Caterina ha solo più sonno, adesso, meno appetito, zero voglia di scopare.
Per il resto, la rabbia c’è.
È come un fuoco che cova sotto alla cenere.

«Il 22 dicembre del 1979 Fabrizio De André e la sua compagna Dori Ghezzi sono stati liberati dall’Anonima Sarda dopo una lunga e faticosa prigionia».
«Lo conosco, De André. Piaceva tanto a mio padre. Prima che lui… il tumore. Ma forse non dovrei parlarti di questo».

Il padre di Caterina non ha mai avuto il tumore.
Il padre di Caterina ha deciso di mollare sua madre – scelta che Caterina non biasima, perché sua madre l’ha mollata anche lei e non se n’è pentita nemmeno per un istante. Quando lo dice ai dottori, la guardano strano. Roberta De Carli la guarda più strano di tutti. Scrive sul suo taccuino con un tratto deciso e rapido, come a esprimere preoccupazione, accademico cordoglio malcelato dietro gli occhiali a goccia. Poi se ne stanno zitte, Caterina e Roberta; e aspettano insieme che Caterina dica un’altra cosa sbagliata.

«Il 22 dicembre del 1989, un anno prima che nascessi io, è stata riaperta la Porta di Brandeburgo, segnando la fine della divisione tra Germania dell’Est e Germania dell’Ovest».
«Tu… hai trent’anni? Sembri più piccolo. Appena maggiorenne».
«Ne ho 31. Li compio oggi».
Il ragazzo si è lasciato andare: ha rivelato qualcosa di sé.
È il momento d’insinuarsi, per Caterina. Deve trovare una fessura e passarci attraverso, liberandosi di lui. Della pistola che potrebbe sparare.
«Sai che cos’è il tumore?»
«…»
«È quella malattia che ti uccide».
«…»
«All’inizio sembra che stai bene, che c’è qualche speranza di salvarti; poi ti cadono i capelli e perdi tipo diciotto chili e la pelle ti diventa bianca e itterica e sempre più sottile e nera. E poi muori. È così che va. È così che è successo a mio padre».
Caterina si sforza di piangere. Un paio di lacrime le rigano incerte le guance.
Il ragazzo la guarda come si guarda un set di pentole Ikea; poi le fa cenno di alzarsi, seguendo la folla che scorre. Buco nell’acqua, pensa Caterina. Del resto, il melodramma spiccio non attacca neppure con lei. Le persone all’Ikea sembrano banchi di sardine che risalgono la corrente dell’acquisto a metà prezzo, la spinta atavica del possesso a ogni costo. «Ti faccio solo gli ultimi due esempi» dice il ragazzo; poi si alza dal materasso. Il materasso ad acqua fa una danza come di sirena. Caterina resta a farsi cullare dalle onde – temporeggia, non sa perché; lo sguardo del ragazzo si fa più duro e intenso, e allora Caterina si alza, si fa largo anche lei tra la folla, risale la corrente in mezzo a mille altre sardine del tutto ignare che una direzione c’è, ma è la sola, l’unica scelta che ci è dato percorrere: avanti. Finendo dritti nella rete del pescatore.
«Il 22 dicembre del 1980 sono state emesse condanne a carico dei responsabili dello scandalo delle partite truccate».
«A mio padre piaceva il calcio. A mia madre no. A mia madre non piaceva niente. È la persona più triste che abbia mai conosciuto».
«Il Milan fu retrocesso in Serie B insieme all’amica Lazio, e molti giocatori furono penalizzati o squalificati».
«Mi sembra corretto. In effetti, lo è».
«Un’ultima cosa: il 22 dicembre del 1990 Lech Wałęsa è diventato presidente della Polonia, ma non glien’è mai fregato un cazzo a nessuno».
«Ah no?»
«È la stessa cosa che ho detto a mia madre – ah no?»
Il ragazzo s’infila dentro a un bagno azzurro e dorato. Caterina lo segue, il ragazzo si siede sulla tazza del cesso. Accoccolato così, come un piccolo titano che medita sulle sorti del mondo, ha tutta l’aria di un gran pensatore. Chissà se quella è una pistola o una banana, pensa Caterina. Tutti mentono; e il suo aguzzino non dovrebbe fare eccezione.
«Mamma dice che strizzavo le manine come per esprimere costernazione».
«Quanti anni avevi?»
«Ero ancora in fasce. Siccome non capivo quella storia di Lech Wałęsa, le ho domandato: “Ti prego, madre mia, illuminami riguardo al messaggio oscuramente celato dietro a queste sibilline parole”. Ho detto proprio così, ha detto mia madre; ero ancora un bambino in fasce e già parlavo un italiano perfetto».
Caterina osserva il suo riflesso in uno specchio. È pallida e spaventata. Nessuno sembra accorgersi che ha bisogno d’aiuto, perché a quelle come lei non le ascolta nessuno. Certe persone sono invisibili e basta. Certe persone, semplicemente, non sono.
«Mia madre si è asciugata una lacrima, commossa per aver partorito un figlio tanto intelligente. Poi mi ha detto: bambolino, dovresti arrivarci da solo. Il 22 dicembre del 1990 è successa una sola cosa importante, e non è certo l’insediamento di quel vecchio ciccione di Wałęsa. Il 22 dicembre del 1990 sei nato tu: Vladimiro detto Vlad Mancini. Un dono di Dio per questa squallida Terra».
Caterina apre il rubinetto sperando che ne esca dell’acqua. Non esce una goccia. Suda, non riesce a respirare. Le sembra di avere la testa in una nuvola d’aria fritta, fiato coagulato di gente bisunta, saliva appesantita di chiacchiere stracotte, umidità di corpi ammassati nello stesso posto, lo stesso, identico, somatico rumore.
«Ed è più o meno da quel momento, da quando ero ancora un bambino in fasce, che ho capito senza ombra di dubbio che da grande avrei fatto il supereroe».

