Vogliamo essere un orinatoio

Camilla e Martina si conobbero nel bagno di un centro commerciale.

Stavano entrambe piangendo, una lo faceva con gioia e sollievo, mentre l’altra viveva una piccola disperazione che di lì a poco avrebbe smesso del tutto di considerare, e sarebbe diventata solo uno stupido ricordo chiamato “punto di acuta incertezza” – un momento immaturo nella storia del suo cuore in cui aveva tanto desiderato di riuscire a provare almeno una sofferenza epica. Camilla singhiozzava dopo cinque giorni vissuti nella prospettiva dell’orrore di essere incinta di un ragazzo che non avrebbe mai più voluto rivedere, di sicuro non crescerne lo sperma, o parlarci apertamente per aprire un dialogo pro abortista, ma il test che aveva acquistato nella parafarmacia del centro commerciale le aveva annunciato esito negativo e ogni lacrima era un sospiro versato per gratitudine al suo utero restio; Martina piangeva dopo essere stata licenziata dal suo lavoro di commessa in un negozio di bigiotteria, la causa era stata la sua insubordinazione – si era rifiutata di riorganizzare per la terza volta uno scaffale che esponeva collane vistose, di finte perle lucide e ciondoli a forma di oggetti nello spettro della carineria: fiocchetti, sonaglini, animaletti, cuoricini spezzati e iniziali di un primo amore in un font ripieno di argento troppo leggero per essere ritenuto credibile. Martina era sicura, come sempre nei suoi stati avviliti, che la sua vita stesse andando in frantumi lì davanti a lei, che nessuno le avrebbe teso una mano o l’avrebbe rincuorata offrendole un pasto unto in uno dei fast food che fiorivano dappertutto rimpiazzando i luoghi dei ricordi in cui era cresciuta senza pensieri. Gli unici altri testimoni della crisi furono gli occhi di una donna delle pulizie che indossava un grembiule azzurro e dei guanti di gomma gialli lunghi fino ai gomiti. La donna le aveva osservate appoggiandosi al bastone di un mocio rotante immerso in un secchio di schiuma e candeggina, aveva sporto la testa verso il suono di quel pianto mescolato, per schiarirne i rantoli e capire quale rumore di muco provenisse da chi. Si era affacciata come a una finestra, e aveva trovato, nei volti rigati dalle lacrime proteiche – lacrime di sentimento, – delle creature esili e ingenue. Aveva scosso la testa, forse con un principio di pietà severa. Martina aveva delle collane che le fuoriuscivano dalle tasche, un premio che si era concessa per la fedeltà non ricambiata, un tentativo di afferrare quello che le veniva portato via. Le collane ondeggiavano a un ritmo rasserenante, suonando una ninna nanna di ferro smaltato. Camilla aveva il test di gravidanza ancora in mano, lo stringeva a sé per acuire la realizzazione e renderla tangibile: quella plastica non sarebbe mai diventata un infante tridimensionale. La donna delle pulizie credette che fosse una delle tante che si rovinava la vita dopo aver tenuto le gambe aperte troppo a lungo, e aveva pensato che quelle due disperate dovevano essere ancora individui prematuri: sui loro corpi, avvolto attorno ai fianchi, c’era un sottile filo di grasso che usciva fuori dai jeans, un grasso soffice e gentile che faceva tenerezza solo a immaginare di sfiorarlo accidentalmente.

Quell’estate entrambe le ragazze erano in una pausa, di ritorno dalla loro vita arrancata nelle università del nord.
Camilla era tornata a vivere con sua nonna paterna, una signora alla quale stava sparendo la vista e che aveva bisogno di una voce sussurrata all’orecchio per riuscire a guardare la televisione, o per leggere la posta. Ogni giorno, Camilla le si sedeva accanto e cercava di descrivere i numerosi intrecci dei medical drama che occupavano la programmazione televisiva del mattino; più tardi usciva a recuperare la posta e raccontava, prestando grande attenzione alle tonalità di colore, le immagini stampate sulle riviste, sui dépliant e sugli altri formati pubblicitari in estinzione che qualcuno insisteva a spingere nella cassetta delle lettere: “Qui ci sono una ragazza e un ragazzo molto abbronzati, sulla spiaggia, davanti a un grande tramonto color pompelmo. Indossano occhiali da sole e lei ha un fiore hawaiano tra i capelli”.
“Perché mi arrivano pubblicità di cose che nemmeno mi servono? Cosa me ne faccio della pubblicità di un tramonto?”
“Forse è la pubblicità degli occhiali da sole, o dei capelli…”
“Dimmi quando accade loro qualcos’altro”.

