Trebbia City

Il reticolo di mattonelle in marmo è stato lucidato da poco. La signora Giada – nonna di tre nipoti, madre di due figli, vedova di un marito – inforca le pantofole e allaccia il kimono che la signora Carmela le ha portato in dono da Osaka. È ancora buio.

Sorge il sole. La signora Giada sciabatta dalla camera da letto al bagno, dove evacua in libertà tutto ciò che di orribile si nasconde in un corpo. Poi si guarda allo specchio e pensa che s’è mantenuta per bene; quel capello sbarazzino, quegli occhietti ammiccanti, che ai tempi le erano valsi una risata di scherno dell’ingegner Berassa, conservano ancora una certa malia erotica. Quando il maleducato ingegner Berassa era morto (84 anni), si era presentata al funerale in ritardo e aveva dato un buffetto da tortorella giuliva alla cassa che sfilava tra i piangenti: «Berassa!», si era detta, «Lei rideva, rideva, eh? E adesso non ride più».
La signora Giada tira lo sciacquone e pensa per un attimo al viaggio omerico delle sue evacuazioni verso il mare. Poi si vergogna. Non sono pensieri da fare a quell’età; in particolar modo se si è state in intimità matrimoniale col commendatore Cavallina, ricordato dai più come il Rodolfo Valentino dello smercio d’aspirapolveri.
La signora Giada spegne la luce del bagno e raccoglie i suoi pensieri vedovili in salotto, poi li raccoglie nel mezzo della cucina, poi li raccoglie sulla terrazza a strapiombo sul centro città e infine considera, spietata: «Ma a cosa pensavo?». Al sole; ma prima ancora al controllo della pulizia certosina del mattonellato, di quel bianco marmo di Carrara al quale il commendatore Cavallina (il Gerry Scotti delle aspirapolveri a sbuffo) aveva affidato, in tempi di generosità pecuniaria, i passetti scalzati della sua geisha di Frosinone, la signora Giada Marzotti detta Giada. Adesso la vedova Marzotti in Cavallina sciabatta orgogliosa sul marmo bianco pulito dalla cara Dominique, donna delle pulizie senegalese che le è stata consigliata da parte di terzi (innominabili, per rispetto e deferenza) a causa della sua «indecifrabile convinzione d’appartenere alla “razza giusta”, nonostante evidenti difettucci in quanto a melanina sui quali potremmo anche far finta di soprassedere». La signora Giada la paga in nero per un pacchetto di lavori domestici – cessi, pavimenti, stiraggio vestiario, reperimento vermouth – che Dominique svolge con celere professionalità tre volte la settimana.
Ispezione a tappeto del pavimento in marmo bianco di Carrara, metri venti per quindici, pulito da Dominique col migliore degli spruzzini a getto rapido. La ciabattina della signora Giada danza fra le linee delle mattonelle. Si spostano tavoli, sedie e cyclette Decathlon (in preservativo di cellophane, inutilizzata) per consentire allo sguardo un’adeguata considerazione spaziale dell’ambiente. La signora Giada si trova costretta a riconoscere per l’ennesima volta le qualità domestiche di Dominique, non senza un certo sconforto. Per sconfessare questo pensiero la matrona si muove ondeggiando fino al drappo scarlatto che copre la maxi-finestra in vetro rinforzato; si gira intorno alla tenda, a confondersi le idee; poi ci si nasconde dietro. Dov’è finita la signora Giada? Ma eccola che compare di nuovo, sporgendosi in tutta fretta per sputazzare (a sorpresa!) un piccolo bolo di mentine e saliva che atterra al centro del salotto. Come se niente fosse si libera del nascondiglio della tenda e riprende l’ispezione, controlla gli angoli, elogia Dominique – ma poi si gira ed eccolo, uno sputo ingiustificabile nel bel mezzo della stanza, sicuramente di Dominique (sic!), proprio dove solitamente si sarebbe trovato il tavolo che la signora Giada ha da poco spostato; sarebbe quindi una robaccia sputata lì con volontà, e non un caso di incontinenza salivare qualsiasi. Roba da matti. E dire che le aveva aperto le porte di casa sua; ma per cosa? Per lasciarsi insudiciare il bianco marmo di Carrara che il commendatore (il Marcello Mastroianni del Federico Fellini della battaglia all’acaro casalingo), pace all’anima sua, ha voluto per i suoi piedini ciociari? La signora Giada, sconcertata, recupera due strappi di scottex in cucina e pulisce con onore e dignità l’affronto senegalese. [La signora Giada è però ignara dei quattro etti di feci umane che Dominique le ha nascosto nella federa del cuscino, ai piedi del letto. Non si sente bene l’odore perché sono molto secche].