Il supereroe preferito di sua madre è Batman. Caterina pensa che Batman sia un borioso coglione come tutti i miliardari; sua madre, invece, lo idolatra come fa con la Madonna e i santi. Bruce Wayne è come Gesù Cristo, le ha detto con quella vocina stridula e supplichevole; si fa carico dei peccati di Gotham per salvare più persone che può. Non si è mai chiesta, sua madre, se Gotham volesse essere salvata, se certa gente, in cuor suo, non preferisca serenamente bruciare. Peccato, colpa, redenzione: è come se non ci fosse spazio per altro, per esempio una bella condanna, l’impossibilità radicale, insanabile, di trovare la via del perdono. Caterina non vuole essere perdonata – né da sua madre, né dagli altri. Vuole soffrire, perché è così che vanno le cose; ma vuole che anche gli altri soffrano insieme a lei. Il perdono è la via dei codardi, gliel’ha insegnato sua madre quando si è fatta scaricare dal marito senza avere la decenza di dirgliene quattro. Il perdono è quello che ti resta quando non hai nient’altro su cui mettere le mani.

«Mamma fa la cassiera alla Pam. Il lavoro da non-supereroe fa schifo; per questo torna a casa arrabbiata e stanca. A casa non si può starle vicino senza che si metta a gridare o piangere, e da quando papà se n’è andato, da quando sono nato io, se n’è uscita sonoramente di testa».
«Anche mia madre è pazza. E il mio papà l’ha lasciata. Abbiamo un sacco di cose in comune, io e te. Non lo avrei detto, a prima vista».
Caterina prende posto sulla tazza del cesso, di fianco al ragazzo.
Le fa pena, adesso. E lo odia, forse più di prima: alla rabbia si è aggiunto il tormento, e dopo la stizza la tenerezza, un senso di protezione frammisto a voglia di menare le mani. È dura guardarsi dentro, capire veramente chi sei. È difficile, insopportabile, essere – pienamente e con sincerità.
«L’unica cosa che fa ridere la mamma è pensare a quando sarò grande: perché, le ho spiegato, una volta che sarò cresciuto diventerò un supereroe per forza».
«Ma tu sei già grande».
Le parole sono scivolate dalla bocca di Caterina senza che lei riuscisse a trattenerle.
Il ragazzo (l’uomo?) la guarda, e questa volta come si guarda una persona.
Caterina osserva la protuberanza che sembra tremare, come trema il braccio destro che stringe la pistola, come trema la palpebra destra di Caterina, e la sua mano sinistra, e le sue dita dei piedi, preannunciando una crisi più forte del solito.
Devo calmarmi, pensa.
Devo sforzarmi di smontare la rabbia.
«Quello che volevo dire, è… puoi già essere un supereroe, se vuoi. Non hai bisogno di crescere ancora».
«Ci ho provato. Non ci sono riuscito».
Il ragazzo si guarda allo specchio anche lui.
«Quando le dico così, che voglio diventare un supereroe, mamma sorride. Versa qualche goccia di una roba liquida e trasparente dentro al suo tè. Poi si addormenta, qualunque ora sia; e non si muove per il resto della giornata».
Caterina si alza e prende il ragazzo per mano.
