Cornici

Ero alle prese con un lavoro semplice.

Mi ero appena annodato alla vita il grembiule e stavo tagliando la base per la cornice di una pergamena celebrativa, consegnatami da un anziano signore con quarant’anni di attività alle spalle. Privo di orpelli e raffinate decorazioni, era un documento sobrio su cui erano riportati con i classici caratteri dorati il nome e la dicitura relativa al suo duraturo impegno professionale. Era una cornice piuttosto facile da realizzare ma, come sempre, dedicai particolare attenzione alla scelta e allo spessore del legno, così da conferire il meritato rilievo a quel rispettabile traguardo di vita. Immaginavo che sarebbe stato appeso alla parete del negozio di quell’uomo che conoscevo e stimavo per l’ educazione e la gentilezza.
Con un panno morbido tra le mani, ero intento nell’operazione di pulizia del vetro della cornice quando udii il tintinnio del campanello. Alzato lo sguardo, notai un’anziana signora con una pesante borsa in mano.
La vecchina entrò portando con sé una vampata di lavanda mista a quella della naftalina usata per proteggere la lana dalle tarme. Esile e minuta, aveva una folta chioma bianca a contorno di un ovale olivastro segnato da pieghe d’espressione e profonde rughe, come un frammento di corteccia. Aveva due vivi occhi azzurri e splendenti.
Sorrise salutando con un affettato “buongiorno”. Misi da parte la cornice su cui stavo lavorando.
«Come posso aiutarla?»
«Dovrei incorniciare queste».
Sollevò appena la borsa e io mi sporsi oltre il banco per afferrarla e appoggiarla sul ripiano di lavoro. Rimasi interdetto quando notai il contenuto: si trattava di una grossa scatola contenente un set di antiche posate d’argento: un esercito ordinato di forchette, coltelli, cucchiai e cucchiaini da tè luccicava come un tesoro appena riportato alla luce dopo anni passati in un baule.
Mi grattai la testa perplesso.
«Intende davvero far incorniciare queste posate?»
«Certamente. Pagherò qualsiasi cifra vorrà ma desidero una bella teca in vetro con una cornice elegante che non faccia sfigurare il mio servizio d’argento. Sa, è quello con cui ha cenato il nostro Santo Padre quando, ancora monsignore, venne a benedire la mia casa. Non le ho lavate da allora».
«Ah, naturalmente».
Non aggiunsi altro, nell’imbarazzo di non poterle chiedere che cosa, al tempo, le avesse fatto supporre che il curato sarebbe in seguito asceso al trono di Pietro. Non volevo rischiare di infilarmi in una discussione ai confini della spiritualità − o dello spiritismo. Mi stavo chiedendo se la vecchia fosse pazza o se l’età le stesse giocando qualche brutto scherzo.
Per non soffermarmi troppo su quella stranezza, pensai di buttarla subito sul pratico e affrontare il problema di come realizzare la teca. Così facendo presi un campione − una cornice spessa con decorazioni dorate − e lo avvicinai al bordo della scatola; l’effetto era apprezzabile ma dovevo pensare a un modo per fissare le posate, magari usando un fondo di velluto azzurro.
«Ci vorranno un paio di settimane» dissi soppesando il tempo necessario per dedicarmi a quella nuova sfida, «e credo che le costerà intorno ai trecento euro».
Ero sicuro che la cifra l’avrebbe fatta battere in ritirata, facendola ricredere sul proposito di non sciacquare le posate e, piuttosto, incorniciare una più economica foto del Papa.
«Andrà benissimo» rispose con tono sicuro la nonnina. «Le lascio un acconto?»
«Non è necessario, mi basta un nome e un recapito telefonico» balbettai sorpreso. «La chiamerò io non appena il lavoro sarà pronto e ci potremo accordare per la consegna e il pagamento».
Mi salutò con cordialità e se ne andò così come era venuta, lasciandomi con quel set di posate toccate dalle venerande mani del capo della Chiesa.

Due settimane dopo avevo incorniciato le posate come richiesto dalla nonnina. Avevo usato una pesante cornice di legno verniciata d’oro e lasciato uno scanso sufficiente tra il fondo e il vetro, così da collocare ogni elemento su un morbido letto di velluto blu, perfettamente sagomato per accogliere le forchette e i coltelli che avevano nutrito il Santo Padre. Ero soddisfatto del risultato e speravo lo sarebbe stata anche la vecchina, l’avvisai che avrebbe potuto passare a ritirare la merce.
«La ringrazio, passerà mio nipote a ritirare il quadro. E le porterà anche il compenso. Buona giornata».
Poco dopo si presentò in negozio un ragazzo sui venticinque anni, alto e prestante. Pagò in contanti e se ne andò, salutando con lo stesso sorriso cordiale della nonna.

