Ventinove febbraio

Settanta nemmeno, sessantanove.
Candeline sciolte. Piero grida auguri nonno, io sorrido.

Da quanto non gli concedo l’approdo sulle ginocchia. Ho voglia di sollevarlo e, invece, gli accarezzo i capelli. Neri come mia figlia. La spio immergere la paletta nel millefoglie, tre spicchi volano in altrettanti piatti. E lo sguardo affonda nel trionfo di crema e di fragole, risale sulla parete, incontra il calendario. Lucido. Bermuda cachi in giravolta sull’altalena, fotografia del nipote incarcerata in un numero.

Ventinove febbraio.
Che giorno curioso. C’è e non c’è. Pure un anno bisestile mi è capitato. Perché lo so, o meglio, lo sento che è oggi.
Stamattina, al buio di serrande abbassate, ho avvertito l’affanno, un invisibile cuscino pressato sul viso. E insieme, un centinaio di molluschi intagliavano i nervi, si aprivano spazi elettrici, pungevano.
Andate via, ho pensato, non respiro. Ma quelli graffiavano.

Muoio? È ora?, non prima di festeggiare con mia figlia, non prima di dirle. Dopo, il cuscino è svaporato, i molluschi si sono disintegrati. Inspira, espira: libero. Gambe a pencolare sul bordo del letto. Ciabatte. Uno due. Ho pattinato fino al gabinetto. Uno due. Mano sulla maniglia: aperta. E dallo specchio è emersa una figura pallida, i capelli arruffati, gli occhi sporcati da una polvere scarlatta venuta a tessere ragnatele nell’iride. Ma tu guarda, un vampiro. Ho stirato le labbra a mostrare le gengive: ceree lande macchiate di rosso. Ma i denti no. I denti erano normali e, pertanto, non ero un vampiro. Allora perché quella faccia imbrattata di sangue. Narice, bolla, un rivolo scuro.
In fretta ho pulito il naso, in fretta ho sciacquato le labbra.
Ma il liquido rosso strisciava, indugiava sull’orlo del mento, gocciolava nel lavandino pitturando lo smalto, decorandolo con ermetici graffiti. Stavo giusto decifrandone il senso quando: ehi, che succede. Mia figlia, dorso della mano, bussava. Nocche, succede, nocche, succede, no che non succede. Fine dello stillicidio. Sapone, detergi, apri la porta.

E ho faticato a convincerla che no, non avevo bevuto e non ero stato a rigettare per tutto quel tempo. E allora cosa stavi facendo (fronte aggrottata e mani sui fianchi). Intarsi alle mattonelle. Non me la bevo. Okay (spallucce), avevo un malessere intestinale. Chiamo il dottore. No (bloccata per i polsi), ci ho già pensato io. Ho estratto dal pensile un farmaco antispastico. Solo che nella confezione c’era un antiblastico. Diana se l’è rigirato tra le dita e me l’ha riconsegnato pienamente beata (e beota).

Bocche divorano crema, e uh, uh, ecco che arriva. L’interruzione. Il vuoto che preme, vuole impossessarsi di me. La stanza ruota, vedo fragole arrampicarsi sul soffitto, vedo espandersi il calendario. Ventinove febbraio. Spengo e riavvio gli occhi. Ombre simili ad artigli anneriscono le pareti. E le voci, il suono mi giunge svigorito. Pronto, pronto? La connessione audio non è buona, ridacchio.

E in fretta mando giù un boccone di sfoglia che la gola si rifiuta di inghiottire, abbranco il bicchiere e tracanno un litro di. Che roba è. Sembra liquido, eppure ha un corpo pastoso. Lo lascio scivolare da un lato all’altro della bocca, lo assaporo. Ohi, ohi, mi sono bevuto la salsa al cioccolato. Sciolgo un colpo di tosse e socchiudo le palpebre: c’è un po’ troppo silenzio.

Stai bene?
Il viso sfuocato di Diana affiora dalla parete.
Assolutamente, rispondo. E ingoio una violetta di zucchero con tutto il gambo di plastica. Ma devo avere una faccia congestionata, o almeno è probabile, dal momento che le orecchie registrano il picchiettare del suo stivaletto sul pavimento.
Tu non mi stai dicendo tutto.
Giro gli occhi insù. E va bene, mi sono fatto un goccio di grappa, soddisfatta?
Dopotutto è vero. Ma ho i muscoli così tesi che il piatto scivola sulle ginocchia. Diana, però, sembra convinta, scorgo un movimento simile a un’alzata di spalle. O forse fa su e giù con la testa?
Non cambierai mai.
Io? Fossi matto.