Martina condivideva un appartamento con tre dei suoi migliori amici uomini. La viziavano lasciandole avanzi di cibo non mangiucchiato e permettendole di lavare i suoi indumenti in un ciclo di lavaggio indipendente, inoltre erano attenti a non usare epiteti scorretti quando le parlavano di alcune ragazze che avevano visto essere nude o vulnerabili. Lei ricambiava confidando loro il desiderio operante nella vita sua e di tutte le sue amiche: mantenersi avide. L’avidità per Martina non era un vizio, ma un modo per espandere il tatto. Martina aveva le mani coperte di pelle liscia e calda, amava vantarsene e usava la scusa di voler mostrare il calore che aveva in pugno quando si trovava davanti al volto di qualcuno le cui periferie risultavano poco chiare – era certa che il tatto fosse il suo unico senso acuto, forse addirittura predittivo, diceva che dopo aver toccato un volto umano sarebbe stata in grado di riprodurlo in un ritratto a olio senza nessuna esitazione nei bilanciamenti del rosso (il rosso era il sottotono primario di tutti i volti che considerava interessanti).

Camilla era cresciuta pensando di essere una bambina dolce, glielo avevano ripetuto di continuo e lei aveva cercato di adeguarsi il più che poteva a quella personalità improvvisata che sembrava lo sfondo ideale per la grandezza dei suoi occhi; in realtà sapeva bene come essere cattiva e rabbiosa, riusciva ad avere pensieri crudeli su quelli che la infastidivano e aveva delle visioni su di loro – ne ipotizzava il futuro karmico e non era mai un futuro che terminava da qualche parte, era un futuro lento e coperto di macchie che si logoravano divorate da un batterio necrotizzante. Nel periodo in cui viveva da sua nonna, si occupava di lei in tutto e per tutto e restava ad ascoltare ogni suo racconto sulla vita in bianco e nero mentre le strofinava le caviglie gonfie, osservando la pelle massaggiata diventare gialla e a volte violacea da farle schifo. Si offriva anche di tingerle i capelli di nero carbone – la nonna non voleva rinunciarci, ci aveva provato una sola volta e aveva aspettato che le radici diventassero bianche, che i capelli crescessero bianchi fino a metà della lunghezza, cedendo solo alla fine, quando il bianco era ormai diventato il colore che l’avrebbe definita in punto di morte. Camilla ne era stata sollevata, la visione di quel bianco puro la stava facendo impazzire e le aveva ricordato che il tempo interno alla sua antenata più cara iniziava a esaurirsi.

Martina era abbastanza sporca, le piaceva circondarsi di sporcizia. Nella sua stanza c’era della muffa che cresceva sulle pareti e lei non agiva in nessun modo per cercare di debellarla. I ragazzi una volta minacciarono di denunciarla, dopo che dalla cucina sparirono tazze e bicchieri e piatti fondi e barattoli e cucchiai da portata e ciotole e pentole e qualsiasi altro strumento che potesse trattenere dell’acqua ben nutrita. Martina stava portando avanti un esperimento di agricoltura idroponica e la sua camera si era trasformata in uno stagno di ninfee rosa e alquanto sessuali. I ragazzi avevano battuto i pugni sulla porta della stanza chiusa a chiave, chiedendole di restituire tutto e di disfarsi dei fiori infestanti, ben consapevoli che nessun lamento avrebbe sortito effetto e che non sarebbe accaduto nulla di risolutivo finché Martina non si fosse sentita pronta alla separazione coi fiori che stava curando. Per tutto il tempo della disputa, lei finse di non essere in casa e usciva dalla camera nel cuore notte, col silenzio, per rifornirsi di acqua pulita. Da un giorno all’altro, dopo un numero di giorni il cui conto andò perduto, il suo interesse si sciolse – iniziò a temere l’odore dell’acqua e le sue oscillazioni: i riverberi che smuovevano il liquido diventarono suoi nemici, sentiva l’anima cadervi all’interno e inumidirsi come cartone. Ispezionò le ninfee con le sue sensazioni di scala, guardandole da vicino e da lontano e da estremamente vicino e da estremamente lontano, salendo e scendendo sul comodino della biancheria; immerse l’indice nelle aperture dei fiori e decise che quella conformazione così sfondata la faceva pensare a uno sfintere stremato. Buttò le ninfee in un pozzo che si trovava poco lontano dall’appartamento e non ci pensò mai più, se non quando le capitava di trovarsi di fronte a delle ninfee: quando accadeva, il suo unico pensiero era che la loro levità le faceva venire i conati. Questi conati scaturivano come da una sensazione di insoddisfatta pienezza dopo aver mangiato un budino troppo velocemente con un cucchiaio troppo grande rapportato alla capacità della bocca, il pentimento del corpo per essersi abbuffato di una qualche sostanza molle e sprovvista di forma.

