Recupero

Le scale del condominio familiare dove abitavamo constavano di sei rampe di dodici gradini ciascuna.

Questa piccola ala destra del palazzo, leggermente più corta del resto, affacciava su un vialetto a lato dell’edificio tramite due finestre, una sopra e una sotto il piano mezzano. Vi si entrava attraverso un portoncino in ferro a una anta, la cui superficie era inspessita da abbondante e ruvida vernice manganese. Dentro, le pareti gialle e bianche erano spezzate a metà da una striscia di parato a fiori e stonavano con il granito anonimo del pavimento e col corrimano il quale, anch’esso in ferro e ricolmo di vernice manganese, percorreva a tre zigzag l’intera altezza del palazzo appoggiandosi alle maglie della ringhiera. A pochi passi dall’uscio, alla destra della prima rampa, ve n’era un’altra che scendeva verso le cantine. Queste erano inaccessibili poiché la scalinata era sbarrata da uno steccato di piccole assi verticali in legno tenute assieme da due listelli orizzontali in ferro impolverato.


Delle mie vicende e di ciò che avrei da narrare a riguardo, poche cose credo di ricordare davvero bene e ancor meno sono le cose realmente importanti, anzi credo nessuna lo sia. Lungi dal voler essere tendenzioso, credo che sia stato ben fatto l’aver deciso, già a una primissima analisi su come sono stato e chi sono stato durante la mia esistenza, di voler cancellare del tutto o quasi quelli che siamo portati a chiamare avvenimenti, limitandomi per quanto possibile a descrivere i momenti e movimenti corporei e accordando a essi e soltanto a essi lo statuto di azioni. Sta tutta qui la faccenda: ha la facoltà la carta straccia di essere un’azione?
Quando ho portato la mente a ripercorrere i miei fatti questa idea mi è sovvenuta subito, giacché non ho mai creduto nella necessità del racconto né in una sua presunta ed efficace agentività. A dispetto di ogni stramba credenza letteraria, non sono per niente convinto che impegnarsi nel dire di questo o di quest’altro in questo o in quest’altro modo riesca per davvero, attraverso una narrazione omogenea o una descrizione – come se non ce ne fossero già abbastanza! – a fare la storia. Bisognerebbe che i libri avessero delle braccia e delle gambe; bisognerebbe scrivere dei libri articolati che accelerino la realtà, che se la carichino sulle spalle, libri da soma, libri che siano avvenimenti e non che li narrino. Qui il problema: cosa narrare? C’è davvero qualcosa che val la pena raccontare? Comprendo fino in fondo le difficoltà che un lavoro del genere comporta. Dal canto mio ho voluto fermare il tempo in istantanee, non ho cercato di sviluppare un bel niente in termini di fabula e quel poco di corso cronologico che si percepisce è il minimo sindacale.


Ora, io tornavo da una passeggiata in paese in solitudine e desideravo arrivare in fretta nella frescura della scalinata perché respiravo a fatica l’aria di quel pomeriggio ch’era scolorita, pesante, afosa, in procinto di marcire. Mentre camminavo sentivo spesso i miei capezzoli morbidi nascondersi nell’areola madida di sudore che si attaccava alla t-shirt bianca; li sentivo pruriginosi e vedevo sulla maglia l’alone al cui centro si formava l’incavatura in cui si nascondevano. La ginecomastia di cui soffrivo, unita alla mia evidente obesità, facevano di me allora un bambino pigro, inerte, lento. Ero già abbastanza alto da superare il parato delle pareti della scalinata e portavo dei boccoli giallo canarino fino alla nuca che, aprendosi all’attaccatura, mi coprivano ai lati la fronte con due serie simmetriche di riccioli, scoprendovi un triangolo di pelle giusto al centro. Qui la carnagione bianca appariva più chiara di quanto già non fosse per contrasto col frequente rossore alle guance, poiché quanto più crescevo tanto più ogni minimo sforzo fisico riusciva stentato, mostrando la mia scarsa faticabilità in viso. Sotto il naso piccolo, porcino: due labbra corte e carnose, spesse, stracolme di grasso come se ne avessero ricevuto un’iniezione e che agli angoli s’incurvavano leggermente verso il basso, come a esprimere un’apatica indolenza. Il mento minuscolo e tondo spuntava nel faccione grassoccio da una profonda incavatura e quasi ricamato da una molle pappagorgia. Il collo, che sembrava corto per via del grasso che lo rivestiva, era già allora pieno zeppo di nèi che spuntavano come funghi, alcuni spigolosi altri morbidi e penduli. Il grasso che mi ricopriva nascondeva pure le clavicole, mentre la forma delle scapole era distorta dal peso delle mammelle.