Si dirigono insieme verso lo spazio dedicato alle cucine.
«Se mamma non dorme, guardiamo un film; ma prima di farlo accendiamo il computer e ripassiamo le cose che sono successe il 22 dicembre. Pare proprio che il 22 dicembre sia un giorno speciale, un momento dell’anno come nessun altro; e infatti speciale lo sono anch’io, e tra i miei compagni di classe nessuno mi assomigliava».
«A scuola nessuno mi parlava perché dicevano che sono brutta e scema».
«Quando ho compiuto diciott’anni, ho lasciato il liceo e sono andato a lavorare».
«Anch’io».
«Mi sono tagliato i capelli».
«Preferisco questa zazzera bionda».
«Mi sono comprato una valigetta, e dentro ci ho messo quello che, dopo aver studiato attentamente i fumetti, ho ritenuto essere il perfetto kit del supereroe. Cerotti, cibo in scatola, diversi tipi di mantello. Diversi tipi di maschera, anche; io non so quale indossare perché non so il mio nome – quello da supereroe, intendo; e quindi non posso sapere se sono più rosso o più blu, più uccello di fuoco o più pipistrello notturno, ma comunque, con il tempo, arriverò a capire anche questo».
«Che altro c’è, nella valigetta?»
«Attrezzi da scasso (ma solo per le case dei cattivi)».
«Giusto».
«Muffin per consolare i buoni subito dopo che gli hai salvato la vita».
«Ottimo».
«Cibo per gatti».
«Mi piacciono un sacco».
«Osso per cani».
«Non li ho mai sopportati».
«Il mio certificato di nascita, sgraffignato dal comò della mamma, di modo che, se qualcuno mi ferma, se qualcuno mi chiede che lavoro faccio, posso mostrargli il certificato come prova del fatto che sono un supereroe».
«Ce l’hai qui?»
«La valigetta?»
«Il certificato».
«Lo porto sempre con me».
«Che ne dici di farmelo vedere?»
Il ragazzo si guarda intorno con aria circospetta.
Sono dentro a una cucina verde – “Un tocco di freschezza”, recita un odioso cartello che penzola dal frigorifero a metà prezzo.
Caterina guarda il ragazzo che sfila la protuberanza dalla tasca anteriore della felpa.
Il momento è arrivato. La pistola sparerà.
Non ha nemmeno paura: è solo stanca.
L’Ikea sembra un posto infinito se non hai voglia di starci dentro.

Sono anni che Caterina non ha voglia di fare niente. Disturbo depressivo maggiore, lo ha etichettato Roberta De Carli, unito a un non trascurabile problema di gestione della rabbia – patologie che, per combinazione, impediscono a Caterina di tenersi un lavoro senza farsi sbattere fuori a calci. La cosa che più fa arrabbiare Caterina (“frustrazione”, la chiama Roberta) è che debba vivere al soldo di quella spina nel fianco di sua madre. Senza sua madre, Caterina sarebbe in mezzo a una strada. Senza sua madre non sarebbe niente, nemmeno la sua frustrazione, nemmeno la depressione e tutta la rabbia a cui si aggrappa per sfogare il malessere che prova. Se togli il nemico, La Madre, a un paziente che ha smesso di lottare, che cosa resta del Soggetto X? Sa rispondermi, dottoressa?