Dall’incontro del pianto nel bagno pubblico, le due ragazze diventarono inseparabili e fecero tutto quello che fanno le migliori amiche nei romanzi giovanili che raccontano storie ultra-dettagliate solo per avvicinarsi all’idea della passione. Si vedevano durante l’estate e per il resto del tempo si telefonavano, si scrivevano, si pensavano e si immaginavano a vicenda e sapevano di avere entrambe, nelle loro provvisorie case lontane, uno specchio a figura intera davanti al quale sedere con le gambe incrociate per stabilizzare le sfumature di polvere che si tamponavano sul viso. Per due estati si rividero in primo luogo proprio in quel bagno del pianto, senza confidarsi la speranza che quel posto diventasse un luogo rituale, camminando avanti e indietro con i corpi che scorrevano allo specchio, illuminate dai faretti e circondate da un design che intendeva ricordare l’interno di una grotta del futuro – le pareti erano color fango e sul soffitto erano posizionati degli speaker che diffondevano suoni rilassanti, il fruscio di una foresta o le onde di un mare lontano sorvolato dai gabbiani. Si abbracciavano e si aggiornavano sulle storie vissute, parlavano dei comunisti che vivevano a Bologna e dei loro sporchi accampamenti, si raccontavano sfinite e con l’ansia che prevaricava in ogni loro nuovo sogno.

Martina disse da subito a Camilla che poteva presentarsi da lei in qualsiasi momento. Camilla si recò a casa sua ogni giorno, scusandosi: “Avevi detto che qualsiasi momento andava bene”, e dopo i primi ventuno giorni non fu più necessario mostrare quell’imbarazzo di circostanza, la sua presenza divenne l’inizio dello svolgimento di ogni periodo di luce, giornata dopo giornata.
Confrontarono le tonalità della loro pelle esposta al sole per decretare chi fosse in grado di produrre più serotonina – chiesero ai ragazzi di aiutarle a stabilirlo e organizzarono un concorso in cui la vincitrice avrebbe ricevuto un premio di ghiaccioli a basso contenuto calorico. Discussero sulla formula chimica dei ghiaccioli, Martina pensava che fossero fatti solo di acqua e sciroppo dolce, si rifiutava di credere che non fosse affatto così e sedette nella piccola cucina, circondata dai tre ragazzi e da Camilla, a leggere ad alta voce l’elenco degli ingredienti: “Acqua, fruttosio, polpa e succo di fragola (53,5%), destrosio, zucchero, addensanti, farina di semi di guar, farina di semi di tara, mix vitaminico, acido L-ascorbico… Non voglio più vincere, è un gioco stupido”.
In quella prima estate della loro amicizia, Camilla vide Martina perdere innumerevoli oggetti. “Se solo fossi più organizzata,” diceva, “non perderei le mie cose”. Il suo disordine era vissuto come un deficit. Non andava bene essere disordinata, non sapere dove fossero gli oggetti. Non era bello perdere le cose. Per anni aveva continuato a smarrire un anello che le era stato donato da qualcuno a cui un tempo era stata molto vicina e con il quale non aveva più altri legami. Camilla provò a chiedere chiarimenti sulla storia che si nascondeva dietro la perdita continua dell’anello, sicura che fosse un meccanismo inconscio per dimenticare qualcosa di sinistro, ma Martina ripristinava la memoria acquistando copie sempre più economiche del gioiello perduto, fino ad arrivare a una lontanissima riproduzione del valore non superiore ai quindici euro che si legò al collo con una catenina stretta, così stretta che nel sonno profondo avrebbe persino potuto rivoltarsi e strangolarla. Disse: “Lo perderò solo se ghigliottinata”. Aveva una fede indiscutibile nei suoi deliri, era il suo dono che riluceva e continuava a essere nutrito.