Un corpo, un corpo: il racconto dovrebbe avere un corpo che si carichi sulle spalle la realtà, che la riconduca dov’è e poi la maneggi, la squarci a poco a poco e vi installi via via supplementi e la riporti ancora a spasso, sempre avanti, ogni volta oltre il punto in cui è ferma. Solo allora ciò che un racconto significa può avvicinarsi al processo di gassificazione che la realtà subisce; ma è sempre un corpo che si gassifica, realtà palpabile che diventa eterea. Solo allora un racconto funzionerà e potrà significare, forse, qualcosa di nuovo, di mai visto; ma fino a quando il racconto funzionerà sempre e solo per se stesso, nato come già gassificato, tanto meglio accontentarsi di Instagram, laddove narrazioni private degli utenti risulteranno sempre più veritiere e attinenti. Dotare il racconto di un corpo, di un’anatomia che lo materializzi e gli faccia produrre la storia. Nessuna puttanata cyberpunk, solo un corpo. Sono i corpi a produrre la realtà e assieme a subirla, assieme i suoi soggetti e la sua cartina tornasole.
Un corpo…


Quel giorno dal cielo di un cremisi scialbo e screpolato fin dalle prime ore del pomeriggio avevo camminato per il paese da solo poiché già da un po’ la mia stazza sproporzionata, sotto cui pure si nascondeva, e nemmeno tanto bene, un certo portamento femmineo, efebico, mi aveva fatto deliberatamente allontanare dai miei coetanei. L’abulia era, in breve, il solo modo di affermazione di me stesso. Ero uscito dal portoncino e, attraversato il vialetto cieco di palazzine male intonacate o non intonacate affatto, pallide e addossate l’una sull’altra ai due lati della stradina, virai a sinistra, dirigendomi verso la zona est del paese. Qui un vicoletto stretto e a senso unico conduceva alla vecchia stazione, dove ora era stata costruita una piazza enorme dal lastricato in verde céladon che manifestava con tipico clamore il pessimo gusto dell’architettura urbanistica provinciale. Il lastricato era stato costruito in modo da impedire che la piazza fosse attraversata da mezzi di ogni tipo e il rettilineo su cui una volta correvano i binari del treno circumprovinciale fu isolato affinché venisse facilitato il corridoio per i pedoni. Alla sinistra era sorto poi un chiosco con un piccolo spiazzo che si estendeva di poco sul davanti i cui tavolini rossi erano disposti entro il basso recinto di ghiaia. Dietro il chiosco v’era il palazzo scolastico circondato da un cortile ampio e recintato da una ringhiera in ferro con un enorme cancello a battente di un verde giada fortemente scolorito: nonostante questa degradazione del colore, la ringhiera riusciva a dare all’intera piazza il suo ritmo e una certa armonia attraverso i suoi assi verticali che si ripetevano via via a intervalli stretti e regolari. Invero si trattava come di un tacito accordo tra il lastricato e quel ferro, poiché questo nei suoi sprazzi di scialbore e ruggine sembrava dare voce all’espressività di quello e riaffermare la sua esagerazione. Tutto era frutto di un tentativo di imporre il lustro e l’ascendente sul paese da parte del sindaco che aveva progettato quella ricostruzione: stupida espressione di regalità municipale che attraeva e squagliava tutte le infrastrutture della piazza in un vortice liquido denso e nauseante.
Alla destra del rettilineo pedonale svettava una quercia secolare che fu piantata dal primo capostazione; dietro la folta e larga chioma un sole rossastro coi contorni sbiaditi dalla caligine lanciava a tratti i suoi raggi stantii che si accasciavano sul lastricato e su di me. Tentai invano di coglierlo con lo sguardo ma, malgrado la tenuità della luce, ne rimasi leggermente stordito e lacrimai un po’. Chiusi le palpebre nel tentativo di riacquistare nitidezza e sentii un tonfo. Riaprii gli occhi e non lontano dalla quercia, a pochi metri da me, vidi don Franco accasciato a terra e ripiegato su se stesso, con entrambe le mani a coprirsi il cranio quasi interamente calvo.