Diversi giorni più tardi la vecchina si ripresentò alla mia porta. Stavolta portava con sé alcuni oggetti apparentemente senza valore.
«Ha fatto un così bel lavoro la scorsa volta che ho pensato di rivolgermi di nuovo a lei per quest’altra commissione» esordì, stringendosi le mani al petto in un gesto di compiacimento. «Questi oggetti erano di mia figlia. Alcuni addirittura di quando era bambina. Mi piacerebbe farne una composizione».
Era una richiesta ancora più assurda della precedente ma la donna era così entusiasta che pensai di non contraddirla. Di nuovo la soluzione migliore mi parve una buona dose di pragmatismo.
«Credo che come l’altra volta dovremo realizzare una cornice di un certo spessore e creare una sorta di teca dentro cui disporre gli oggetti secondo un certo ordine» dissi, iniziando a pensare secondo quale logica mettere insieme un pettine, un fermaglio da capelli, un vecchio scialle, una tazza e un orsacchiotto senza un occhio.
«Faccia come meglio ritiene. Mi affido al suo buon gusto. Mi chiami quando avrà finito e manderò qualcuno a ritirare il lavoro» detto questo se ne andò.

Dopo un paio di settimane le telefonai e, di nuovo, ricevetti la visita del nipote che mi consegnò il denaro e si prese la teca contenente i ricordi d’infanzia di sua madre o di sua zia. Ammetto che iniziavo a essere curioso di capire chi fosse la vecchietta e quale fosse la sua storia; perciò una sera a cena ne parlai a mia moglie. Confessai che, sebbene quelle richieste fossero aberranti, l’atteggiamento della vecchina e il suo tono di voce calmo e sereno rendevano impossibile negarle alcunché.
Mia moglie sorrise: «Chissà cos’altro ti chiederà di incorniciare. Perché, di certo, non si limiterà a quanto già fatto».
Valutai la sua ironica risposta e mi resi conto che poteva avere senso, ma non avrei mai pensato che potesse rivelarsi così azzeccata.

Nei mesi successivi la signora mi chiese di realizzare una teca e incorniciare gli oggetti personali del defunto marito − un portafogli consunto, una vecchia pipa, un orologio dal quadrante color verde e un paio di occhiali dalla montatura tartarugata − dei boccali da birra e dei bicchieri di vetro spesso, i gioielli della famiglia − perlopiù monili, collanine e anelli dall’aspetto di grosse rose d’oro con i petali ossidati − un set di penne e calamaio, portalettere, portapenne, tagliacarte, sottomano e un’infinità di foto già singolarmente incorniciate che desiderava dividere per ogni ramo della famiglia, dedicando a ognuna il suo spazio.
Sempre puntuale nei pagamenti e nei ritiri, non faceva che aumentare la mia curiosità: chi era? Che cosa aveva fatto nella sua vita? Dove abitava? Perché mai sceglieva di incorniciare tutti gli oggetti che aveva in casa − giunse a chiedermi di realizzare una teca piena di prodotti da cucina e un’altra con i più comuni oggetti da toeletta.
Non posso dire di essere stato ossessionato dalla vecchina ma vivevo nel perenne desiderio di sapere quali stranezze mi sarei presto trovato a mettere insieme.

Finché, un giorno, entrò in negozio con una custodia per vestiti quasi più grande di lei. Doveva tenere il braccio teso verso l’alto per evitare che strisciasse sul pavimento. La depose con cura sul bancone e aprì la cerniera quel tanto che bastava per scoprire un abito di merletti color avorio di finissima fattura.
«Questa è la commissione più delicata. Mi aspetto da lei il massimo impegno e la più alta cura» affermò in tono solenne. «Non deve sgualcirlo, né tirare un solo filo: questabito lho indossato tanti anni fa, il giorno delle nozze col mio amato Gianmaria Sante».
«Naturalmente» credo che la mia espressone di stupore l’avesse turbata perché mi fissò in volto e mi chiese se ci fosse qualcosa che non andava.
«Niente affatto», mi affrettai a rispondere «stavo giusto pensando a come impostare il lavoro per rendere giustizia a un così bel vestito».
«Non creda che non abbia notato la cura con cui dispone gli oggetti e la precisione da cui nascono le sue opere. So che posso contare su di lei per garantire il dovuto rispetto ai beni a me più cari. Lei non mette solo una cornice, evidenzia un momento, rende eterno un ricordo».
Ero consapevole che per lei non era un problema di prezzo; avrebbe pagato qualsiasi cifra pur di vedere il suo bell’abito dietro un teca trasparente. Così mi misi all’opera e dopo venti giorni, come da abitudine, la contattai per il ritiro.
«Mi userebbe la cortesia di portarmelo a casa?» domandò, «nell’auto di mio nipote temo che non riesca ad entrare».
Le dimensioni di questa cornice erano enormi, soltanto il mio furgone avrebbe potuto effettuare il trasporto. Così incartai per bene il tutto, usando dell’imbottitura di plastica per proteggere il vetro, caricai il pacco sul furgone e partii alla volta dell’indirizzo di casa lasciatomi dalla nonnina.

