Il gattino

Quando Vincenzo venne destinato alla custodia attenuata e trasferito dall’Opg alla casa di comunità, il cappellano don Michele si pose subito il problema del gattino.

In realtà lui era l’unico a dare una qualche importanza alla questione, e con ogni buona probabilità anche l’unico a sapere dell’affetto di Vincenzo per l’animale, dei giochi che facevano e di tutto il tempo che passavano sul mezzo muro dell’aiuola con le calle. A voler essere fiscali, un altro che sapeva del micio era Ermanno, perché la finestra della sua stanza dava direttamente su quella parte del giardino, e quando la mattina Lilla, o Teresa, gli annodava al collo la sciarpa scozzese e lo sistemava sotto la finestra aperta, Vincenzo era già lì da una buona mezz’ora, ad accarezzare l’animaluccio con le nocche dell’indice e del medio, o a tenergli inclinato sotto la bocca un piattino di plastica con un poco di latte. «Vincenzi’, all’amico tuo gli hai dato un nome?» gli faceva ogni tanto don Michele dall’uscio, con la philip morris in mano. Vincenzo una, due volte aveva fatto finta di non sentire, la terza si era girato di scatto e aveva abbozzato un sorriso, poi aveva messo il micio nell’aiuola, e se n’era rientrato dentro, passando accanto a don Michele, attento a non toccarlo col gomito. Non gli piaceva quando gli capitava di strusciarsi con gli altri.

Vincenzo non si faceva mai trovare fuori dalla stanza al passaggio del Direttore, come invece facevano gli altri, che volevano avere notizie della dimissione, e del perché i parenti non venivano, o volevano scongiurare un’altra proroga. Vincenzo ormai era alla quarta proroga, ma non lo sapeva, o meglio, da quando lo avevano portato lì per essersi abbassato i pantaloni in chiesa, non si era mai chiesto perché nessuno lo venisse a riprendere. Era iniziata una nuova vita e lui ci si era abituato, e ora non ne avrebbe saputa immaginare una diversa. Ermanno invece, prima di decidere di non alzarsi più dalla sedia, aveva fatto il diavolo a quattro per uscirsene ma aveva continuato a buscarsi una proroga dietro l’altra per comportamento violento, una volta perché aveva lanciato una forchetta contro il direttore sanitario dell’epoca, un’altra perché aveva preso a testate un internato. E così, i quindici anni che di norma gli toccava di farsi per aver ammazzato con un colpo di fucile il padre che voleva avviarlo a forza all’officina, erano diventati diciotto, ventisei, e ora trentacinque. Poi a un certo punto Ermanno aveva smesso di alzarsi dal letto, e ogni mattina, da sei anni, veniva messo alla finestra con la vestaglia e la sciarpa, e guardava senza decifrare tutto quello che avveniva in quei ventiquattro metri quadri di giardino trapezoidale: Marisa che usciva per telefonare al figlio, il cuoco che arrivava alle nove e parcheggiava la renault accanto alla fioriera, il gattino amico di Vincenzo che veniva a mangiare quello che lui o don Michele gli avevano lasciato nel piattino di plastica ai piedi del muretto.