Non sono maturi i tempi per un testo che faccia la storia anziché narrarla; e però sembrerebbe utile restituire alla realtà, dopo le elucubrazioni e i disfacimenti iperrealisti postmoderni, il piattume che le confà e che rende evidente la necessità di un’opera agentiva. È stato bello distruggere la realtà delle cose, metterla sottosopra, sperticarsi nel mischiare il vero al verosimile. A dispetto di quel che potrebbe credersi, l’esistenza di una siffatta pratica letteraria aveva come intimo bisogno meno quello di conferire autorevolezza al racconto con del reale che il contrario. Così abbiamo finito per sfasare del tutto i due piani e a stare forse paradossalmente meno di prima al passo con la realtà, una realtà invero immobile da queste parti, che chiacchiera ancora molto e che nel chiacchiericcio si scioglie, come in una soluzione acquosa che in fondo gira e rigira sempre con le stesse molecole e nello stesso becher.


Occazzo, cristoddio. Intorno a don Franco c’erano due ragazzacci che lo rimpinzavano di calcioni. Questi due sghignazzavano divertiti al ludibrio suscitato tra gli astanti per le urla di dolore e pietà che la vittima lanciava al cielo in cerca di un complice che lo sottraesse dallo strazio al quale veniva sottoposto per non so quale motivo. Era già rannicchiato a terra quando il più grande, munito di un paio di anfibi neri dalla suola alta, lo colpì con il puntale rigido al deltoide sinistro, mentre l’altro, il più giovane, gli facilitava il tiro calpestando il bicipite e tirandolo dalla sua posizione, forzando la vittima a sdraiarsi sul dorso. Questi gli colpì ripetutamente lo sterno con la suola di gomma fino a fargli sputare sangue, mentre l’anfibio del grande prese a colpirgli il dorsale. Nella sequela di colpi, poiché don Franco, avendo ora le braccia libere, s’era rimesso le mani in testa nella paura che gliela fracassassero, gli arrivarono tre botte al dentato anteriore che lo fecero stramazzare dal dolore.
«Allo stomaco! Allo stomaco!», si urlava alle loro spalle.
Il più giovane immobilizzò il malcapitato calpestandolo con l’intero peso del corpo all’altezza del petto. Si disposero poi l’uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra. Una ola partì e i due gli colpirono simultaneamente coi puntali rigidi il gran trocantere. Come un rituale circense, la ola si ripeté per tre volte e per tre volte seguirono i calcioni raffermi e secchi allo stesso punto di quelli precedenti. Poi, soddisfatti del loro lavoro, i due si dispersero tra la folla che rideva intonando

tu che cercavi comprensione, sai, comprensione, sai
ti trovi lì in competizione, sai, competizione, sai


Immobile. Non si muove una foglia qui. Le fantasticherie però volano alto, se ne vanno, loro, passando da una roccaforte all’altra: gli stemmi dispotici del dogmatismo spirituale…
«Solo in quanto nell’atto della creazione artistica il genio si fonde con quell’artista originario del mondo, il primo sa qualcosa dell’essenza eterna dell’arte; giacché in quello stato egli è miracolosamente simile all’inquietante immagine della fiaba, che può girare gli occhi e guardare se stessa; in tal caso egli è contemporaneamente soggetto e oggetto, contemporaneamente poeta, attore e spettatore».
(F. Nietzsche, La nascita della tragedia, 1872.)


Don Franco, al secolo Francesco Ricusati, era un uomo di mezza età e apparteneva alla comunità di persone che, pur nel loro numero ridotto di individui e anzi forse proprio in virtù di questa esiguità, attestano l’irriducibilità della statistica e l’inefficacia o l’insufficienza delle prassi mediche: il suo ritardo mentale, gravissimo, doveva essere stato incurabile poiché don Franco versava irreversibilmente nella santità del non-verbale e nell’inanità del non-concettuale; e dava molto verosimilmente l’impressione di versare in questo stato da che avesse memoria, o diremo meglio: da che fosse nato, giacché a esser precisi tracce di memoria nella sua espressione e nel suo portamento parevano non esserci mai state. Il predicato d’onore don, si capisce, era l’ignominia irrisoria che la comunità riservava a un uomo che, alla stregua di un prete o di un intellettuale immersi nelle loro elucubrazioni, non era come gli altri dedito alla produzione; egli però a ben vedere non era impegnato in alcun gioco aritmetico delle risorse perché, se è vero che di ricchezze e manufatti non ne producesse, era altrettanto vero che neanche ne consumasse e che le retribuzioni mensili di sussidio percepite, al netto del fatalismo del suo avvenire, non avrebbero fatto altro che qualche stramba circonvoluzione col solo destino di ritornare nelle casse della comunità stessa. Anche al netto di queste valutazioni meramente numeriche, il sarcasmo del don apparirà del tutto immotivato, se non addirittura paradossale, ma è chiaro che non fosse altro che una propaggine di chissà quale inveterato schema morale, giacché lo scherno era uno dei motivi di riso più frequenti ed efficaci in paese, un riso genuino, spontaneo, un riso vero – e lo era davvero?

