Frammenti da un rombo di tuono e la notte insonne

Si riempie la vasca.
Le paperelle. I castelli di bolle sculture dei ghiacci del profondo Nord della mia immaginazione primordiale che non c’è più adesso. Se scrivo lo faccio rastrellando.
Siamo in due.

Ho gli anni delle dita di quando contavo male e mi faceva paura che s’incazzasse che ero impedito in matematica, lei che soffriva servendomi ad altezza bimbo un lungo addio e non voleva mi perdessi senza più scorgere i suoi segnali, domani. Oggi più che mai.
Ma non c’era paura perché non la contemplavo possibile, quella cosa, quando mi chiese se le avrei voluto bene senza la sua bellezza (rosa da un cancro al colon al fegato al pancreas non l’ho mai capito e non mi interessa ma che potrei ereditare: dovrei farmi una visita, un giorno).
Con gli occhi di adesso vedo come quando si appannava il vetro dello specchio quadrato e restituiva a lei il suo ritratto dal futuro o di tutti i passati remoti scorsi in un lampo, a me il suo Dorian Gray stando a mollo nell’ignoranza anagrafica, con la testa all’altezza di quel cuore che ha ribadito all’infinito fino all’estrema volontà del mio vero nome. Luci

che soffocano nella notte di una tavolata con i soliti volti di casa a sinistra di fronte a destra: sempre gli stessi che invecchiano a ogni pasto e tra le gambe non c’è più il carlino, Romolo, un regalo che sostituisse le sue attenzioni, calore, per me: «Pensami quando lo accarezzi, lo stringi a te».
Riecheggia lontano ormai muto ma queste parole sono impresse sulla pancia del fotogramma di quel momento in vasca. Possibile me le abbiano riferite, dovrei togliere il virgolettato: Pensami quando lo accarezzi, lo stringi a te.
Meglio, tanto è tutto troppo remoto per farmi stare peggio.
Non sento più niente. Il dolore si è aggiornato.

C’è però una cena che mi attanaglia da una recente notte di gastriti:

la bottiglia era vuota quando gliela sbattei sui capelli che adesso sono i miei per chi la ricorda reincarnata nel carattere lunare di suo figlio. Sedeva nello spiraglio vuoto di un mio ricordo.
«E se fosse stata di vetro?»: disse mio zio-suo fratello che porta l’iniziale S. nel covo del collo del cuore.
Nella mia testa risposi che se fosse stata di vetro l’avrei ammazzata: per come mi aveva umiliato che non mangiassi una cotoletta, quindi sarei diventato rachitico, brutto, il cadavere che non ho mai saputo se gonfio oltre il sipario di quella sagrestia nel dietro le quinte della morte, l’unica pianta, che l’avrebbe estirpata dalle sue ferite irrevocabili.

Di nuovo alla prima scena, l’ultima:

eravamo in bagno, in vasca, in due, uno di fronte all’altro, sproporzionati dall’età che tra otto anni sarà comune e in quella stessa situazione saremo ormai scomodi.
Dall’ombelico con il piercing perché era bellissima (me lo dicono tutti pensandomi col cervello nella nebbia dei deficienti), uno squarcio cicatrizzato che solca il ventre del mio primo suono mondiale e del suo ritorno al Nulla o a Cristo.
«Mi vorrai ancora bene?».
Con una voce che nel sangue doppio usando la mia perché non ricordo che effetto facesse la sua lingua ormai estranea; a pronunciare come un commiato i rimasugli di insegnamento prima del salto che ha trapassato la storia di tutta la mia sconquassata emotività.
Ho il suo naso e i suoi piedi fianchi ossa, oltre i capelli; la sua foto di semi-profilo che ho in libreria, accanto al mio cupo ritratto di grezzi contorni moderni fatti a mano dalla mia metà conseguita a graffi, spalla a spalla nell’estate magica, Erika.
Sabina, mia madre, la posso imitare fuori cornice sulla cornice di uno specchio che adesso se spanno mi rinfaccia che siamo simili ma non saprò mai se ho fatto bene a imitarla, a ricordarmi soltanto adesso come descriverla ancora viva e immortalata.

Siamo nudi.
Mi sono appena spogliato in pubblico di pagine di parole scatarri di un pianto antico.
Scendo di livello tra i suoi resti di polvere in via dell’Emiciclo, civico senza citofono, risposte per convinzioni se capissi come credere meglio.

Ho una memoria incontrollabile che vorrei mi permettesse di vivere, per non morire di fame guadagnando fama e i soldi di un’età futura più che adulta, perché mentre scrivo ho ventisette anni, non so che inventarmi, sgranchisco le mie memorie estendendole senza sosta.

Vorrei che queste mi permettessero di vivere per non doverla toccare alle spalle – nel prato del Vuoto, celeste, qualsiasi passo successivo mosso dal tremendo terrore dell’inettitudine – dicendole che sono qui, lì.
E che non ho talento. Che mi manca.
Non saprei dire quanto niente.

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