Giunto di fronte al cancello d’ingresso, fui sbigottito: si trattava di un’antica villa in centro città, con due torrette laterali che le conferivano l’aria di un piccolo castello cittadino. Le pareti color crema e il tetto con le tegole di cotto contribuivano ancora di più a sottolineare quest’immagine; il giardino, con le palme e i roseti in fiore, completava un quadro di surreale eleganza. Come avevo fatto a non notare quella leziosa casetta in quella strada che avevo percorso tante volte, anche di ritorno dal lavoro?
I sassi del vialetto d’ingresso scricchiolavano sotto le suole delle mie scarpe. Bussai alla porta, questa si aprì al primo tocco in maniera vagamente inquietante.
«Si accomodi pure, sarò subito da lei».
Riconobbi la voce della signora provenire dal piano superiore. Portai nel corridoio l’ingombrante teca con l’abito e, mentre cercavo di appoggiarla alla parete senza fare danni, notai con la coda dell’occhio un enorme salone che si apriva subito a destra, appena dietro la rampa di scale che conduceva al piano di sopra. Al salone si accedeva passando sotto un arco di muratura e si poteva notare, su un lato della stanza, un grande camino di fronte a cui era collocato un divano di cuoio color porpora.
Ma fu la parete giusto di fronte all’arco ad attirare la mia attenzione: era completamente occupata dalle mie composizioni. Non c’era neppure uno spazio vuoto, eccezione fatta per una grande area centrale che pensai subito fosse riservata al vestito da sposa. Mi avvicinai a bocca aperta a quel fulgido esempio di horror vacui quando una mano si posò sulla mia spalla e una voce mi indusse a voltarmi di scatto.
«Come al solito ha fatto un lavoro eccellente. Ecco la sua ricompensa».
La donna, che aveva scartato un angolo del pacco da me appoggiato nel corridoio d’ingresso, mi mise in mano una grossa busta piena di contanti.
«Nei prossimi giorni la contatterò di nuovo per un altro lavoro».
Mi accompagnò alla porta e, in men che non si dica, mi ritrovai sull’uscio della casa, inebetito e incapace di spiegarmi ciò che avevo visto.

Ognuno di noi ha i suoi vezzi e le sue stranezze ma l’idea di quella donna di trasformare la sua casa − anzi la sua stessa vita − in una sorta di museo era davvero unica.
Mi domandavo se nelle fredde serate d’inverno accendesse il camino e, alla luce della tremolante fiamma arancione, non contemplasse le posate con cui il futuro Papa aveva mangiato il pollo, la sera in cui si era fermato a cena; o se nel luccichio del fuoco che crepitava nel camino non vedesse il suo abito accendersi della passione della prima notte di nozze; o se, ancora, non le sembrasse che il vivo baluginio del focolare non restituisse la vita a quegli oggetti nei quali si erano incarnati i più bei ricordi della sua esistenza terrena.
Pensai vi fosse un pizzico di materialismo di troppo, persino in questo pensiero strappalacrime che ero riuscito a plasmare, e tornai a concentrarmi sul mio lavoro quando udii il campanello. Era il nipote della donna.
«Mia nonna le vorrebbe chiedere di realizzare una cornice di queste dimensioni» e mi porse un foglietto su cui erano riportate con elegante grafia altezza e larghezza della cornice. «Deve essere un pezzo particolarmente sontuoso. La prego di non badare a spese e di selezionare i migliori materiali».
«Non c’è problema, ma che cosa dovrei incorniciare?»
«Lei pensi solo alla cornice. Mia nonna desidera che venga applicata direttamente a casa sua. E le chiede la massima priorità. Anche per questo sarà ben disposta nei suoi riguardi».
Era una richiesta priva di senso ma, considerate le precedenti scelte della vecchia signora e quanto avevo visto in casa sua, non ne fui sconvolto. Ricevevo le più comuni e scontate commissioni, una foto di famiglia, un quadro, un dipinto d’epoca, e a ognuna mi dedicavo con tutta la precisione e lo scrupolo di cui sono capace; ma da quando quella strana vecchina aveva iniziato a incaricarmi di incorniciare gli oggetti di cui si era riempita la sua vita, di volta in volta mi sentivo più attratto dalla sfida e desideroso di conoscere il suo progetto. Inoltre, quella fugace occhiata al salotto dove tutte le mie cornici si incastravano lungo le pareti, in una sorta di puzzle dell’esistenza terrena della signora, aveva amplificato la mia determinazione a scoprire che cosa essa avesse in mente.
«D’accordo. Passerò per il lavoro entro un paio di giorni, ho solo bisogno di controllare i materiali di cui dispongo e procurarmi i campioni necessari per la cornice».