Dominique qui, Dominique lì. Se c’è una cosa che Dominique non sa fare è la spesa; e quella la fa la signora Giada, che ha stretto da anni una certa tipologia di rapporti con il personale dell’Esselunga. Settantacinque anni, due figli, un marito (morto, ma santo) sono credenziali sufficienti per farsi scontare di venti centesimi il pane dal signor Mario. Si tratta d’indossare il cincillà, di stringere sui fianchi le calze color carne, di allentare di qualche nodo il pendente in oro bianco ereditato da zia Marica – e poi scendere di casa, farsi vedere da vicini e passanti, entrare nel corridoio quattro dell’Esselunga e razziare le membra innocenti del reparto dolciario: Gocciole, Tegolini, Plumcake, Pavesini intinti nel cioccolato all’arancia malinesiano, e Bucaneve come se piovesse. Per Dominique compra appositamente le Camille; ha letto da qualche parte che sono le merendine preferite di Marco Travaglio, e a lei Travaglio non sta affatto simpatico.
È domenica, il giorno del pranzo coi parenti. Ancheggiando senza timore nella griglia di corridoi dell’ipermercato, la signora Giada nasconde il bottino di glucosio sotto un tappeto di verdure biologiche e pacchi di pasta. Sa bene che dietro alla piramide di genzianelle abruzzesi si trova la Fausta; non la signora Fausta, la Fausta e basta – dopo quella storiella di maleducazioni reciproche in occasione del gala natalizio della Melegatti, ci mancherebbe altro. Il suo vestito acquamarina presenta ancora macchioline unticce di panettone. E la Fausta, come tiene a specificare su Facebook da non meno di due o tre mesi con selfie aberranti e foto “prima e dopo”, è passata a un’alimentazione simil-vegana. Si nutre solo di bacche e solitudine: ha perso dieci chili. Quando la signora Giada si annoia e scrolla sullo smartphone e controlla i movimenti sotterranei dei social network e delle sue conoscenze, deve sempre star bene attenta a non cedere all’impulso di reagire alle foto della Fausta con uno sbeffeggiante “HAHA”. Ne avrebbe voglia, ma si controlla. Come disse Anna Tatangelo in un momento di illuminazione divinatoria: «Quando la persona è niente, l’offesa è zero».
Così la signora Giada si prepara all’incontro mettendo in mostra sul carrello zucchine e ceci. Da una donna come lei – elegante, sensuale, rispettosa – ci si aspetterebbe un contegno stilnovistico; e lei per certi versi è convinta di rispettare, a suo modo, le attese. Non ci si spiega, allora, la reazione scomposta all’incontro con la conoscente.
«Amore mio!»
«Oh dio, carissima!»
La Fausta e la signora Giada si abbracciano in un tintinnio di ammennicoli di metallo. La Fausta è dimagrita davvero, nota con sconcerto la signora Giada. L’abbraccio si protrae per dieci imbarazzati secondi, durante i quali la vedova Marzotti palpeggia i fianchi della Fausta con esperienza – tre chili a destra e due a sinistra. Annotazione mentale: ricordare di farsi spiegare da Giuseppino [figlio del figlio della signora Giada, ergo «nipotino»] come si utilizza Photoshop.
«Anche tu la zucchina dell’agro pontino?»
«Ma da sempre, cara! Non so se ho avuto già modo di parlartene, ho cominciato una dieta vegana che…»
La signora Giada ne ha già le scatole piene. Un angelo nomade si profila all’orizzonte, tra filari di pane e formaggi dorati. La vedova non si lascia sfuggire l’occasione.
«ma poi mia sorella mi ha detto che…»
«Tesoro scusami tanto, avevo promesso alla Carmela che l’avrei aiutata a scegliere fra le varietà di pecorini continentali, che stasera ospita a cena il dottor Mustacchio con moglie. Salutami tua sorella! A presto, eh!»
«Ma certo, a presto cara!»
Non appena la signora Giada s’allontana con passo lascivo per raggiungere la signora Carmela, la Fausta smaterializza il sorriso dal proprio volto e scrive immediatamente un messaggino alla sorella: Quella troia della vedova Cavallina continua a far finta di niente. Non si è ancora scusata per avermi vomitato addosso tutto quel panettone. Ma ti sembra normale?

