Conto le ore in pagine.
Dieci corrispondono a un’ora se ci sono le immagini, ma spesso proprio loro sono i geroglifici più indecifrabili. Per questo lo studio è un martirio e per lo stesso motivo ho risposto al professore – che credeva non avessi studiato abbastanza – che in realtà avevamo un difetto comune: non riuscire a comprendere. Riesco a vedermi cresciuto, implorante aiuto dopo essere precipitato in qualche lacuna o perdere la gara del sapere tutto prima di tutti.
Tanto varrebbe fermarsi, penso, che fra il non arrivare da nessuna parte correndo o stando fermi, quel che ne risulta è sempre lo stesso; magari lasciare tutto, persino la vita: non per ansia, ma per mancanza di speranza. Poi invitarli alla laurea, parenti e amici, osservarli dall’alto e vedere negli sguardi di ognuno la tacita incomprensione di chi ancora non realizza cosa forzi le persone ad arrendersi. Si increspano le fronti, si esauriscono le fonti di lacrime e a loro rimane solo la delusione infondata di chi pensa che la scelta del cavallo vincente sia una scienza esatta.
Pensare a questo mi ingolfa. Così abbandono le pagine aperte ed esco in giardino, dove con l’erba gioco a farci il solletico e la terra, materasso, mi accoglie come se avessi sempre fatto parte del paesaggio. Il sole mi abbraccia e mi addormento cullato dal piacere di conoscere il processo dell’abbronzarsi: l’ho studiato per un esame qualche mese fa e per quell’attimo mi sento colto, competente.
Dopo aver chiuso gli occhi, in poco muoio in un sonno liberatorio. Poi compare mia madre: nel sogno mi parla con occhi nivei girandosi appena. Il suo sguardo è una condanna. La fossa scende per tre metri e lei è sul fondo, mentre con la mano, una vanga inzaccherata, si asciuga il sudore dal viso. Io la guardo dal bordo.
Lasciare gli studi è come scavarsi la tomba con le mani, ma essersi mangiati troppo le unghie, dice, E senza unghie non hai nulla per scavare.
Poi si alza, mi prende per mano e mi conduce nel giaciglio. Sdraiato, mi incrocia le mani e, con l’alito che sa di carcassa, mi bacia la fronte. Lei esce dalla buca e mi veste di un manto di terra: il velo marrone che mi copre la faccia, di pala in pala, si fa buio.
Torna a studiare invece di perdere tempo, mi dice mentre mi seppellisce, C’è tanta gente messa peggio di te.
Mi sveglia quello che sembra un terremoto, come se avessero preso in mano il mondo e lo stessero scuotendo. Mia madre mi guarda: il sole la grazia con un’aureola.
Non so se me la sento di continuare a studiare, le dico.
Provaci, risponde.
“magari lasciare tutto, persino la vita: non per ansia, ma per mancanza di speranza” da questa frase in poi l’ho sentito proprio sotto la pelle. Mi è piaciuto molto, e ho trovato il finale molto ben dosato. Complimenti, molto bello
Grazie davvero!