Inquadro la sua ombra confondersi con quella di Piero: girotondo. Scampata. Passo una mano dietro al collo. Se penso che il medico voleva informarli. Per poco non sbotto a ridere. Obbligarmi alle lacrime, agli estremi saluti, e già che ci siamo, pure al sermone di qualche prete. Scuoto la testa. Non è questo che ho in mente. Piuttosto intendo gustarmi il millefoglie fino all’ultima briciola.

E poi ho quella faccenda da sbrigare. E già. Mi massaggio la fronte. Bisogna proprio che glielo dica. Mi allento la cravatta. Fosse semplice. Ci vuole più coraggio di stamattina: inventare balle è una passeggiata in confronto. Mi sfrego il naso. E forza, non vorrai perdere tempo. Figuriamoci, anche perché, a ben guardare, il tempo non c’è. Mi gratto la nuca, e gli occhi indugiano su una forma confusa proprio di fronte: è Piero che impartisce ordini ad Alexa. Lascio correre lo sguardo tra le prospettive sfumate, lo fermo su una sagoma a destra, deve essere lei, ne indovino le gambe accavallate. Puoi riuscirci?, puoi vuotare il sacco (e per sempre)? Certo, se la smettessi di ansimare, se riuscissi a inalare un respiro decente. E basta, dillo su.

Infilo le mani nelle tasche, le spalle strette mentre mi schiarisco la voce. No aspetta, punto il mento in alto. Diana deve essersi alzata, due passi avanti, tre a sinistra. Fruscìo. Ha prelevato qualcosa dal frigorifero. Plop. Lievissimo gorgoglìo. È acqua. No, spumante versato nei calici. E un sottofondo musicale riempie il salotto mentre la voce di Piero s’innalza.

Happy birthday to you, happy birthday to…

Sento le guance avvampare. Sento il torace dilatarsi in un ampio respiro. Ecco. Altro che lacrime, il medico si sbagliava. Il loro amore è aria. E adesso Diana intreccia parole commosse, distinguo la mano porgermi il calice. Solleva, cin-cin, bagno appena le labbra. È secco e gelido come un cubetto di ghiaccio sintetico.

Usciamo in giardino?
Intravedo Piero inclinare la testa. Sicuro, dico, perché no, dico, chi ce lo vieta, c’è qualcuno che ce lo vieta?
Disancoro le reni dalla sedia. Incrocio le caviglie, un passo a destra, tornare al centro, unire i piedi e cammina diritto per piacere, circumnaviga il tavolo, è quella la porta a vetri?

Lascio passare Diana. Piero le trotterella dietro. Accosta il battente, rigirati. Oh! Sbatto le palpebre contro il chiarore improvviso. E lo sguardo abbraccia la siepe di lauro, scende sulle margherite, scivola sull’altalena – un dono questa inaspettata nitidezza. Gli occhi vagano ovunque, e sto per tentare un altro passo quando un pugno di vuoto mi azzanna il petto, scava gallerie incandescenti, s’inchioda sullo sterno. Tossisco. È adesso?, non ancora, non prima di dirle. Afferro Diana per il braccio.

Cosa c’è?
Sento il vuoto espandersi tra le costole. Si scioglie. Raccolgo un fiacco respiro.
Ti ho già detto che ti voglio bene?
Le poso un bacio tra i capelli, le tiro indietro la frangia, voglio imprimermi negli occhi quel sorriso stentato ai bordi della bocca.
Veramente non me l’hai mai—
Lo so.
Diana incrocia le braccia sul petto, le sopracciglia curve. L’altra notte ti ho sognato, dice mordendosi le labbra, dormivi sul prato, però c’era qualcosa nell’aria—
Saranno stati i moscerini.
Le parole si rompono in un colpo di tosse. Le gambe cedono. Crollo seduto sull’erba e sollevo lo sguardo. Diana mi sta fissando, un lampo scuro nell’iride che non riconosco del tutto. Ha intuito?
Questione di poco.
Mi sfiora la spalla, la stringe. E un’emozione impetuosa mi scuote, e un prurito, che diamine, strofino il palmo sulle palpebre e lo abbandono in grembo. Vuoi mettere con gli estremi saluti?
Sto ridendo mentre guardo Diana allontanarsi in giardino. Sto ridendo per il sogno.

Ventinove febbraio.
Ripensandoci, non è così male. Diciamo pure che è meglio di essere commemorato ogni anno. E allora. Di nuovo sento uno spasmo nel petto. Inspiro a fondo. Quanto è buona l’aria, la centellino, la soffio da una narice all’altra, la spingo giù nei polmoni. E intanto scorgo Piero tirare un calcio al pallone. E Diana?, si è piegata a raccogliere le margherite. E allora. Trattengo il fiato. Era quello che volevi, no? Niente lacrime, né addii, né altro. Sì, è proprio come avevo immaginato. Lascio andare il respiro. Anzi, meglio.

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