Gâchis

Le cerveau c’est un organe en plastique

“Sei tipo un aborto arboreo. Un bel po’ bella.”“Sono che?”
“Un aborto. Arboreo.”
“Va bene, fraté.”
“E bella un bel po’. Contenta?”
“Di cosa?”
“Che ti ho fatto un complimento, dici che non te li faccio mai.”
“Se per te chiamare aborto la gente è un complimento, okay.”

Il riverbero del palazzo nella pozzanghera colpisce le iridi con precisione calcolata. Accanto i rimasugli di un kebab vomitato alle cinque del mattino da un ragazzino in after. Le monde est un gâchis le aveva detto un giorno un barbone davanti al supermercato. Lei aveva risposto solo: “in italiano, bro” ma arrivata a casa aveva googlato. Il mondo è un pasticcio.

“Hai presente i rami del gelsomino, quando li spezzi, uh?”
“A dire il vero no.”
“È una bellezza insanguinata, con un poco di violenza dentro.”
“Come il sesso?”
“Se non fossimo due cani bastardi diresti come l’amore.”
“Può darsi. E invece siamo caccole di periferia.”
“Eh.”

La mente vagola nel pasticcio del mondo con un funzionamento attacco-fuga: una fragolina che fluttua sulla crostata dell’esistenza senza trovare un posto se non quello appiccicaticcio tra le dita di un bambino ingordo.

“Touché.”
“Mon petit.”
“Touché.”
“Mon petit.”
“Hai rotto.”

Non potendo trovare di che sfamare la voragine dentro lo stomaco, il bambino trangugia tutto quanto: tranne lei, la fragola.

“A volte ti penso e penso che sei deficiente forte.”
“L’erba però te la porta sempre puntale, il deficiente.”
“Mi sembra il minimo.”
“Ah sì? Sentila, uh. E il minimo per cosa? Sentiamo.”
“Ma se senza di me non sopravviveresti un giorno.”
“L’unica cosa che accadrebbe senza di te sarebbe l’avere più erba e sanità mentale.”

Su un muro:

Quanto costa essere Anam, bruciarsi i polsi e tagliare le vene coi cocci, i vetri, vivisezionare i riflessi. Maledetti, i fottuti riflessi. Non riconoscersi più mentre ti crescono i capelli. Le cellule morte sorvegliano il coma e ne rimandano altri, di quei fottuti. E poi basta, li tagli, li affoghi nella pozzanghera e aspetti che salga il calore dell’alcol e del fumo. Tutto insieme, bruciarti vivo e diventare costruzione in vitro, espellere il senso, rinunciare, espellere ancora, bruciare, trucidarlo, ogni riflesso e finalmente affogare, schiacciare dentro la pozzanghera quelli che tornano indietro. Morirci di nuovo: essere Anam.

Ogni città ha i propri poeti barboni. E si dice che da loro si possa prendere un po’ di verità mischiata a succo di fragola.

“Non me l’hai mai detto.”
“Che cosa?”
“Lo sai.”
“Ancora questa storia.”
“Ascolta: sento qualcun altro? Zero. Scopo con qualcun altro? Zero elevato allo zero.”
“E perché allora non lo dici?”
“Perché non ho voglia, porca puttana. Che stronzo del cazzo.”
“Madonna adesso non piangere perché mi fai incazzare abbestia, Cristo. Fammi andare va.”

Ogni città ha i propri amori fragili.

“Petit. Petit lune.”
“Ebbasta.”
“Senti, sai cosa ti dico… mi hai rotto davvero il cazzo, stavolta. Non vediamoci più.”
“Dio. È che sei così… così… perché devi essere così dolce e strana? Non è normale.”

Ogni città ha le proprie solitudini, riposte al di là di ogni lente. A volte, alcune si intercettano. È raro. Ma quando accade è un rapimento, l’evento precipitante. In grado di riaprire la fessura e captare l’universo invisibile delle fragole.

“Hai presente il punto di fuga nei quadri?”
“Ti sembro uno studiato?”
“Beh un minimo, però.”
“Vabuò. E quindi con sto punto di fuga? Cosa volevi dire?”
“E se ce ne fosse uno anche qui?”
“Qui in camera tua?”
“In questa città del cazzo.”
“Pensavo non ti dispiacesse.”
“Alle gabbie ci si abitua.”

Ogni città ha i propri lacrimatoi, le proprie feritoie. Al di là dell’illusione solidificata, della normalità conclamata. In quel frammezzo silenzioso che contorna il non detto.

Una pietruzza di mare:

Ventisette anni da quando quel bambino bischero mi ha sottratto il mare e stancatosi dopo appena due ore mi ha lasciato cadere qui dalla sua borsa. Ventisette anni di storie liquide, ammaccate. Di chi si ammazza la notte con le parole e di chi non sa se ne passerà un’altra, di notte. Ventisette anni di incertezza subacquea.

“E tu, l’hai trovato questo punto di fuga?”
“Non ancora. È solo un’ipotesi.”
“E l’attacco? Come funzionerebbe?”
“Non ne ho idea. Non ho mai saputo attaccare. So soltanto una cosa.”
“Cosa?”
“Proteggere il proprio dolore affinché gli altri non ne facciano sciacallaggio. Sottrarsi al gioco delle parti.”
“Profondo.”

Ogni città ha le proprie verità alcoliche. Negli amori fragili, nelle pietre, nelle solitudini, sui muri. Nelle parole dei barboni poeti e in quelle di quel paio di tacchi persi in giro il sabato notte.

“Chissà come sarebbe saper attaccare.”

Il succo di fragola si nasconde in agguato a ogni incrocio, a ogni strada. Ma non osa parlare: osserva, attende. Fa fatica a esprimersi, forse per un linguaggio differente. Del gâchis ogni città è un microcosmo. Ogni città una speranza irrisolta e infine soffocata.

“A me basterebbe imparare ad affinare le mie doti culinarie e non andare avanti solo a uova sode, ci sono delle priorità.”
“Sarà.”
“Di nuovo quegli occhi tristi e sconsolati.”
“E che ti devo dì. Puoi andartene, se vuoi. Così non li vedi.”

Spesso le fragole non possono nulla.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *