Superstar

Le dico di togliere i piedi da lì. È tipo la centocinquantesima volta che lo faccio.

Lei scioglie il nodo delle caviglie e lo riallaccia nel verso opposto. La curva che si allunga dall’alluce al ginocchio ricalca preciso uguale il profilo del Monte Zingomarro affogato di ginestre che scorre dietro al vuoto del finestrino. Sembra uno di quei giochi idioti che si regalano ai bambini. Quelli con foglio di cartone e trasparente da sovrapporre così poi cambia il disegno. Qui invece combacia tutto.

«Ma davvero dobbiamo ascoltare questa lagna fino al lago?».
«I Sonic Youth una lagna? Cazzo… il rock, questo sconosciuto…».

Diana si gira molto lentamente. Ci conosciamo da quando siamo nati. Lo so che se fa così è perché è incazzata nera. Ma resta calma. Quindi da fuori sembra tutto ok anche se non lo è per niente. Mastica un chewing gum viola a bocca aperta. Dietro lo spazio tra gli incisivi, la lingua macchiata di quando da bambini mangiavamo le more selvatiche strappandole dai rovi che crescevano dietro alla sua casa di Capocolonna.
Chi ci abita, adesso? Ogni volta che riempio quelle stanze luminose con degli estranei mi risale una rabbia cattiva.
Diana unisce le labbra e fa una bolla enorme, ci soffia dentro finché non le esplode in faccia. Poi muove una mano sulla manopola dello stereo e cambia frequenza.
Proteste silenziose. Rivoluzioni.
Il suo sorriso imperfetto l’ha fatta soffrire, è per questo che adesso usa rossetti fosforescenti. Rosso geranio, fucsia Barbie, corallo strappato direttamente dal fondo dell’Oceano Pacifico. Da quella fessura tra i denti da latte passavano le offese che l’hanno resa quella che è oggi: una strega vera, bellissima e potente. Da quella fessura, quando è molto vicina, respiro il suo fiato dolce di caramella mou.
Non ci credo che la sto portando alla festa sul lago. Proprio io. Da quel coglione di Luigi Maria Stoccardi. Non saprebbe distinguere Diana da mia nonna. Ma lei adesso ne è innamorata. Adesso è il turno di Luigi Maria.
Le cime dei pini del lago Ampollino si fanno più vicine. Diana si agita. Finalmente leva i piedi dal cruscotto. Ci sono le sue impronte sulla plastica grigia, segni che rimarranno.

Il fuoco del falò ci regala la tinta delle polaroid vecchie e sfuocate, ricordi a pezzi. Intorno il buio dei pini è una foresta indistricabile e spaventosa. Attraente.
Diana canta accanto a Luigi Maria che suona la chitarra. Il coglione e l’ennesimo dono: un nome che neanche il figlio del Presidente, capitano della squadra di calcio del liceo, suonatore di chitarre ai falò. Io me ne sto seduto, a gambe incrociate, proprio davanti a loro. Nelle orecchie Superstar mi regala le immagini di un altro film, quello di Diana che si alza e viene a sedersi qui. Chiudo gli occhi e confondo il calore delle fiamme con quello del suo corpo, caldo in ogni stagione dell’anno.

Long ago and oh so far away
I fell in love with you before the second show
Your guitar, it sounds so sweet and clear
But you’re not really here
It’s just the radio

Apro gli occhi e guardo verso la pineta, il buio mi chiama. L’estate dei miei sei anni io e Diana ci siamo persi in un bosco. Per questo ha paura dei cani, e quando dorme da sola sogna di essere rincorsa da un animale che vuole sbranarla. Usa questo verbo, ogni volta: non “mangiarmi” o “divorarmi”; “sbranarmi”. Dice che nel pronunciarlo si sente il rumore della carne che si sfilaccia sotto ai denti.
La birra finisce, me ne faccio passare un’altra da una tizia con un caschetto biondo che agita a destra e a sinistra, a ritmo. Ha delle belle gambe e mi sorride, ma sono così stanco. La mancanza di ciò che vuoi ti sfinisce.

Loneliness is a such a sad affair
And I can hardly wait to be with you again

«Dobbiamo buttarci in acqua».
La mano di Diana mi sfila un auricolare, sussulto. I suoi capelli ramati si annodano attorno a collo e nuca.
Rimango con lo sguardo fisso sulla danza di fuoco, uno spettacolo da ipnosi. Dico: «Sarà congelata».
Diana appoggia le labbra corallo al mio orecchio: «Sei una cazzo di lagna, Lippo. Proprio come i Sonic Youth», poi si solleva dalle ginocchia con un colpo di reni e si dirige verso la riva.
Non voglio seguirla, odio quando contrae il mio nome, ma il suo corpo che si smargina contro il buio dell’Ampollino mi attrae più del nero della pineta. È un richiamo che mi suona dentro alle ossa, l’eco se ne va in giro e finisce per riempire di colpi da basso l’interno della mia cassa toracica.
Diana sta al mondo secondo un ritmo che io devo ballare.
Lasciamo i vestiti sulla sterpaglia che cresce a ciuffi nella sabbia. Le mie scarpe da ginnastica sono esattamente la custodia delle ballerine di Diana. Mi viene in mente che vorrei contenerla. Ho sempre voluto mangiarla. In fondo, ha paura dei sogni perché sono premonitori.
«Lippo corri!».
Saltella nell’acqua petrolio, liquido denso, pericoloso. Le voci attorno al falò ci arrivano rarefatte, mi giro verso quei volti ormai indistinti, cerco la faccia di Stoccardi e non la trovo. Vorrei essere guardato da lui, ora che sono con Diana. Lei schiaffeggia la superficie gelata e minuscoli schizzi mi raggiungono alla schiena. Fa così: il suo divertimento viene prima di tutto. Allunga una mano verso di me, la afferro perché non posso sottrarmi. Non ci riesco. Al contatto, sento le unghie appuntite contro il palmo; durante il viaggio, in auto, ne osservavo i bordi smangiucchiati. Ha il vizio di infilare l’indice nello spazio tra gli incisivi, sfregare finché non salta lo smalto, raccoglierne pezzetti sulla lingua per poi sputarli lontano. Smalto rosso mattone, dita sporche di sangue, di marmellata di more mature. Le mani sono quelle di Diana bambina, rotonde. Devo ricordarmelo.
Mi attira a sé, finiamo uno contro l’altro.
Quando è eccitata mi tocca. A volte è un abbraccio. Altre una spinta. Ma non conta, perché adesso è innamorata di Stoccardi.
Le cingo le braccia attorno alla vita, il suo sedere rotondo preme contro il bacino, il gelo del liquido che ci culla mi aiuta a non distrarmi. Superstar continua a suonarmi in testa, anche se ho lasciato gli auricolari nella tasca dei jeans, a riva. Siamo all’ultima strofa, mi scende giù una lacrima che non controllo; non lascerà nessuna scia sulla mia guancia bagnata. Non esiste.
Come non esiste più la casa di Capocolonna, non esistono più quei bambini né i nostri corpi, ora.
«Vuoi sentirla una canzone?».
Non aspetto che risponda, stringo l’abbraccio attorno alla sua pelle liscia e bianchissima, sollevo le gambe e cadiamo verso il basso.
Siamo immersi nel liquido nero del nulla, nessun suono, nessun colore.
Di nuovo io e Diana, nel bosco.

What to say to make you come again
Come back to me again
And play your sad guitar.

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