Le due ragazze amavano mettersi in viaggio, salivano nella vecchia Toyota Yaris di Camilla e guidavano a turno, per ore, per raggiungere il luogo di un concerto di qualche band i cui membri avevano siglato patti di lealtà con il sangue, e i cui nomi avevano molto a che fare, se non esclusivamente, coi fluidi corporei o le loro chiazze appiccicose – nel tragitto discutevano del significato dell’aggettivo edipico, Camilla ripeteva spesso: “Ho sia i daddy issue che i mommy issue, e stanno divorziando, e litigano per non ottenere la mia custodia”. Nelle soste in autogrill acquistavano una lattina di tè alla pesca che bevevano posando le labbra sulla stessa cannuccia – ne chiedevano due, affidate a Martina, e una andava perduta nel tragitto dalla cassa al sedile del passeggero, – e caramelle al caramello che spaccavano rumorosamente coi denti: solo così i frammenti di zucchero si scioglievano in fretta e procuravano loro un piacere pieno, istintivamente distribuito sulla lingua in modo uniforme.
Passarono interi pomeriggi a fumare erba che uno dei tre ragazzi procurava loro tramite un contatto affidabile chiamato Lo Slavo, – Camilla rollava delle canne perfettamente bilanciate sfruttando le sue dita sottili e la sua sottile lingua porosa – fumavano vicino a un grande lago aquilano famoso per avere la forma di un cuore e per essere costeggiato da cipressi e oleandri con i tronchi annodati e la chioma abbastanza ampia da riflettere un’ombra quasi fresca sui loro corpi rilassati. A Camilla si scioglievano i muscoli e la lingua si faceva pesante, Martina invece poteva avere esperienze di fusa oppure iniziare a tremare a partire dalle sue mani calde, fin sui gomiti, fin su in cima all’attaccatura della testa, e piagnucolava che lo spazio attorno stava facendo inversione, fuori-dentro, esterno-interno. Camilla le posava le mani al centro della schiena e premeva forte, emettendo un suono SWOOSH SWOOSH che cercava di riprodurre quello di un potente aspirapolvere nell’atto di risucchiare della polvere ostinata. La placava dicendole: “Immagina di tenere tra le mani una versione in miniatura di te stessa”.
A volte il tempo era un momento ininterrotto, Camilla si faceva assorbire e mancava per giorni, settimane, dalla casa della nonna, che infine la chiamava chiedendole se fosse ancora viva o se fosse andata a stare da qualche ragazzo che le aveva fatto promesse senza supporto. Camilla le diceva che non esisteva alcun ragazzo e che si era fatta schiarire i capelli, era diventata bionda o rossa, o che si era rasata una sezione di cuoio capelluto per far arieggiare il cranio. “Mi sento meglio così, più Io” e lo diceva di ogni sua versione riflessa ancora inesplorata.

Nella seconda estate, le ragazze si ritrovarono più povere del previsto, di una povertà assoluta e disturbante: non intendevano restare ferme a lasciarsi avvolgere dal vuoto e nessuna delle due aveva intenzione di andare a fare la stagione in uno dei ristoranti che servivano pizza e pesce fritto sulla costa. Chiesero suggerimento ai ragazzi, ognuno dei quali aveva un apprendistato di famiglia a cui tornare, ma nessuno si disse disposto ad accoglierle come magazziniere o ragazzo di officina – anche se dissero che avrebbero voluto vederle sporche di grasso meccanico, dando loro un’idea che le due ragazze cercarono di rimandare indietro solo per il tempo sufficiente ad abituarsi al suono che emetteva nelle loro coscienze: non pensavano che una decisione presa per convenienza potesse rivelarsi una pessima idea, era il sopravvento l’unico a stabilire quali paure fossero reali. Il piano era di vendere l’idea del loro corpo, un sesso al giorno per il il resto dei giorni insieme, flirtando senza pensarci, senza mai separarsi dal loro valore speciale. Scavare nelle convinzioni le aiutò a rimanere fedeli alla propria morale quando il tempo si fece difficile.

