Songesand

L’arredamento della stanza non lo avevano scelto con cura, a dire il vero non lo avevano scelto affatto.

Era accaduto loro con la naturalezza della vita vera, senza piani, o con i piani ma senza ascensore. Avevano ereditato la cassettiera dalla nonna di lei, l’armadio a muro dal precedente matrimonio di lui. Il letto sì, lo avevano scelto, comprato insieme all’Ikea un giorno che avevano litigato. E che aveva piovuto. Lei si rifiutava di parlargli perché lui l’aveva chiamata pazza e il silenzio li aveva guidati al cospetto di un letto a due piazze di nome Songesand, troppo perfetto per restare zitti. Songesand, si chiamava, il letto.

Tra i meridiani notturni del Songesand, un brivido a vestirgli i muscoli, il petto di Carlo non aveva bisogno di lenzuola. Gran parte della notte non era ancora trascorsa, quando. Un velo di attesa copriva di polvere i mobili, una domanda lasciata appesa su un silenzio di fine estate. Dall’altra parte del muro, un gemito aprì gli occhi di Carlo sul buio.

«Vai tu», le chiese, senza girarsi.
Il silenzio si incoronò del pianto di Nicola, stavolta più chiaro.
«Vai tu?» ripeté Carlo.
La mano che allungò a sfiorare il corpo di lei, incontrato il freddo del coprimaterasso, si fermò desolata, vuota. Con gli occhi e le ossa impiastrati di sonno, Carlo si tirò su a sedere.
«Nicola» chiamò il figlio a voce alta. «Cosa c’è?»
Si alzò dalla camera del bambino un lamento, in risposta, che scardinò la calma di Carlo. L’uomo si alzò in piedi, in boxer, in fretta. Aprì la porta e trascinò i piedi nudi lungo il corridoio fino alla stanza di Nicola. Il disegno tremolante di un dinosauro era appeso con il nastro adesivo sulla parte bassa della porta, all’altezza dell’ombelico di Carlo, che abbassò la maniglia e si affacciò lentamente sulla soglia. Il bambino prese a urlare più forte, la voce rotta. La luce lo scoprì in piedi sul letto, la mano appoggiata al muro, l’altro braccio a coprire i singhiozzi.
«Che succede?»
Nicola non rispose, i suoi respiri un fiatone, non guardava il padre. Carlo superò in corsa il tappeto di distanza che lo separava da Nicola. Si chiamava Storabo, il tappeto, lo avevano preso all’Ikea perché c’era disegnata una strada, Nicola avrebbe guidato le sue macchinine con le dita fra il lago e la stazione, fra la stazione e il lago. E il padre avrebbe calpestato il lago, si sarebbe inginocchiato ai piedi del letto.
Carlo si inginocchiò ai piedi del letto.
«Nicola, oh» lo chiamò.
I suoi respiri non rallentavano, corti, non lo guardava negli occhi, piatti, non riempivano i polmoni, pesti. Carlo allungò una mano a toccargli il viso. Il bambino si ritrasse, un passo indietro a calpestare la coperta sfatta con sopra le biciclette. Sportslig. Carlo allontanò il braccio di Nicola a scoprirgli il volto in un gesto delicato.
«Mi dici cosa c’è?» lo implorò.
«Non dormo» il finale cadde in un singhiozzo che aprì la strada ad altri, ravvicinati.
Carlo gli sorrise nel tentativo di mostrarsi incoraggiante, non tanto per cosa il figlio avesse detto, ma per le parole, a fior di voce, che voleva pronunciasse ancora.
«Non riesci a prendere sonno?»
«No» Nicola scosse la testa, annaspando come sott’acqua, mentre cercava di mettere insieme i respiri. «Non voglio».
«Che cosa non vuoi?» domandò Carlo.
Nicola si piegò in avanti, contrasse il petto a incastonare il diaframma affannato, lo sforzò in una parola sola da riversare secca sulla lingua e piegò le labbra a raccoglierla.
«Dormire», disse.
«Non vuoi dormire?» lo invitò a ragionare Carlo.
Nicola annuì, nel visibile tentativo di riemergere in superficie, gli occhi finalmente rivolti al padre, le lacrime ancora in piena sull’orlo delle sue palpebre. Anche Carlo annuì, soddisfatto di aver trovato terreno comune.
«Vuoi il latte caldo con il miele?» accennò alla cucina con un movimento calmo della testa.
«No» Nicola sembrava quietarsi. Uscire dall’apnea, gustare i propri respiri. «Solo non voglio dormire».
«Niente latte, sei sicuro? Neanche nella tazza della mucca gialla?» Lagärd. Lagärd era il nome della tazza.
Nicola scosse la testa di nuovo e tirò su col naso. Il padre parve pensarci, lo sguardo perso nel vuoto, poi saldo su Nicola.
«Però» iniziò, «tu lo sai che domani mattina bisogna andare a scuola, quando ti svegli papà è al lavoro, c’è la nonna qui, fate colazione e poi dovete uscire».
Nicola lo osservava pensieroso, le sopracciglia tese.
«E tu domani a scuola devi essere riposato, tranquillo, non puoi essere tutto stanco, cosa fai?, ti addormenti sul banco?, la maestra Giada cosa dice?» ma l’ultima parte si perse, coperta da un nuovo lamento del figlio, annegata nel panico.
Il pianto prese forma dalla bocca dello stomaco di Nicola, si riversò dal fondo alla superficie, gli crebbe frantumato in gola, in una miriade di respiri sincopati. Carlo disse «No, no», allungò le braccia verso di lui per prenderlo in braccio, ma il bambino rifiutò la stretta, scuoteva le braccia, il torso, il collo. Cercava di dire qualcosa.
«Che cosa, cosa?» domandò il padre, piegato verso di lui.
Nicola provò di nuovo a comporre la frase, ma le parole erano morse a pezzi da dentro, dal fiatone che lo torturava. Pestava i piedi con lo sguardo basso e le mani che bisticciavano tra loro.
«Non posso mai scegliere» mise insieme, infine. «Decidete tutte le cose mie».
Carlo lo guardò, sorpreso, poi capì. Tremò. Mosse le dita piano sulla base della lampada da comodino che stava di fianco al letto, che si chiamava Guldalg, che aveva comprato con Ilaria la stessa settimana in cui avevano scoperto che era un maschio. Indugiò.
«Decido tutte le cose tue… e allora decidi tu, va bene Nicola, dimmi, che cosa vuoi fare?»
Nicola si calmò, lento, alzò la testa e guardò il padre a tentoni, come ad assicurarsi che non fosse una trappola.
Dopo qualche secondo decretò: «Una passeggiata».
Carlo rivolse uno sguardo all’orologio da parete, e francamente a quest’ora chissenefrega del nome svedese. Sospirò annuendo grave, dovette tenersi al comodino per alzarsi in uno schiocco di ossa di ginocchia. Senza dire nulla sollevò la giacca di Nicola dalla spalliera, gliela porse, poi attraversò di nuovo il tappeto, prese le scarpe da ginnastica del bambino e andò a calzarle ai suoi piedi. Le allacciò in silenzio e Nicola, che oggi è grande e sa cos’è successo alla mamma, non si stupisce di questo ricordo, a volte però si chiede quanto sia vera e quanto abbiano costruito gli anni l’immagine, chiara ai suoi occhi scoperti, di un gigante e un bambino che camminano mano nella mano, lungo la strada dal lago alla stazione, dalla stazione al lago, fino a scomparire nella notte.

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