Vincenzo aveva incominciato a interessarsi a quel gattino adespota nel momento esatto in cui l’aveva visto mangiare. Probabilmente il gatto era passato per il giardino dell’Opg già altre volte, ma lui non doveva averci mai fatto caso. Quel pomeriggio gli era caduto di bocca un brandello di prosciutto mentre mangiava a piccoli morsi un panino. Era stato sul punto di piegarsi a prenderlo per rimetterselo in bocca, ma poi aveva pensato che Marisa lo poteva vedere dalle finestre dell’aula, e che lo avrebbe sgridato come era già successo un’altra volta. Stava quindi per tornarsene in classe quando, con la coda dell’occhio, aveva visto un lampo fulvo e subito dopo aveva sentito un rumore di mascelle piccole che masticavano. Il rumore della masticazione per Vincenzo era un richiamo ineludibile. In generale, la vista di qualcuno che masticava e deglutiva lo soggiogava fino a farlo estraniare da tutto il resto. Una volta, a scuola (così era chiamato il laboratorio di attività risocializzanti che frequentavano al mattino) Marisa aveva portato un pezzo di salame di cioccolato. Loro stavano facendo le vetrofanie con i pastelli a cera per Natale, tutti e sei gli alunni, tranne Liborio, che aveva una maestra solo per lui e non faceva altro se non i labirinti con le linee tratteggiate. Marisa aveva tagliato una fetta per ciascuno e così per dieci minuti erano stati tutti a masticare e a guardarsi. Di solito non succedeva, perché la merenda la facevano in giardino, o nel corridoio, e al banco restava solo Liborio, con la Tina che gli spezzettava il pan carré con la nutella o il plumcake. Quel pomeriggio, invece, Liborio ce lo aveva proprio di fronte e non aveva potuto smettere di osservarlo: aveva un modo di ingoiare ipnotico, serrava e sporgeva le labbra e poi ingoiava socchiudendo gli occhi, come se mandasse giù una palla di pongo. Vincenzo ci aveva pensato fino alla sera quando, a letto, dietro le palpebre aveva continuato a brillare la rima insalivata delle grosse labbra serrate di Liborio, con gli angoli incrostati di cacao. Non lo aveva mai degnato di molta attenzione, ma aver notato che ogni morso comportava per lui uno sforzo meccanico così elaborato glielo aveva fatto riconsiderare in tutta la sua vulnerabilità di grosso neonato: improvvisamente Vincenzo aveva cominciato a provare una sorta di pietà empatica: lo aveva sentito, in qualche modo, e in qualche parte remota della sua anima si era risvegliato qualcosa, per poco.

Quello che più di tutto attraeva Vincenzo era il rumore della deglutizione, l’epiglottide che fa attrito e il piccolo sbuffo d’aria di quando il boccone è finalmente sceso giù. Era ormai sicuro che ognuno avesse la propria particolare sequenza sonora della masticazione, e riteneva di poter riconoscere al buio i suoi compagni di cella solo dal rumore che facevano ingoiando la saliva. Vincenzo la sua sequenza sonora personale se l’era incisa nella memoria il giorno in cui sua madre lo stava cercando per tutta la casa per prenderlo a botte. Lui si era nascosto nell’ingresso, tra il contromobile e la specchiera, con un pezzo di crostata all’uva. Ne aveva già morsa quasi la metà e non voleva rischiare d’essere trovato prima d’essere riuscito a mangiare anche il resto. Così l’aveva messa in bocca tutta, e per un attimo, mentre si sforzava di mandarla giù, aveva sentito un blocco duro dietro al palato, perché s’era tutta impastata. In quel momento aveva girato leggermente la testa e si era rivisto nello specchio, con gli occhi spalancati e i nervi del collo in fuori, tutto rosso nello sforzo di ingoiare. Aveva fatto appena in tempo a sentire il boccone scivolare giù e uno sfiato nelle orecchie, che sua madre l’aveva trovato e trascinato fuori, tirandolo per la stessa mano in cui lui aveva tenuto stretto il dolce, con le briciole infilate tra le dita come sassolini dopo una caduta sul selciato davanti a casa.
Quando aveva incontrato il gattino, Vincenzo era rimasto soggiogato dall’idea di poterlo osservare mangiare e bere dalle sue mani e aveva capito che tutto ciò sarebbe continuato finché lui lo avesse trattato bene, senza spaventarlo. E infatti il micio non gli aveva mai soffiato contro. Qualche volta gli leccava le dita. Anche lui aveva la sua personale sequenza sonora quando lappava velocemente il latte dal piattino, tenendo socchiuso quell’occhio che la mole di Vincenzo non riusciva a schermare dal sole mattutino.
Don Michele, la mattina del trasferimento di Vincenzo, si era attivato di buon’ora per trovare il modo di spostare anche il gattino. Dopo aver caricato nel portabagagli tre buste grandi della spesa con i pochi vestiti di Vincenzo, era entrato nelle cucine e aveva preso una cassetta della frutta. L’aveva messa sul sedile posteriore e aveva chiesto a Vincenzo di infilarci il gatto. «Tu stai dietro con lui così lo calmi».
Lungo il tragitto il gatto aveva vomitato sul foglio di giornale che copriva la base della cassetta, poi s’era raggomitolato con gli occhi spalancati e la grossa mano di Vincenzo a schiacciargli le orecchie.
«Lo sai che adesso che arrivi là devi incominciare a fare tutto da solo? Cucinare, lavare le tazze, tirare le coperte al letto. Ti fai amici nuovi. Poi ci sono pure gli operatori che vi aiutano, fate l’orto, la serra. Vedi quante cose nuove che devi fare? Sei contento?»