I gemiti degli uomini erano sempre uguali: prima brevi e goffi, poi lunghi e ululanti. Le ragazze si scattarono delle foto nelle quali era visibile il poster di Frances Ah che Martina teneva incorniciato sopra il suo letto, e scoprirono di avere il seno delle stesse dimensioni, coi capezzoli che si indurivano nelle sottili correnti d’aria. La stanza era così augusta che presto ogni cosa si impregnò del puzzo di fumo post-coito, contaminando i loro polmoni. I corpi si coordinarono, manifestando gli stessi malesseri, perdendo sangue con la stessa regolarità e costringendole ad assumere antibiotici per curare le infezioni del tratto urinario. La loro pelle sessuale aveva linee dorate come il sole e minuscoli diamanti scorrevano nel loro sangue. Una di loro credeva nella tortura, mentre l’altra no. Una di loro poteva cavalcare un uomo per quarantacinque minuti ritardando la gratificazione e guadagnando di più, mentre l’altra compiva atti di indecenza strisciando lentamente a quattro zampe attraverso una stanza scarsamente illuminata. La libertà finì per assomigliare molto all’abbandono. Gli uomini che cercavano disperatamente di apparire accomodanti non lo erano mai, in quegli incontri le ragazze sentivano crescere una paura acuminata, ma alla fine pensavano che fosse naturale sentirsi in pericolo quando si vacilla sull’orlo del cambiamento (il cui nucleo, in fondo, applica lo stesso principio della rovina).
Camilla ebbe dei ripensamenti, si chiedeva quale fosse il suo scopo di creatura di un universo tendente alla marea, e sentiva di aver già sperimentato abbastanza perdita nella sua vita, come se avesse smarrito un’intera persona dentro di sé. Martina le insegnò a terminare il processo di deliberazione senza spezzare il suo spirito, le disse: “Smettila di pensare alle scelte attraverso le loro conseguenze più estreme, la responsabilità del tuo corpo è solo tua”.
“Ho paura che il mio cuore diventi patetico”.
“Guardaci. Viviamo nella nostra terribile città natale e i nostri cuori sono già patetici. Dovremmo comprare vestiti nuovi e dormire per mille anni”.
“C’è qualcosa di spirituale nel modo in cui elevi la vanità e la pigrizia, mi emoziona esserne testimone”.
Alla fine della discussione, Camilla decise che avrebbe dato alla luce un santo – prima o poi, quando fosse stata pronta, per fare un passo avanti rispetto a ciò che già voleva, per navigare se stessa verso un faro di cellule di carne compatta.
Prima che l’estate finisse e i loro indumenti striminziti tornassero a occupare lo spazio in uno scatolone, decisero di fare un investimento per migliorare la qualità della loro vita invernale. Si iscrissero a un sito di dating per sugar baby e si misero in mostra come gemelle. Avevano qualche somiglianza e non risultavano precisamente identiche a una luce naturale, ma nessuno avrebbe mai potuto dubitare che tra di loro fosse in atto un legame genetico. Condividevano lo stesso armadio e si scambiavano i vestiti, a volte anche nella stessa notte, approfittando di un bagno senza fila alla porta o di un ascensore che poteva arrivare a un piano molto alto, dando loro il tempo di osservarsi a vicenda e di notare ad alta voce che era sempre l’altra quella con l’aspetto più sofisticato e il culo più grande e le labbra più allusive e il passo più posato, e che era dunque sempre e solo l’altra quella degna di diventare una visione.

Age: 24
Body Type: Slim
Body Hair: Lisce come delfini
Smoker: Sì
Tattoos: Sì
Piercings: Sì
Languages: Italiano, Inglese, Francese scolastico, Spagnolo scolastico
Position: Su richiesta
S&M: Sì
Kissing
Safe Sex: Sempre, non tocchiamo cazzi che non siano coperti
Hourly Rate: Su richiesta
Overnight Rate: Su richiesta
About me: Non riusciamo a decidere se buttare via questa composizione di fiori secchi che ha vissuto con noi per settimane. Non ha alcun valore emotivo e non è un bouquet sensazionale, ma non riusciamo a separarcene. Ci sentiamo sentimentali, ma solo uno sforzo colossale ci ha permesso di capirlo.
Non consideriamo di cattivo gusto essere orgogliose di un paio di scarpe.
Siamo due ragazze giovani e costose, abbiamo scoperto il sito grazie a un forum su Reddit dedicato allo sugar lifestyle e ci piacerebbe approfondire questo tipo di dinamica. Non abbiamo grandi aspettative, sappiamo che gli uomini mentono sul loro patrimonio e sulla loro altezza, ma vorremmo comunque fare un tentativo. Non cerchiamo storie che richiedono grande impegno di tempo, studiamo e vogliamo avere una nostra vita. Cerchiamo qualcuno che ogni tanto ci faccia dei regali in cambio di qualche serata insieme. I feticismi ci divertono, vogliamo essere un orinatoio o qualsiasi altra cosa ci faccia sentire sporche.
Seeking: Perché citate Lynch quando potreste citare Claire Denis?