Fuori dall’ipermercato c’è una scacchiera di automobili parcheggiate sulle strisce bianche; decine di uomini egualmente scocciati dall’esistenza tamburellano con indice e medio sul volante, sudati, e guardano all’orologio con speranza – ma le mogli si ostinano a fare miaomiao nel reparto surgelati, commentando l’estate che arriva ma non arriva. La signora Giada sosta fra i carapaci metallici delle automobili, si guarda attorno, cerca qualcuno di specifico; nel frattempo un padre di famiglia schiaffeggia una sola volta (ma forte-forte) il figlio che ha lasciato cadere la confezione di uova sull’asfalto. [Poi di colpo grida: «FORZA MILAN!», e il figlio si rialza come Lazzaro: sulle spalle ha una maglia falsa di Abbiati del 2013. Vanno a casa e mangiano la pasta al sugo]. Ma all’improvviso ecco, la signora Giada lo ha visto: il cherubino di carbone che le porterà la spesa a domicilio. Per attirarlo a sé schiocca le dita con savoir-faire – l’insuperabile eleganza della memoria muscolare! – e gli fa segno di avvicinarsi. È un ragazzo di poco più di vent’anni con i buchi nei jeans chiari e una maglietta a maniche lunghe, tirate su fino al gomito. La signora Giada se lo analizza per benino e gli assegna, a mente, una valutazione di otto su dieci: lo guarda sollevare senza sforzo la spesa (cinque sacchetti di plastica) e incamminarsi tranquillo verso l’indirizzo che gli ha dato. Si tratta di camminare poco più di duecento metri, una faccenda da niente. Alla signora Marzotti in Cavallina, che lo segue da vicino per controllare che si comporti a modo, non risulta di aver già visto il volto camuso di quel ragazzo africano: non gli chiede il nome perché è sicura di dimenticarlo, ma lo osserva con una certa attenzione lungo tutto il tragitto – ignorando così la vibrazione ossessiva del suo smartphone, incastrato tra lucidalabbra e foulard nelle profondità della borsetta domenicale.
Quando si fermano davanti al palazzo la signora Giada si fa aiutare nello spingere il portone («Grazie caro»), e lo tiene aperto con la punta del piede mentre il ragazzo sposta all’interno dell’ascensore la spesa. Poi il giovane le si ferma davanti con la mano tesa e il palmo rivolto all’insù – e sembrerebbe filar tutto liscio: ma se c’è una cosa, fra tutte quelle che ci sono nel buon mondo, che la signora Giada non sopporta, è la presunzione. Non si era mai parlato di un compenso per portare la spesa fino a casa; e va bene che ci sono convenzioni da rispettare, lo capisce, ma la manina messa lì, così, a imporre un pedaggio autostradale, non è mica il modo giusto di lavorare. Il commendatore Cavallina come si sarebbe comportato? Non gli avrebbe dato un fico secco, pace all’anima sua. Mentre la vibrazione del telefono accentua il suo fastidio, la signora Giada tira fuori dalla tasca una moneta da cinquanta centesimi e la mette in mano al ragazzo, che continua a guardarla senza spostare il braccio, e quando capisce che il pozzo è secco s’intasca la moneta con una smorfia d’insoddisfazione.
«Ma tu la conosci la Dominique? Guarda che sareste tanto belli insieme. Fareste bei bambini».
Il ragazzo non sa una parola di italiano. Dopo aver dato un’ultima occhiata alla signora Giada, s’incammina verso il supermercato chiudendosi il portone alle spalle – e promette a se stesso di scippare senza rimorsi la prossima vecchia indifesa.