La casa di comunità era una villetta indipendente in una zona periferica, circondata da altre abitazioni con un’architettura identica, e quattro blocchi di condomini popolari dirimpetto. Don Michele, fatto scendere Vincenzo, gli aveva detto di portarsi il gatto in braccio. Dopodiché avevano attraversato il breve viale di lastre di cemento ed erano entrati dalla porta aperta in un ingresso in cui c’erano solo un tavolinetto con un posacenere di osso usato come portachiavi e diversi appendiabiti a muro invasi da giubbotti e sciarpe. «Ehi, Anto’, ti ho portato l’inquilino nuovo con sorpresa. Un inquilino e mezzo ti ho portato». Don Michele fece cenno a Vincenzo di seguirlo nella stanza successiva. A questo punto il gatto era sgusciato fuori dalla piega del gomito di Vincenzo e si era precipitato in cucina. «Eh, e che è? Ehi, Michele! Che mi hai portato qua, che con gli altri che teniamo in giardino si ammazzano! È lui, Vincenzo? Piacere, Vincenzi’. Io sono Antonino».
Vincenzo non aveva capito niente di quella gragnola di parole, uno perché non era abituato al fatto che gli parlassero così veloce e due perché stava cercando con gli occhi in tutte le direzioni per capire dove si fosse infilato il gatto.
«Ah, pure altri ne avete di gatti? E mo’ dici che questo non si ambienta? È l’amico più grande di Vincenzo, gliel’ho fatto portare perché se no qui finché si abitua alla nuova situazione rischia di cadere malato.
«Vedi, Vincenzo, gli infermieri qua stanno senza camice. E questa ragazza chi è, un’operatrice pure lei?»
Se non fosse stato per don Michele, Vincenzo non si sarebbe accorto della sagometta nera con gli occhiali china sul lavello.
«No, lei è Clara» aveva risposto Antonino, asciugandosi le mani a un grembiule appeso alla maniglia del forno, «sta facendo le centocinquanta ore di tirocinio per Scienze Sociali, che quest’anno si deve laureare, no, Clara?» Clara aveva alzato lo sguardo spento dalle carote che stava lavando e aveva accennato un saluto con la testa.
«Allora, Vincenzo, gli altri stanno lavorando nella serra. Domani pomeriggio vai pure tu, e vediamo questi giorni di procurarti i gambali, i guanti della misura che ci vuole. Il gattino te lo puoi pure tenere, ma lo mettiamo fuori insieme agli altri che vanno e vengono, perché a casa animali non ne facciamo tenere, che Luigi soffre di asma». Antonino aveva fatto sedere al tavolo don Michele e aveva messo una moka annerita sul fuoco. Vincenzo, in ginocchio, stava tentando di far uscire il micio dal divano dietro al quale si era appiattito. «Vincenzo, il caffè! Alzati che ti raffreddi, ubbidisci!» gli aveva detto don Michele, «dopo lo prendiamo».
Clara nel frattempo aveva preso da uno stipetto alto una scatola di latta con delle palle natalizie e degli abeti disegnati sopra. L’aveva aperta e aveva iniziato a spostare alcuni dei biscotti che conteneva in una scodellina di smalto. Vincenzo la vedeva controluce, con le spalle leggermente arcuate e la base dei capelli sulle tempie appena lucida di grasso. Prima di rimettere il coperchio, Clara si era portata alla bocca un pezzetto di biscotto recuperato dal fondo della scatola. Vincenzo aveva avvertito immediatamente un rallentamento dei battiti del cuore. Clara masticava continuando a guardare il niente, muovendo le mani come se non fossero sue. Lenta, aveva lasciato che la pasta frolla si ammollasse in bocca, e l’aveva mandata giù in due tempi, muovendo il collo pallidissimo in avanti, come se, al momento, per il suo organismo qualunque sforzo che non fosse teso alla ripetizione del suo pensiero fisso rappresentasse uno spreco d’energia. Era troppo lontana perché Vincenzo potesse sentire il rumore della sua mandibola, eppure nella sua testa aveva già registrato e catalogato quella particolare sequenza sonora: l’avrebbe riconosciuta di sicuro, la prossima volta – anche al buio.

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