Il novanta per cento degli uomini che rispose all’annuncio aveva la faccia coperta o cancellata digitalmente, e dichiarava di essere medico, o ingegnere – alcuni dicevano che la privacy per loro era parte fondamentale dell’esperienza e che erano uomini pubblici, intendendo politici o forse preti non spretati. Le ragazze lessero i messaggi ricevuti, eliminando quelli che chiedevano di conoscere i loro veri nomi e quelli che chiedevano altre foto in cui avrebbero dovuto mostrarsi con grandi sorrisi di sforzo – ci fu un uomo che specificò di voler vedere un sorriso che rivelasse i denti, dicendosi non disposto a pagare per guardare una faccia con la dentatura non lineare (una truffa che lo aveva già danneggiato in passato). Le ragazze lo presero in simpatia e gli inviarono foto di vagine dentate trovate su Google e foto di disegni della porta dell’Inferno realizzati a grafite, prima di invitarlo a uscire per un appuntamento veloce. Si presentarono con gli occhi rossi di una sbornia, nonostante fosse ancora giorno, vestite da vagabonde con abiti che avevano tirato fuori dalla cesta dei panni sporchi cercando di non scavarvi troppo a fondo, ottenendo bizzarri accostamenti di stili e di odori. L’uomo disse di essere un sassofonista e che insegnava musica in un liceo coreutico, aveva trentotto anni ed era germofobico. Disse alle ragazze che avrebbero dovuto farsi una doccia davanti a lui, con una spugna esfoliante e un bagnoschiuma vegano che avrebbe fornito loro ogni volta a seconda dell’odore che avrebbe preferito rievocare sui loro corpi sudati. Al primo incontro per il sesso, si presentò con una scatola di salviette e si mise tra le due ragazze per equilibrare i sensi, dividendo gli occhi per osservare quel conversation piece che avevano allestito nella camera di Martina – riqualificata per dare un senso di boudoir, posando una sciarpa di chiffon rosso su una lampada che rifletteva sulle pareti le sue nervature, delle grinze sinuose che facevano apparire la stanza come rivestita di un tessuto aderente. All’uomo piacque molto Camilla, che non perdeva mai il contatto visivo e che sorrideva con sincerità; iniziò a guardarla con entrambi gli occhi e a Martina quell’esclusione non diede fastidio, le sembrava di doversi applicare di meno nella seduzione e inoltre riusciva a fare sesso solo da estraniata, quando si usava come una barriera o un passaggio.
L’uomo sfruttò i minuti senza erezione per parlare con le ragazze a proposito della loro visione del mondo. Camilla rispondeva a tutte le domande, con una certa cura, dando l’impressione di aver già affrontato quegli argomenti nella sua testa, con adeguata qualità di esercizio e di resa. Martina si animava a stento, rispondendo quasi esclusivamente alle domande sull’amore che ancora non aveva mai visto. Aveva risposte ipotetiche che pronunciava lì per la prima volta anche a se stessa. A una domanda su quale fosse il suo uomo ideale, rispose: “Un dreambot con gli occhi di un gatto selvatico”. Sapeva dell’esistenza di società per lo sviluppo robotico che campionavano vere lacrime maschili, aveva letto anche questo su Reddit e le era sembrata un’impresa deliziosa. Si chiedeva quale fosse l’uso che ne avrebbe potuto fare e dove fossero finite le raccolte di lacrime già archiviate, forse in qualche videogioco o in qualche bambola sessuale per sadici. Voleva dire che le sarebbe bastata una voce inaspettata, anche appena udibile nella crepa di un fruscio. Sentiva una misteriosa spinta a tenersi stretta a quelle persone invisibili, un richiamo per le loro voci offuscate dal dolore.

Camilla si accorse che Martina era sempre più incapace di focalizzarsi, a volte del tutto staccata dal momento. Non credeva che fosse allarmante, aveva da sempre pensato che alcune persone non fossero portate per il senno e che avrebbero scoperto in qualche modo un diverso tipo di apporto da offrire alle braccia della società del futuro. Capì la vaga gravità della situazione quando divenne usuale chiedere a Martina il perché della presenza di foglie incollate col fango alle sue piante dei piedi, ricevendo in cambio solo un’ingenua alzata di spalle. Non fu solo questo. Fu il modo in cui Martina parlava del suo cervello come di un muscolo sottoutilizzato che le si gonfiava con fare grottesco sotto le radici dei capelli. E fu per il suo compleanno, in una notte d’agosto di calore senza pari, in cui Martina volle cucinare una torta per poi soccombere alla distrazione e fissare la Luna dalla sua postazione di bozzolo sul divano recentemente coperto da un nuovo tessuto antimacchie di cui tutti i fili vennero tirati e scardinati dalle sapienti unghie di Martina, ormai assorta nella visione della luce attraverso una nuvola di fumo denso che ingerì le pareti tingendole di grigio sporco.
Martina seminò altri labili inizi della strada che aveva inforcato, alternando pensieri teneri e trepidi alla sua voce arrogante, muovendosi in giro a tratti con il suo corpo ceduto e in certe occasioni saltando in sella alla sua bici e pedalando selvaggiamente, quasi ne dipendesse la salvezza della sua anima. I suoi occhi si riempirono di stati d’animo sonnolenti. Camilla cercava di starle accanto anticipando le tensioni e la guardava dimenarsi pensando che qualcosa dentro di lei la stava manovrando in due direzioni, come un’attrice sul palco che cerca di andare avanti col suo copione mentre riceve le invettive di una voce dalla buca del suggeritore: una voce astratta, forse scurrile, incomprensibile per quelli che cercano di seguire l’azione della scena. Ci fu un furioso temporale nella notte in cui Martina diede di matto per la prima volta.