Mi recai a casa sua portando con me una cornice fittamente intarsiata e verniciata d’oro con riflessi rosati. Era davvero straordinaria, il pezzo più costoso del catalogo. Avevo con me gli strumenti per il montaggio e il vetro che due uomini all’ingresso mi aiutarono a trasportare dentro casa. Mi fecero accedere al salone, dove tutte le mie opere avevano trovato posto sul muro. Era davvero la mappa di un’intera esistenza. Non potei non essere di nuovo sopraffatto dalla sorpresa quando notai, proprio al centro, una nicchia coperta da un drappo di raso viola. La cornice serviva a chiudere la nicchia, sigillandone il rivestimento.
Mi avvicinai per togliere il velo e procedere con le operazioni quando il nipote della donna, comparso improvvisamente alle mie spalle, mi trattenne. «È necessario che lei sigilli la nicchia e applichi la cornice senza rivelarne il contenuto».
«Ma non si può» risposi sbigottito, «devo poter vedere i bordi per farlo».
«La prego di rispettare la volontà di mia nonna».
Quell’incarico si stava rivelando ridicolo. Mi misi al lavoro e tagliai i pezzi della cornice mentre i due uomini applicavano il vetro alla nicchia. Che senso poteva avere mai incorniciare uno spazio coperto da una tenda? Decisi che non fosse il caso di porsi domande e conclusi l’opera con meticolosità e precisione.
Alla fine mi allontanai di qualche passo a contemplare il risultato e notai, proprio in quell’istante, che il camino era stato acceso e che la stanza era invasa della calda luce di un fuoco crepitante. Da qualche giorno la temperatura era cambiata, segno incontrovertibile che l’inverno era alle porte, e un bel fuoco acceso era l’utile soluzione per asciugare l’umidità che spesso invade quelle antiche abitazioni con le camere dai soffitti alti.
D’istinto, mi portai vicino alla fiamma, stesi la mano in un gesto che avevo fatto automaticamente migliaia di volte e nel silenzio dell’ampio salone sentii un fruscio ovattato, come di una tenda mossa dal vento. Mi girai verso la parete notando che il velo che oscurava il contenuto della nicchia era scivolato a terra.
Fu allora che vidi con orrore qual era il contenuto della nicchia che io stesso avevo sigillato.
Avevo immaginato che la nonnina volesse far collocare una statua di marmo in quella teca − magari una di quelle che occupavano il suo giardino di casa − per cui non mi ero fatto troppe domande, mai avrei pensato di scorgere oltre il vetro la nonnina stessa.
Se ne stava lì, seduta su un’antica poltrona in stile Luigi XIV, di velluto rosso, con la testa china e le mani giunte in grembo. Avevo tumulato io stesso quella signora nella sua tomba di vetro, senza nemmeno sospettare un tanto orrido proposito. Ero complice di quell’abominio e mi fiondai verso il vetro per tirare fuori da lì il cadavere, quando la signora alzò la testa e aprì gli occhi.
Rimasi gelato sul posto con il martello alzato e pronto a infrangere il vetro.
La mia espressione sbigottita dovette averla divertita perché mi sorrise, come tante volte aveva fatto in passato, quando probabilmente aveva letto i miei pensieri dovuti alle sue strane richieste.
«Non vorrà rovinare questa meravigliosa opera?»
Il tono delle sue parole giungeva basso da dentro la teca, come quello di qualcuno che parli indossando un casco. I suoi occhietti brillavano come due gemme riflettendo la vivace danza della fiamma nel camino.
Avevo raggiunto il limite. Non riuscivo a capire se fosse uno scherzo o l’apice di un comportamento maniacale ma ritenni di non volerlo assolutamente scoprire, perciò lasciai cadere a terra il martello e scappai da quella casa di matti senza nemmeno voltarmi.
Mentre uscivo dalla porta sentii ancora la voce della nonnina che mi invitava a prendere la busta con il mio onorario dal tavolino di servizio accanto all’ingresso.

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