La signora Giada controlla le notifiche mentre l’ascensore sale verso il terzo piano del palazzo. Due chiamate perse da suo figlio Carlo; un messaggio incomprensibile da parte di Dominique; qualche robina nei direct messages di Instagram da parte della signora Carmela. Nella melma di questi inutili contatti col mondo esterno risplende una notifica di Facebook che le fa saltare qualche battito cardiaco per l’emozione. Circondata dai sacchetti della spesa, con le dita tremanti, la signora Giada accede al suo profilo Facebook e trova conferma di quel che ha letto. È davvero lui. L’ascensore nel frattempo è giunto a destinazione e le porte si sono aperte sul corridoio; non resta che scaricare i sacchetti di fronte alla porta di casa. Eppure il tempo decide di fermarsi, solo per qualche secondo – solo per consentire al messaggio di Vito Martinelli (78 anni, residente a Trevignano, ex-idraulico, ex-fidanzato estivo di Giada Marzotti, di quei tempi in cui andavano insieme in bici a nascondersi fra i canneti del lago) di rimbombare come una bestemmia d’amore fra la rampa di scale e gli appartamenti deserti. Il messaggio dice così:

Ciao giada te ricordi..?.. so vito il figlio de angela… o visto che stai su facebook e o detto metti che ce pensa… ancora??… sto a milano da mi fija per qualche giorno poi parto torno a casa… ti lascio qua il nummero… scrivimi presto buona domenica salutami tutti… vito…

Il telefono barcolla tra le dita di una Giada commossa. Vito! Vito! Quanti interminabili silenzi in quei canneti del lago, intervallati soltanto da gemiti e risucchi lipidici! Quanta gioia nel ricordo di quella pelle liscia e bruna che splendeva di riflessi amaranto sulle biciclette comunali! E lei che era Giada, solo Giada!, non la signora che si guarda allo specchio in kimono e nasconde le rughe, non la matrona dai bolsi fianchi che stiracchia le membra imitando lo yoga. Erano estati ladre: ci si lavava con l’argilla per non farsi scottare dal sole, camminando con le dita intrecciate nelle dita di un uomo vero. Vito, fuoco dei miei lombi!
La signora Giada non si sente bene. Una ragade di sudore le imperla la fronte. Sullo schermo del telefono è proiettato, come un atto d’accusa, il numero telefonico del suo amore giovanile – seguito da una simpatizzante e nostalgica emoticon della bandiera italiana. Giada ricorda: ti ricordi? Ad allontanarli era stato il militare, poi l’inverno, la scuola, la vita, il lavoro, le faccende da donne… Con la mano appoggiata sulla parete-specchio dell’ascensore percorre a ritroso il fiume del tempo; e il numero sullo schermo la guarda, la attira, e la signora Giada torna a essere Giada e basta e poi torna ancora a essere la signora Giada, in un intreccio onomastico e temporale che attorciglia fra loro gli strati generazionali. Riemergono dal passato di una ragazza ormai sconosciuta le sagre dell’olio, del vino, gli arrosticini in riva al lago, gli abbracci, i fuochi d’artificio di Ferragosto, le coltellate fra nullatenenti sulla spiaggia, le fughe, le risate sbarbate dei marmocchi che inseguivano a piedi quel gruppo di giovani uomini e giovani donne, in avventure pagane e proletarie…
[La signora] Giada trascina con sé i sacchetti della spesa e li appoggia sullo zerbino. Con le chiavi apre la porta e sposta i sacchetti all’interno. Con le mani si fa il segno della croce e accarezza, stralunata, la fotografia del commendatore Cavallina appesa nell’ingresso. C’è da preparare il pranzo: i parenti stanno arrivando.