Mi era già capitato più volte di incontrarlo proprio in quell’ampio piazzale dove quel giorno era stato picchiato e dove consumava il suo rituale quotidiano e con esso si consumava: alto più di quanto non apparisse per via della sua scoliosi, era una figura macilenta e vestita sempre degli stessi abiti logori. Faceva avanti e indietro nel suo limitato spazio di qualche metro piegandosi obliquamente sulle ginocchia e posando di sbieco i piedi nelle scarpe basse. Già solo a sette anni potevo notare linvariabilità dei suoi abiti: sopra le scarpe, un paio di jeans cobalto macchiati di terra e di bianco e il maglione di lana marrone che gli copriva le spalle e gli cascava ampio fino al torace, lasciandogli le vertebre lombari e l’addome con l’ombelico scoperti, una striscia di pelle grigiastra di polvere e costellata delle stesse petecchie che portava anche in viso. Aveva, nonostante l’età, i dorsi delle mani avvelenati dalle porpore senili. Il collo era lungo e incurvato e lasciava nudo l’osso atlante ch’era spigoloso. Aveva il volto bitorzoluto, mentre porzioni di pelle rugosa gli cascavano da ogni lato, dando l’impressione di sciogliersi di lì a poco.


Invertire la rotta: tornare qui, disarticolare le unità strutturali, ri-articolare la realtà, ri-articolarci in essa. Scrivere e leggere, leggere e scrivere – senza mai grattarci le palle.
Non siamo clienti della vita.
Essere assieme soggetto e oggetto – mai appagato spettatore: cosa ci concede la realtà? cosa le concediamo? Prima o poi saremo in grado di delirare, di morire e rinascere, di saltare da un altopiano all’altro e poi correre, correre…


Rividi don Franco solo qualche giorno dopo, fasciato in testa e con gli occhi tumidi e bluastri. Indossava gli stessi abiti di sempre, tormentati dalle incrostazioni di sangue per le ferite dell’aggressione, macchie che avevano il colore della ruggine, della ruggine sul rame che si sta lentamente corrodendo. Lo ritrovai di nuovo lì nel suo posto e a ben vedere pareva avere in qualche misura memoria del trauma, giacché ora, pur rifacendo il suo percorso senza variazioni, piegandosi senza cognizione sullo stomaco mostrava a ogni passante la faccia scarna dal naso schiacciato e la mandibola all’infuori. Intonava gli acuti della sirena dell’autoambulanza che pochi giorni prima, mentre lui era stato lasciato solo a terra a sputare sangue, lo prese in barella e lo portò al pronto soccorso.

Io ero già corso verso casa quando iniziai a sentire la voce dell’emergenza e me lo ero immaginato già bello che morto. Quando vidi don Franco a terra urlante imprecare pietà come controcanto al coro dei paesani, l’adrenalina iniziò a effondersi per i vasi sanguigni, sicché mi voltai indietro correndo senza sosta, ansimando, cercando invano di sferzare l’aria pesante di quel pomeriggio che si abbatteva sul paese con una gravosità che schiacciava il respiro, come un’enorme e invisibile sindone che sembrava avrebbe di lì a poco soffocato ogni singolo abitante. A fatica percorsi il vialetto cieco in fondo al quale avrei trovato rifugio, verso la frescura della scalinata da dove ero uscito. Rientrai e mi piegai poggiando le mani grassocce sulle ginocchia, posandovi il peso del busto per aiutarmi a respirare più ampie boccate. La luce bruciava i punti di quarzo minuscoli del granito che mi circondava, sicché la scalinata pareva costellata di piccole e infinite macchie cutanee, emorragie di coagulazioni avvenute male o per niente verificatesi.

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