Il ragazzo estrae dalla felpa un tubo di carta arrotolata, piegato a forma di L. Lo ha piegato in quel modo lì per tenerlo più comodamente in mano. Ecco cos’era: pistola un cazzo. Quel fottuto certificato di nascita. Caterina è furiosa. Il ragazzo l’ha portata in giro per l’Ikea senza una ragione plausibile, come aveva in programma di fare lei quand’era uscita di casa quel giorno. Il ragazzo è un niente aggiunto ad altro niente, la falsa promessa di una morte eteroimposta. Avrebbe potuto agire, scagliarsi contro di lei, sparare, dannata pistola inesistente – azione oscena di un Agente Esterno che al Soggetto X, alla Caterina-cadavere, non avrebbe mai potuto essere imputata. Violenza subita, una volta tanto; il sonno eterno della morte nel conforto di sapersi vittima.
«Vuoi leggerlo?»
«Sì».
Il nervosismo le strozza la voce.
Il ragazzo fa per porgerle il tubo; poi si volta e si mette a correre.
Caterina non ha dubbi. Lo insegue.
Corrono; attraversano labirinti di gente, sardine abbarbicate l’una all’altra in un ridicolo groviglio ciancicante. Caterina schiva, salta, scavalca; oltrepassa una famiglia di coglioni, sbatte contro una stupida negra che non ha la decenza di levarsi dalle palle, inciampa nel passeggino di una donna che si mette a urlare, Caterina urla a sua volta, vai a farti fottere, dice, andate a farvi inculare tu e quel tuo bambino del cazzo; qualcuno ha chiamato la sicurezza, però non importa, non è tempo di fermarsi ma correre, c’è un tempo per fare e uno per disfare, dice sempre la sua stupida mamma, e il tempo di fare è arrivato, ed è il momento giusto per disfare.
Mobili e oggetti scorrono davanti a Caterina come nastri trasportatori affastellati di colori. Caterina legge i nomi ad alta voce: sembra un antico incantesimo silvano.
Brusali.
Oumbärlig.
Björksnäs.
Diminuzione o perdita di interesse per le attività inerenti alla routine quotidiana.
Agitazione o rallentamento psicomotorio.
Scaffale Billy, oggi in saldo al 40%.
Affaticabilità, perdita o mancanza di slancio vitale.
Prostrazione fisica.
Poltrona Poäng.
Insonnia o ipersonnia; significativa perdita di peso.
Letto Malm.
Attacchi di panico.
Scoppi di rabbia seguiti da pianto e senso di prostrazione.
Ingvar, Kamprad, Elmtaryd e Agunnaryd: IKEA. Il cartello torreggiante che catalizza interi banchi di sardine compresse. Ingvar Kamprad è il nome del fondatore; Elmtaryd è il nome della fattoria di famiglia. Agunnaryd è il villaggio in cui Ingvar Kamprad è cresciuto. La santa trinità della Svezia: fuori tutto al 70%.

Diminuzione o perdita di motivazione personale, ridotta o difficoltosa capacità di pensare: decidere – che lusso!, impossibile agire, pianificare il futuro.
Tendenza all’isolamento, solitudine completa – che poi si traduce a sua volta in sedentarietà, scarsa cura di sé, diminuzione progressiva dei rapporti sociali e affettivi.
Sentimenti d’inquietudine, livore, fastidio; impotenza, rassegnazione; sfiducia e delusione cocenti.
Vittimismo.
Negativismo insistente sull’attimo, perdita di senso nel vivere; senso di vuoto, tendenza al pianto; risentimento e rimuginìo costanti.
Pensieri di morte.
Ideazione suicida senza venire al dunque.
Lelaborazione di un piano specifico sarebbe già tanto, si concede Caterina; il tentativo di ammazzarsi, ammazzare qualcuno, sarebbe la più grande presa di coscienza possibile per una causa persa come lei.

Il ragazzo si è fermato davanti a un maxi frigo che esibisce tranci di salmone in offerta.
Caterina è arrivata un secondo dopo, scavalcando cipolle fritte e scatolame svedese.
Che cosa resta di un supereroe, una volta che gli hai tolto il nemico?
Che cosa resta di un essere umano, una volta che gli hai tolto la rabbia?
Niente. Solo la maschera.
Tutto ciò che hai sempre finto di essere per non doverti ricordare chi non sei.

Vlad guarda la donna. Ha qualcosa di strano negli occhi.
Sta per trasformarsi: non è questo, il momento giusto? Eliminare alla svelta Il Nemico, prima che assuma la forma finale. Agire. Non farsi fregare.
La pistola è infilata nell’anfibio destro: un vecchio trucco che ha imparato dai film.
Vlad si piega di scatto, afferra saldamente il manico: quando Il Nemico sarà sotto tiro, si darà la premura di sparare. Prima no: non conviene mancare il bersaglio. Ferirebbe Il Nemico di striscio, e allora Lui risorgerebbe – con grande scorno del genere umano.
Deve prenderlo in pieno petto. Deve ammazzarlo, spaccargli la testa.
Il Nemico è a un palmo di naso.
Vlad si guarda intorno; gli resta una cosa da fare: una sola, ma molto importante. La più essenziale per un supereroe.
Pannkakor, legge.
Dryck Julmust.
Potatischips saltade.
Sås senap & basilika.
Rostad lök.
Un lungo elenco di nomi impronunciabili.
Pannkakor va bene, pensa.
Piacerà molto anche a sua madre: è strano quel tanto che basta; e poi la maschera verrà da sé.

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