***

Boom! [Carlo Cavallina] dà fuoco a una banca raccoglie un kalashnikov bussa a una porta a cui apre una vecchia le spara raccoglie i soldi che la vecchia lascia cadere sul pavimento cammina sbatte contro una parete ci passa per metà attraverso ricarica il fucile d’assalto esplora l’abitazione esce all’aperto trova una macchina dentro la macchina c’è una donna la prende la minaccia la spaventa le fa rimpiangere d’aver preso la patente la scaraventa per terra sale in macchina e le passa sopra guadagna dei punti la polizia l’insegue lui si affaccia dal finestrino e spara pum pum accelera accelera accelera velocissimo sull’asfalto di Trebbia City le camionette della polizia esplodono uccidono quindici civili la macchina sbanda la portiera si apre Carlo vola giù dal finestrino giù dal ponte giù verso il fiume artificiale attiva il paracadute atterra nel fiume nuota nuota altri poliziotti lo vedono spara spara i poliziotti muoiono lasciano soldi per terra lui li vuole raccogliere ma deve scappare s’arrampica a riva trova la strada trova una nuova macchina picchia l’uomo che protesta per il furto e ci passa sopra con la macchina e accelera accelera accelera si ferma scende dalla macchina entra in un negozio ruba due pesche le mangia si sente meglio spara ai clienti spara ai commessi abbandona il negozio in una pozza di sangue ride e…

