La traversata

In fondo alla strada c’è la casa di Elio. Vediamo la finestra che affaccia su piazza Pirandello dalla palestra, quando è ora di educazione motoria.

Da tempo è chiusa, sul telaio ci si posano la polvere e qualche mosca morta. Una volta, addirittura, è comparsa in un film: l’attrice ci stava affacciata con l’aria struggente, a sentire Elio, ma alla televisione non lo passano mai. Elio insisteva: erano venuti a casa sua a fare le riprese un pomeriggio in cui doveva andare dal medico, all’isola grande. Lui aveva detto lo stesso di sì, perché tanto le chiavi neppure sapeva dove stavano e in casa ognuno era padrone di andare e venire come voleva. Pure noi potevamo: Elio ci dava i biscotti che teneva nella dispensa contro il parere del medico e ci faceva rovistare tra le foto appese alle pareti sopra al mobile controbuffet e sul divano. Lo mostravano come un giovane snello, senza la pancia di ora, sdraiato sulla barca con la testa sul palmo, e il palmo che col braccio faceva un triangolo scaleno, oppure in divisa, con un cappello a forma di gallo belga, durante la naja – il volto senza la barba che conosciamo, gli occhi gli stessi, due vampe azzurre.

A noi, pure senza barba, ci interessava soprattutto di chiedergli delle ragazze, raggianti, nelle cornici. Lui ripeteva i nomi come se avesse davanti la scatola dei cioccolati che non può mangiare, sciogliendoseli in bocca. «Gloria», ed Elio stringeva gli occhi e reclinava la testa verso le spalle; «Magda», e si faceva vento con la mano, le labbra una riga, come se noi non si potesse capire; che capivamo noi, infatti, di quelle foto in controluce scolorate, col sole abbacinante? Appena una sagoma soda. Con gli anni, il racconto di Elio si arricchiva nei nostri ricordi di dettagli che diventavano più vivaci. Erano state scattate in posti che non riconoscevamo. Ragazze forestiere, nessuna faccia che avremmo potuto indovinare. Elio ci diceva che erano loro a spedirle, una volta tornate.

Quando qualcuno di noi si stancava o era atteso per cena, bastava chiedergli chi fosse quella bella signorina col costume giallo nella cornice che Elio in due minuti, due minuti e mezzo al massimo, ci cacciava via tutti e usciva, da solo, fino a che il cielo non diventava violetto, e poi nero.

Per saperne di più sulla ragazza col costume giallo, ognuno ha dovuto interrogare la propria madre, e quasi nessuno ha avuto successo, tranne Ilario: sua madre prima si è arrabbiata, e gli ha tirato contro lo strofinaccio – visto quanto goffo era stato a domandarle se ricordasse del tempo in cui Elio era stato un suo coetaneo: «Io ho trentasette anni, stupido che sei»; ma poi, finito di lavare i piatti, se l’era rimesso a sedere di fianco, perché di anni in cui Ilario potesse ascoltare con interesse una cosa che sua madre aveva da raccontargli ne rimanevano pochi. Le memorie della madre di Ilario si ricomponevano coi nostri ricordi delle foto appese alle pareti; con i dettagli riferiti anche da qualche cugina maggiore, ci rivelarono come il vecchio Elio, che vedevamo soltanto come il pescatore dalle mani grandi e l’aria di bravo gigante, fosse stato in una sua più antica manifestazione un giovane che aveva rischiato di conoscere l’amore.
Secondo alcune l’amore di Elio si chiamava Paola, secondo altre Romelia; per noi il nome non è mai stato importante quanto la tristezza delle cose finite che lei si prestava a incarnare, così la chiameremo Aurora.

Aurora era comparsa i primi di luglio, ai tempi che il traghetto sbarcava all’approdo vecchio, verso le sei del mattino. La stagione allora cominciava ancora più tardi di adesso; così, senza turisti in giro, c’era solo Elio per le strade dell’isola, strade sottili e permeabili ai sussurri come pareti di una stanza. A quel tempo aveva in bocca molti più denti e un’età che poteva spingere il cerchio coi legnetti senza vergognarsi, anche perché la ragazza era tre anni più piccola di lui. Si erano detti il nome, e poi per il resto dell’estate era riuscita a separarli soltanto l’ora di cena. Il padre era forse colonnello della guardia di finanza, anche se allora non si sapeva nulla di gerarchie militari, e non c’è certezza. Certo è che lasciava qui Aurora per tutta la stagione, insieme a sua madre e a una manciata di fratelli piccoli, senza predisporre per loro alcuna consuetudine. Veniva a riprenderseli a una settimana dall’inizio delle scuole. Quello era sempre il giorno in cui a Elio non andava rivolta la parola.