Un giorno Camilla si svegliò e non trovò Martina al suo fianco, la cercò al telefono e avvertì i ragazzi, nessuno dei quali fu in grado di fornirle dei validi indizi – l’ultimo avvistamento risaliva a una doccia notturna della sera prima. Passarono ventiquattro ore di silenzio e prima che fosse denunciata la sua scomparsa, Martina tornò a casa come se niente fosse accaduto, portando con sé altre foglie che si rimosse dai piedi strusciandoli pesantemente sul pavimento. Disse che non era riuscita a chiudere occhio, col pensiero fisso che l’estate sarebbe presto finita e le cose cambiate, mentre lei avrebbe voluto che tutto rimanesse così com’era. Si era dunque alzata ed era uscita in cerca di una soluzione fornita dalla viva voce di un angelo.
“Quando sono da sola, sento che il mio corpo smette di crescere. Ma non mi piace stare senza di te”.
Camilla non lasciò trapelare né sconcerto né sollievo: “Allora non andartene più senza di me. Promettimelo”.
“Lo prometto. A volte il mio corpo funziona senza che io glielo chieda. Si limita a ciondolarmi attorno come una strana tuta di pelle autoriparante. Ti faccio vedere”.
Martina afferrò il suo telefono e fece scorrere sullo schermo una sequenza di tredici fotografie che mostravano l’apparizione e la sparizione di una ferita da lametta che si era procurata sulla gamba sinistra mentre si depilava. “Si è saldata per magia, io non ho fatto niente”.
Mancavano due settimane alla fine dell’estate. I ragazzi installarono una piscina gonfiabile in giardino e le serate trascorsero attorno a quella pozza, tutti vi immergevano i piedi per rinfrescarsi e intanto bevevano birra tiepida fissando i miraggi che si aprivano nei campi, subodorando una specie di domani i cui bordi erano troppo complessi per farli sentire nel posto giusto, e troppo sfumati per far venir loro voglia di muoversi. Sopra di loro c’era un grande cielo stellato, una palude blu che ronzava, e per quanto si sforzassero non riuscivano a distinguervi alcun disegno, al massimo una faccia butterata. Si sentivano nati dal nulla, ammassi di materia statica e senza storia. I respiri accelerati venivano curati a sorsi.

Camilla fece un regalo a Martina, qualcosa che sapeva le avrebbe fatto piacere curare. Le regalò un coniglietto bianco e glielo affidò assieme a un libro sulla cura dei conigli, che poi si rivelò un libro di ricette gustose a base di coniglio, che ovviamente fu buttato nella pattumiera prima che il coniglietto potesse restarne impressionato. Il motivo di quel regalo era la convinzione di Camilla che Martina avesse bisogno di coltivare responsabilità semplici: riempire un abbeveratoio, tenere una gabbia pulita, nutrire una creatura che avrebbe potuto veder crescere di quel nutrimento. Si salutarono con quella promessa di sopravvivenza e sapevano che quando si sarebbero riviste, sarebbe stato per dare inizio alla loro adultità.

Trascorsero alcuni mesi e l’estate giunse prima del tempo, per un silenzio preoccupante che si era protratto troppo a lungo. Camilla si presentò a casa di Martina, nella casa lontana, per salvarla dalla sporcizia e da un’ingiunzione di sfratto. La trovò carponi accanto al bidone della spazzatura della cucina, tra le mani aveva una bomboletta di lacca per capelli e la stava spruzzando su dei vermi immaginari che lei credeva avessero infestato la casa. Lo spazio era invivibile, pieno di cose accumulate che risiedevano stabilmente sul pavimento, nel corridoio, sui mobili. L’unica stanza pulita, arieggiata e senza bruciature di sigaretta, era la stanza in cui viveva il coniglietto. La sua pelliccia era profumata e soffice, sembrava un coniglio felice come non se ne vedono più.
“I miei hanno smesso di pagare l’affitto. Dicono che sono una causa persa. Hanno ragione…”
“No che non hanno ragione”.
“Sì, invece. Mi hanno mandato in quella clinica e mi hanno messo delle etichette di plastica sui polsi… Ho fatto quello che mi hanno detto e ho bevuto il caffè dai bicchieri di polistirolo, e non è servito a niente. Sono ancora così”.
Camilla le tolse di mano la bomboletta e la aiutò a spazzare via i vermi che non esistevano. Risero così forte che qualcuno andò a suonare alla porta per chiedere che facessero silenzio, ma loro non smisero di ridere finché la bomboletta non ebbe esaurito l’ultimo soffio, e allora risero ancora più forte, con la bocca larga, così aperta che avrebbero potuto inghiottire un Sole.