Lo schermo si spegne. Giuseppino osserva sua madre e si chiede perché non gli abbia lasciato aggiornare il file di salvataggio. Monica non si cura di dare una spiegazione e deambula verso la cucina, mentre Carlo si affaccia dalla porta della stanza di suo figlio.
«Giuseppino, dobbiamo andare a pranzo dalla nonna, spegni tutto e andiamo».
«Ha già spento tutto Monica», dice Giuseppino, con il controller ancora sudaticcio in mano e la televisione che lampeggia in cerca di segnale.
«Devi chiamarla mamma, Giuseppino».
Giuseppino si chiede perché dovrebbe chiamare mamma sua madre. Non s’assomigliano affatto perché lui assomiglia a Carlo, al papà. Ha chiamato il suo personaggio – quello del gioco – come suo padre, Carlo Cavallina, che nella vita non fa il criminale ma che Giuseppino un po’ ce lo vedrebbe a sparare agli innocenti. Carlo Cavallina che uccide uomini, donne e galline; Carlo Cavallina che ruba una macchina di lusso, un aereo, un sottomarino e si schianta morendo a ripetizione in una fittizia megalopoli abitata da gente poco tranquilla. E poi rinasce da capo.
In cucina, Carlo guarda Monica che guarda lo schermo dello smartphone con la bocca semiaperta, e non la riconosce.
«Guarda che se gli stacchi ogni volta la presa poi quello deve giocare il doppio per recuperare le ore di gioco perse».
Monica annuisce con uno sguardo ittico. Carlo guarda l’orologio.
«Se arriviamo in ritardo mia madre mi ammazza. Hai preso la borsa?»
Monica annuisce con uno sguardo ittico.
«Bene. Prendi Giuseppino, scendo ad accendere la macchina».
Monica annuisce. Mentre Carlo si chiude la porta alle spalle, Monica si dimentica per qualche secondo di Giuseppino e fissa lo schermo del telefono senza ricordare cosa stesse facendo. Giuseppino la raggiunge da solo: senza dire niente (che dirsi?) scendono le scale e saltano sulla Mercedes.
«Papà! Hai rapinato una banca e hai investito una vecchia!»
Carlo sta armeggiando col navigatore: ne ha comprato uno nuovo, con triplo schermo indirizzante e la possibilità di scegliere tra le voci sintetizzate di Pino Insegno, Sabina Guzzanti e Pierfrancesco Favino. Conosce la strada, ma vuole testare le voci.
«Poi hai rubato una macchina e sei scappato, e stavi cadendo nel fiume, ma poi…»
«Giuseppino ma di cosa stai parlando?»
Carlo si volta verso il sedile posteriore dei passeggeri; Giuseppino tossisce e si sbava sulla maglietta qualche lapillo di yogurt mattutino, preservato dalla deglutizione come per miracolo.
«Ma poi hai sparato a tutti e ti sei salvato! Papà ti sei salvato!»
Carlo preme sull’acceleratore e imbocca la tangenziale ovest, la sopraelevata che s’incunea tra i fianchi dei palazzi popolari come una vena di idrocarburi paraffinici e metalli bollenti. Giuseppino ha gli occhi chiusi e finge di dormire. Carlo tiene saldo il volante e guarda con la coda dell’occhio sua moglie, un’entità rettangolare di carne e pelo adibita a faccende burocratiche (per la famiglia), spese consistenti (per la famiglia) e chat online con gli sconosciuti (per se stessa). Carlo pensa che ci sia qualcosa che non va in quei silenzi domenicali. Poi interviene Pino Insegno.
«Fra duecento metri, gira a destra!»
Ma quanto è simpatica la voce di quest’uomo? Troppo simpatica, troppo bravo lui. Anche Monica si concede una smorfia. Carlo è contento dell’acquisto. Mentre lasciano che il mondo traspiri attraverso i loro corpi, Giuseppino apre gli occhi e grida all’improvviso – per spaventare i genitori, per salutarli; significa che c’è anche lui. Nessuno dei due reagisce. La macchina procede diritta e Giuseppino chiude gli occhi di nuovo.

***

Tovagliolini di seta. Ferma-tovagliolini in ceramica algerina. Lastre nere in ardesia. Piatti e sottopiatti incesellati con le iniziali del commendatore. Tovaglia verde-foresta e crema, a nascondere il tavolo in mogano – e poi la signora Giada seduta da sola, in attesa. Fra le sue cosce varicose si nasconde lo smartphone del peccato, reso umido dal sudore del pranzo della domenica. La signora Giada circondata dalle icone fotografiche del commendatore, incapace di reggerne lo sguardo defunto, la signora Giada che prega; la signora Giada che riconquista il peso matronale della propria esistenza con brevi scatti di tosse. Ma Vito…
Suonano le campane elettroniche della parrocchia e suona il campanello dell’appartamento. È l’una. Al citofono si rincorrono le voci dei Cavallina.
«Chi è?»
«Mamma siamo noi, scusa per il ritardo. [Giuseppino smettila]. Monica si è fermata un momento nella boutique di via Bernardi».
«Salite, salite, che si fredda!»
Sulle scale Giuseppino racconta al padre i dettagli delle sue avventure criminali: Carlo non ricorda di aver rubato macchine e investito uomini e donne, e pensa che suo figlio non stia proprio benone. Nel frattempo la signora Giada tiene aperta la porta di casa e nasconde il telefono in un cassetto della cucina. Poi cambia idea e se lo rimette in tasca. Dal cassetto si libera un tanfo di lago e melma.