Il resto dell’anno Elio cercava di far passare il tempo, come si fa di solito: a volte veloce, spesso lento, finché a inizio luglio era come se gli venisse tolto un ginocchio dal petto. L’aveva aspettata, rassegnato, già da metà maggio, al modo che si aspetta un mal di denti. Non c’era imbarazzo a ritrovarsi cresciuti: Elio e Aurora correvano dietro alle lucertole e mangiavano gli ultimi frutti di giugno, come fosse ieri che si erano detti arrivederci. Nelle ficaie, all’aria salmastra, Aurora chiedeva di mangiarli dalla mano di lui – da lì le sapevano un poco pure di anice e di more, diceva –, e sul fatto che lui arrivasse a prendergliene dai rami più alti dell’albero ci si poteva contare, come sul sole che segue alla notte, o che si muore, dopo essere stati anche per lungo tempo vivi. Qualche volta Elio prendeva la barca e usciva in mare da solo, per vedere se fosse possibile mandare in frantumi l’immagine che si era fatto di lei, e non ci riusciva; altre volte le aveva scritto delle lettere, che prima della partenza buttava, non credendo a simili sciocchezze. Per un po’ non accadde altro. Poi una mattina il mondo si svegliò e trovò che era tutto da ridere il modo in cui il pescatore Elio aveva finito per crederci davvero.

A dispetto di un cielo che non aveva dato alcun segnale, l’ultima settimana Aurora gli aveva detto con semplicità che, una volta tornata, avrebbe avuto da discorrere con un tale, carabiniere a Trieste, di nome Tonio Parenti. Anche Elio si era imposto di continuare a sorridere, aspirando l’aria sopra gli scogli e sentendola farsi dura in petto come acqua salata. Avevano continuato a passare e spassare davanti alla veranda del Bar Lupo, a sentire i dischi dalla piattaforma senza comprare niente, finché Elio a un certo momento non si alzava e andava a tuffarsi, dato che in mare non avrebbe fatto differenza un po’ di bagnato in più o in meno. Sott’acqua, galleggiando su pareti di castagnole che gli rifiutavano la compagnia, si immaginava di vederla tornare a scendere dal traghetto, sempre bella, o che accettasse sorridendo dalle sue mani qualche barattolo di tunnìna, messa sott’olio a fine inverno pensando a lei, o di averla a cena, e di insistere perché portasse da dare ai figli, o figlie, le genovesi, o che le finisse, forza!, un pezzo tu, e un pezzo tu domani, non ce n’è più.

«Facciamo che se farò la traversata da qui al Capo del Moro senza morire, tu non andrai».
«Resterò qui», e aveva sigillato il pegno stringendogli la mano che a quel punto era grande due volte e mezzo quella di lui.
Il mattino abbracciava l’acqua dentro a una nebbia densa, ed Elio, sognando di opporre il petto alle onde e di conquistare il mare, tentò di avvicinarsi più che poteva a quel punto dell’orizzonte in cui il sole non era sorto, dietro il grigio intermittente della fatamorgana.
Qualcuno racconta che ci sia arrivato davvero; solo che poi, appena toccato terra, videro che la barba gli si era fatta tutta bianchissima dalla fatica, come la testa, ed è da quel giorno che per noi del paese il pescatore Elio è inteso Babbo Natale.

2 Replies to “La traversata“

  1. Una scrittura ricca, scorrevole, riposante. La descrizione riesce ad evocare vecchi ricordi quasi cancellati dal tempo passato facendo apprezzare ciò che la vita mi dà di bello se pur le delusioni coesistono e non si possono eliminare con la spugna. Proveró il piacere di leggere il resto dell’opera qui appena accennata perché la immagino utile all’accumularsi di parte dei buoni sentimenti che per strada credo di aver perduto! Complimenti vivissimi e soprattutto sinceri!

  2. È un bel racconto. Due frasi sono finite nella mia privatissima nota di Telegram dal titolo “Linguaggio interessante”, dove hanno accesso poche cose. Brava.

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