Camilla disse a Martina di seguirla in un posto nuovo in cui vivere. Nell’udire quella offerta, la sua aura sembrò addensarsi all’improvviso, riacquistando agilità. Raccolsero quanto di non infetto era rimasto nella casa, il coniglietto, una pianta ancora mezza viva e si avviarono verso l’uscita. Andarono a stare nella casa della nonna di Camilla, che nel frattempo era invecchiata di colpo e aveva avuto un ictus che richiedeva delle cure speciali in una clinica per morti viventi. La casa era intatta, come Camilla l’aveva lasciata, coperta di lenzuola che impedivano alla polvere di appiccicarsi alla materia dei suoi ricordi. Dormirono nella camera padronale, in un letto che era diventato una catasta di cappotti che la nonna di Camilla aveva indossato negli anni della sua giovinezza e che aveva abilmente conservato nel cellophane. Cappotti che nessuno dei suoi figli aveva rivendicato nel corso dei conteggi per l’eredità. Tutti i cassetti erano stati aperti in cerca di oggetti di valore da spartire e così li trovarono le ragazze, che a loro volta ne esaminarono il contenuto, trovando moltissime vecchie foto di famiglie passate e vecchie lettere di carta ingiallita. Trovarono anche quelli che ipotizzarono essere i denti da latte di un bambino e un carillon senza suono che custodiva uno straccio di seta pallida e una scurissima ciocca di capelli tenuta insieme da un elastico di plastica colorata, di quelli che usano le bambine per sistemarsi i capelli in sottili trecce ordinate che rendono la testa un po’ tesa. Dormirono creando dei varchi nei cappotti, in un nido caldo, con i corpi rannicchiati e le ginocchia che si toccavano nel buio. Nel sonno, ogni movimento creava un suono di pacco scartato senza fretta per la rivelazione.

Nei giorni che seguirono, si lasciarono andare e vennero infestate dalla versione più stupida di se stesse. I loro campi di interesse comprendevano ricerche su Google:

• giochi fai da te per conigli
• quanto si guadagna vendendo biancheria intima usata
• l’acqua del rubinetto è potabile secondo quali criteri?
• quando viene portata via la spazzatura?
• Hugo Wolf Italian Serenade
• auto d’epoca
• sognare di perdere i denti
• sognare di trovare dei denti
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Costruirono una vera incostanza che sembrò protrarsi all’infinito, rammollendo i loro nervi, rendendole placide. Rinsavirono durante la visione di una pubblicità degli anni ‘70 in cui due ragazze della loro stessa corporatura entravano di corsa in una Ford Mustang azzurra: sorridevano, avevano lunghi capelli ricci che si muovevano al rallentatore in un vento sabbioso, pacchetti di sigarette custoditi nelle tasche posteriori dei jeans e stivali da cowboy di pelle nera. Sembravano così piene di vita. Era la velocità che le rendeva così entusiaste, così piene di voglia di proiettarsi verso una destinazione. Non ebbero bisogno di parlarsi, la coabitazione le aveva rese telepatiche e seppero di doversi raccogliere, darsi una sistemata, indossare i loro orecchini a cerchio – i cerchi più grandi che avevano, bucando la cartilagine dei lobi che si era risanata per l’inutilizzo degli abbellimenti. Cercarono “treni economici per Berlino”, poi “autobus economici per Berlino” e infine “autostop per Berlino, è possibile?”. Prima di lasciare la casa, fecero un bagno al coniglio, tenendolo fermo in una vaschetta con dell’acqua calda. L’acqua fece sgonfiare il pelo dell’animale, che ora gli pesava addosso rivelando il suo minuscolo scheletro. Sembrava una creatura aliena appena abortita e le ragazze lo trovarono adorabile e gli diedero dei bacetti mentre attendevano che la pelliccia fosse del tutto asciutta. Presero delle carote per sfamare il coniglio durante il viaggio e si chiusero la porta alle spalle. In strada, per tutto il tempo si accarezzarono le orecchie a vicenda e si meravigliarono di quanto sangue e di quanto calore scorresse nei loro volti.

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