«Buon appetito».
«Giuseppino, togliti le dita dal naso».
«Pum! Pum pum! Carlo Cavallina spara alla polizia!»
[Ma ci ha rifilato un surgelato?]
«Basta Giuseppino. Dai fastidio anche a tua nonna!»
La signora Giada guarda il vuoto con volto caprino, poi la foto del commendatore, poi il vuoto, poi la foto del commendatore, poi il vuoto. Ma Vito
«Carlo è cattivo! Carlo è cattivo! Guardalo, Pino: Carlo è cattivo!»
«Ma con chi parli?»
«Con Pino».
«Pino chi?»
«Pino, il mio amico!»
Carlo si gira con preoccupazione verso Monica, che è troppo impegnata a spalmare il cibo sul piatto per assecondare i capricci del figlio. Giuseppino si alza in piedi e gira intorno alla tavola come un pinolo impazzito.
[Le verdure non sono surgelate. Almeno questo].
«Giuseppino siediti!»
«Pino guarda!»
«Giuseppino, stai spaventando la nonna. Chiedile subito scusa».
Giuseppino smette di girare intorno alla tavola e sorride alla signora Giada. Le vuole bene perché è vecchia: a Trebbia City la riempirebbe di pugni sulle costole per rubarle la pensione di tasca. Dall’altro lato, la signora Giada si schiarisce la voce e lo osserva. Il bambino non l’ha mai convinta; non le piace il nipotino. Fa finta di sorridere – una cortesia non necessaria; ha fatto quel che si doveva fare. Adesso può controllare le notifiche. Vito le ha mandato una foto modificata da un filtro arancionato, e in bella vista un petto villoso e un mento a fessura: è ancora un bell’uomo – più bello del commendatore? Difficile ma sì, più bellino del commendatore. A Trevignano sollevava motorini di piccola e media taglia per impressionare i suoi amici; Giada lo guardava di nascosto scostando i capelli dalla fronte, e quando lui la vedeva sollevava due motorini, tre, quattro, l’officina intera; il bicipite s’espandeva e sudava, e Giada sudava, e con le dita gli faceva ciao ciao prima di nascondersi nelle acque salmastre del lago.
«Giuseppino, cristo santo, non riesci a mangiare come gli altri bambini?»
«È stato Pino a buttare la pappa in terra!»
«Raccoglila. Per punizione dovrai mangiarla lo stesso. Monica, passami il sale».
[Serve il sale, sale a pacchi. Robaccia insipida. La prossima domenica mangerò qualcosa prima di uscire di casa e dirò che non ho fame].
«Monica, passami il sale per cortesia».
Eppure quei bicipiti nascondevano una delicatezza di sentimento, un amore di strada seppellito fra cinte di pelle e magliette strappate dallo sforzo del sole. Prima di uscire di casa, Giada specchiava il suo seno sul vetro della finestra ad ante chiuse e sognava la coppa delle sue mani grassocce, le mani di Vito sporche di olio motore, che si chiudessero con la fame del mezzogiorno sulla sua carne ingenua. E la gonnella a quadri copriva le cosce – allora granitiche, oggi indecenti – che a ogni pedalata di bicicletta si tendevano per il suo sguardo, il suo sguardo da uomo soltanto.
«Papà, c’è puzza di merda!»
«Giuseppino Cavallina hai due opzioni. La prima: chiedi scusa a tutti e ti metti seduto a mangiare in silenzio. La seconda: continui a fare il cretino e a usare questo linguaggio da asini, e ti arrivano un paio di schiaffi. Scegli».
«Pino, tu cosa pensi?»
[I pranzi dalla suocera. I pranzi dalla noiosissima suocera].
«Non c’è nessun Pino! Chi è questo Pino? Non esiste, te lo dico io, e adesso zitto. Devi mangiare quello che hai nel piatto. Se tuo nonno fosse vivo te la farebbe vedere, altro che Pino. Mamma, dì qualcosa!»
La signora Giada si lascia sfuggire un gemito a denti stretti.
«Mamma, stai bene?»
Il telefono le scivola di mano e cade sul pavimento, a un passo dalla sua sedia. Sullo schermo c’è il petto da uomo di Vito, a portata di vista di chiunque – ma soprattutto di Monica, che però non accenna a voltarsi. La signora Giada reprime un brivido di terrore e raccoglie con mano rapace l’oggetto della vergogna.
«Sto bene Carlo, sto bene. Vado a pulire la cucina».
«Sei sicura? Ti serve una mano con i piatti?»
«Non c’è problema, ci penso io».
La signora Giada rincorre in cucina il fantasma di Giada e il lavandino piange. Dalla bicicletta salutava le amiche, che la guardavano invidiose: era la più bella delle belle, la più donna delle donne, con quegli occhiolini di ghiaccio e sigarette che infatuavano persino i vecchi preti della parrocchia – e la bicicletta sfilava come una carovana erotica di fronte a sguardi espliciti, rapendo Trevignano in un pugno. E Vito, Vito che lavorava con il padre, Vito che bestemmiava per i chiodi spuntati, Vito che quasi non la guardava prima di cucirle la mano sui fianchi e le natiche grasse.
Il commendatore Cavallina osserva pietoso la signora Giada dalla foto di matrimonio appesa sul frigorifero, e Giada lo vede, ma se ne infischia; e quando a vederlo è la signora Giada, risvegliata dalla meccanica azione del lavaggio dei piatti, la vedova si concede una lacrima di risentimento e senso di colpa. Cosa direbbe di lei, di lei in queste condizioni da sciocca, il Michelangelo Merisi dei pavimenti a specchio?
«Ma io sto dicendo la verità! Papà, c’è davvero odore di merda! Diglielo, Pino».
Carlo alza gli occhi al cielo.
«Ma Dio, Dio mio, cosa ho fatto di male? Monica, dammi una mano, ti prego».
[Neanche se mi paghi].
«Secondo Pino viene dalla stanza della nonna Giada».
Il commendatore era severo in vita; da morto è una spada di Damocle. Come si può continuare a vagare nei ricordi di quel che è stato, di fronte alla magnificenza di una vita di marmi bianchi e domestiche in grembiule? Cosa separa la riconoscenza dal rimorso, se una foto pettoruta in bassa definizione ridefinisce il gusto della lussuria ormonale? Stupida, stupida Giada – stupida la signora Giada che si aggrappa a Giada per convenienza; stupida, si dice da sola mentre strizza la spugna del sapone per piatti e li ripone sulla mensola sopra la sua testa. Ma Vito è un fantasma di carne; Vito ha una figlia a Milano che di certo gli vuole un gran bene e lo chiama più di una volta a settimana. Vito è uomo.
«Andiamo a casa. Giuseppino, sistemati la maglietta. Tu ci sei, Monica?»
«[Non] Ci sono».
«Bene. Mamma, ci sentiamo più tardi» Carlo le accosta un bacio sulla fronte. «Chiamami se ti serve qualcosa».
Carlo intuisce nel volto di sua madre un’interdizione, un’attesa. Vuole dirgli qualcosa? Forse no – e comunque non è importante. È proprio invecchiata. Ricorda ancora il rispetto democristiano che fino a qualche anno prima riusciva a incutere con un dito sollevato. La vecchiaia ti uccide. A settant’anni mi ammazzo, pensa. Nel frattempo apre la porta di casa, lascia passare Monica e Giuseppino, annusa di sfuggita qualcosa di poco convincente. Forse aveva ragione Giuseppino. Poi saluta la madre, chiude la porta alle sue spalle – e il mondo è di nuovo Milano.

La signora Giada si guarda allo specchio e non vede più Giada. Su Facebook la signora Carmela ha postato una foto in cui si bacia col marito. La Fausta mette in mostra il suo snello girovita. Addio. La signora Giada seleziona il profilo di Vito, lo guarda; lo bacia; lo blocca per sempre. Con gli occhi lucidi si dirige caracollando verso la stanza da letto. Si sdraia. Abbraccia come un compagno di vita il cuscino che trova ai piedi del letto. Cuscino che ha un odore strano. Si addormenta.
Sogna di essere una pera che cade dall’albero.

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